«Ho sbagliato. È tutta colpa mia» disse Bachmann con voce sorprendentemente chiara.
Le sue lacrime si erano esaurite nel tempo che Caspar aveva impiegato a rialzarsi da terra e pulirsi i pantaloni del pigiama.
«Che diavolo è successo?» chiese Schadeck accanto al tavolo da pranzo. Aveva in mano qualcosa che a prima vista sembrava una sacca sportiva.
Il custode si infilò in tasca gli occhiali e diede un colpo di tosse secca. «Voleva... voleva fare un salto in dispensa».
Tom e Caspar si scambiarono un’occhiata sbalordita. Non era necessario che Bachmann pronunciasse il suo nome, sapevano benissimo a chi si riferiva. Avevano sentito le grida della cuoca, e la sedia su cui era seduta Sybille Patzwalk era vuota.
«Cosa cercava?» domandò Caspar.
«Queste, – intervenne Schadeck rovesciando il contenuto della sacca sul tavolo tirato a lucido. – La cicciona ha rischiato la vita per queste».
Una confezione di ravioli ammaccata e alcune scatolette rotolarono fuori e Caspar seguí incredulo la loro traiettoria.
«E tu dove l’hai presa questa roba?» chiese frastornato.
Schadeck sbuffò e picchiò la mano aperta sul tavolo.
«Dannazione, che importanza ha? Il Ladro di anime ha rotto la lampadina e trascinato Sybille fuori dalla stanza, forse nella colluttazione lei si è portata dietro la sacca, cosa ne so io. Ho afferrato quel pazzo per i piedi, ma erano cosí..., – disse mostrando agli altri i palmi sporchi di sangue, – cosí scivolosi che non sono riuscito a trattenerlo. In compenso la borsa mi è piombata dritta sulla testa. Ho pensato fosse piena di armi e l’ho presa, ma chissene frega adesso? Piuttosto, si può sapere cosa ci faceva la cuoca fuori da sola?»
Tom avanzò di un passo verso Bachmann e tirò indietro le spalle con espressione minacciosa.
«Ehi, custode, sto parlando con te».
I jeans bianchi di Schadeck erano bagnati in corrispondenza del cavallo, e per un attimo Caspar si domandò se l’infermiere se la fosse fatta addosso per la paura, poi però si ricordò delle flebo. In farmacia, prima che tornassero di corsa in biblioteca, Tom le aveva fissate alla cintura. Doveva essersene rotta una mentre strisciava bocconi davanti al ripostiglio.
«Quando voi non c’eravate ha ricominciato a parlare» spiegò Bachmann esitante, e guardò Sophia sulla sedia a rotelle.
«Sopor, o quello che è. Sí, insomma, l’avete sentita anche voi. Sybille ha pensato avesse fame».
Caspar annuí. Era molto probabile che il centro del linguaggio nel cervello di Sophia fosse danneggiato. D’altro canto aveva l’impressione che gli sfuggisse qualcosa di importante, ma quando Bachmann riprese a parlare scacciò i suoi dubbi.
«Ovviamente non ero d’accordo, ma la dispensa è proprio qui davanti e Sybille ha detto che c’era una borsa di provviste già pronta, allora mi sono lasciato convincere».
«Non ci posso credere».
Schadeck allargò le braccia in un gesto teatrale.
«Hai spinto una donna indifesa tra le braccia del Ladro di anime per un po’ di cibo in scatola!»
«Calmati» attaccò Caspar, ma Bachmann lo interruppe.
«No, indifesa no. Le ho dato la mia pistola».
«Cosa?»
Ora anche Caspar era fuori di sé. Si portò le dita intirizzite alla tempia, toccando i capelli bruciati.
«Gesú, sei piú suonato di quelli rinchiusi qui» gridò Tom. Sembrava sul punto di rovesciare il tavolo, la vena del collo gli pulsava all’impazzata.
«Adesso quel pazzo là fuori è anche armato!»
«È soltanto una scacciacani».
«Silenzio!» urlò Caspar interrompendo la discussione. Poi abbassò di nuovo la voce.
«Siamo nei guai, Tom, ma non possiamo piú tornare indietro. – Fissò l’infermiere dritto negli occhi. – Tra l’altro abbiamo lasciato aperta la farmacia, sicuramente lí ci sono abbastanza elementi per fabbricarsi un’arma».
«Esatto. Compresa una pistola per l’anestesia» sussurrò Bachmann.
«Merda, e ce lo dici solo ora?» Schadeck mollò un calcio al portariviste e i giornali si sparpagliarono sul parquet a spina di pesce.
«E adesso?»
«Adesso facciamo quello per cui siamo usciti di qui, pensiamo a Sophia». Caspar chiese a Schadeck di consegnargli una flebo e lui obbedí controvoglia.
«Tieni, ti servono anche questi». Tom tirò fuori dalla tasca una siringa e un ago sigillato e li gettò sul tavolo.
Caspar li prese e si diresse al camino. Yasmin, seduta a gambe incrociate sul pavimento davanti a Sophia, le accarezzava una mano.
Lo sguardo di Caspar cadde sulle strisce di nastro adesivo usate per fissare le ghirlande di luci alla mensola. Ne staccò due e chiese a Yasmin di allontanare la sedia a rotelle dal fuoco, poi sollevò con una certa difficoltà la manica di Sophia scoprendole il braccio. La dottoressa sembrò non accorgersi di nulla.
«Dovremmo aiutare Sybille, – disse Yasmin con un tono a metà tra l’interrogativo e il perentorio, mentre lui batteva un dito sull’incavo del gomito di Sophia. – Forse potremmo riuscire a liberarla».
«Ho paura che sia troppo tardi» intervenne Tom. Ora la sua voce era decisamente piú gentile.
Caspar udí uno «Yazzie» non espresso a parole alla fine della frase. Applicò l’ago alla siringa e lo infilò senza riflettere nella vena ben visibile di Sophia.
L’ho già fatto davvero.
«Prima che andasse via la luce ho dato un’occhiata nel ripostiglio, – spiegò Schadeck. – Non ho trovato un bello spettacolo. Penso le abbia spezzato l’osso del collo».
«Sybille... è morta?» gemette Yasmin arretrando di un passo.
«No, non credo» li contraddisse Caspar senza alzare gli occhi. Aveva estratto la siringa e attaccato la cannula della flebo. Per l’intera durata dell’operazione Sophia non aveva mostrato reazioni.
«Perché uccidere e portare via i corpi? Perché non ha lasciato Linus, Raßfeld e Sybille dov’erano?»
Caspar si fece dare un fazzoletto di carta da Yasmin, lo piegò piú volte e lo fermò sull’ago con il nastro adesivo.
«E che cazzo ne so? – L’aggressività dell’infermiere divampò di nuovo. – Forse è un fottutissimo collezionista di cadaveri».
«No, penso sia uno che ama il rischio. Per questo lascia i foglietti con gli indovinelli e ha preso il dittafono. – Caspar sollevò la testa. – Sta giocando con noi. E la posta è Sophia».
«Okay, allora lasciamogliela». Schadeck alzò le mani. «Ehi, scherzavo». Il suo sorriso era stranamente sincero, tradiva addirittura un’ombra di malinconia. Tom continuò a stupirlo offrendosi di tenere la flebo, da cui le prime gocce di soluzione elettrolitica stavano già rotolando come biglie nei vasi sanguigni di Sophia.
«Grazie». Caspar gli consegnò la flebo e si spostò a capotavola.
«Allora, riassumendo: non conosciamo il movente del Ladro di anime, non sappiamo in che modo riesca a mandare in coma le sue vittime e nemmeno perché abbia preso di mira proprio Sophia. Poi ci sono Raßfeld, Linus, la Patzwalk e Mr Ed: dove li ha portati? Sono vivi, sono morti?»
Bachmann inspirò rumorosamente, ma Caspar proseguí.
«Tutte domande che non hanno una risposta, però non dobbiamo mettere a repentaglio la nostra vita per trovarla. D’ora in avanti dobbiamo restare uniti e cercare di aiutare Sophia».
Mentre parlava a un tratto ebbe la sensazione che una freccia gli trafiggesse il petto.
Poi capí con spaventosa chiarezza che quel dolore lancinante era stato provocato da un pensiero improvviso: e se il Ladro di anime non puntasse affatto a Sophia ma a lui? Se volesse solo impedire a Sophia di rivelargli cosa aveva scoperto su di lui e su sua figlia?
Si sforzò di non lasciar trasparire il proprio stato d’animo e continuò a parlare.
«Come tutti noi, anche la dottoressa Dorn deve resistere solo per le prossime ore, finché non arrivano i soccorsi. Inoltre è il nostro passaporto per la libertà. Conosce il codice».
Il codice della mia identità.
«E vuole dirci qualcosa».
«Prima devo verificare».
«Forse riusciamo a capire cosa prima che...»
Si bloccò a metà frase, abbassò gli occhi sui piedi scalzi e si meravigliò nell’accorgersi che stava sudando, nonostante indossasse solo i leggeri pantaloni del pigiama e una T-shirt a maniche corte.
Si toccò la fronte per sentire se aveva la febbre, pur sapendo che non si trattava di un raffreddore e che la responsabilità di quell’attacco di sudore andava attr...