
eBook - ePub
De officiis
Quel che è giusto fare
- 408 pagine
- Italian
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- Disponibile su iOS e Android
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De officiis
Quel che è giusto fare
Informazioni su questo libro
Nel 44 a. C., in un periodo di profonda crisi delle istituzioni sociali e politiche di Roma, Cicerone dedica al figlio Marco un trattato che intende riordinare le forme dell'interazione tra i cittadini e rifondare la res publica. Consapevole che l'antico sistema di valori è ormai superato, Cicerone tenta di organizzare un sistema di trasmissione della memoria fra generazioni, regole di comportamento che indichino «quel che è giusto fare» ai giovani della città, cui tocca ripartire dalle rovine ancora fumanti dello stato. Una specie di «Etica spiegata a mio figlio», come si intitolerebbe oggi, che è diventata uno snodo fondamentale per il mondo latino, medievale e moderno, permeando la cultura occidentale fino ai giorni nostri.
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Informazioni
De officiis
LIBRO PRIMO
[1, 1] Sebbene sia convinto che tu, caro Marco, figlio mio1, che ormai da un anno ascolti le lezioni di Cratippo ad Atene2, debba essere di necessità ben provvisto di insegnamenti e di istituzioni di filosofia, proprio per la somma autorevolezza del tuo maestro e della città in cui studi (dei quali l’uno può farti crescere attraverso la sua sapienza, l’altra attraverso gli esempi della sua storia) tuttavia, sulla scorta di quanto ho già fatto nel passato, in cui mi sono trovato a congiungere il latino con il greco, per il mio vantaggio, e ciò non solo in ambito filosofico, ma anche nella pratica dell’eloquenza, ti consiglio ti fare lo stesso, perché la tua abilità possa essere pari nell’una e nell’altra lingua. Questa è la ragione per la quale crediamo di avere portato un grande aiuto ai bisogni dei nostri concittadini, in modo che non solo coloro che erano alle prime armi con il greco, ma anche coloro che lo conoscevano bene, ritengano di aver fatto significativi progressi nella capacità di parlare in pubblico e in quella di argomentare. [2] Dunque tu imparerai dal filosofo piú importante di questa generazione, e imparerai per tutto il tempo che vorrai; e dovrai desiderarlo tanto a lungo, fino a quando potrai imparare senza provare pentimento per la tua scelta. Se tuttavia leggerai i miei scritti filosofici, non molto distanti dalle posizioni dei peripatetici, poiché ho voluto essere contemporaneamente socratico e platonico3, sulle questioni in quanto tali farai uso del tuo metro di giudizio – non intendo certo impedirtelo – ma sicuramente, attraverso la lettura delle mie opere, renderai la tua padronanza del latino piú piena e completa. Vorrei che non giudicassi le mie parole arroganti: infatti, anche se concedo a molti altri la palma della conoscenza filosofica, credo di poter rivendicare a me stesso, a buon diritto, le qualità proprie dell’oratore, la capacità di esprimersi in modo adeguato agli argomenti, chiaro alla comprensione, elegante nella forma, proprio perché ho trascorso la mia intera vita in tale studio. [3] Per queste ragioni ti incoraggio, con tutte le mie forze, figlio mio, a leggere con attenzione non solo i miei discorsi pubblici, ma anche i trattati di filosofia che ho scritto, che ormai sono egualmente numerosi, perché nei discorsi c’è sicuramente una piú grande potenza espressiva, ma occorre praticare anche uno stile piano e temperato. Mi rendo conto che, fino ad oggi, a nessun greco toccò di esercitarsi in entrambi gli ambiti, e di praticare lo stile adatto al foro e quello pacato della discussione filosofica, anche se forse si può contare Demetrio Falereo4, che fu capace di discussioni sottili, oratore di poca forza ma piacevole tuttavia, tale da poter riconoscere in lui un allievo di Teofrasto5. Io certo lascio al giudizio altrui i progressi conseguiti in entrambi gli ambiti, ma certo posso affermare di aver perseguito tutte e due le strade. [4] Ritengo che Platone6, se avesse voluto occuparsi di oratoria forense, avrebbe potuto esprimersi con uno stile molto autorevole e ricco; anche Demostene7, se avesse tenuto presente quanto aveva appreso da Platone, e avesse voluto dargli espressione, avrebbe potuto farlo in modo elegante e splendido8. Penso la stessa cosa a proposito di Aristotele e di Isocrate9, ognuno dei quali provò piacere solo nello specifico delle propria attività, e trascurò quella dell’altro.
[2] Comunque, poiché avevo deciso di scrivere per te qualche cosa, in questo momento, e molte altre dopo, ho voluto iniziare da ciò che ritengo particolarmente adatto alla tua età e alle mie prerogative. Ci sono, in ambito filosofico, molte questioni importanti e utili che sono state accuratamente e abbondantemente discusse dai filosofi, e mi sembra che una notevole estensione abbiano le trattazioni e la precettistica da questi lasciate intorno alla questione dei doveri. Nessuna parte della vita, né pubblica né privata, né legata a questioni civili né connessa ad attività domestiche, né in questioni personali né in questioni con altri soggetti, può restare sgombra dalla presenza di «ciò che è giusto fare», e nel rispetto di questo principio si colloca la realizzazione di una vita onesta, cosí come il disonore consegue alla trascuratezza di esso. [5] Una simile questione appartiene a tutti i filosofi: chi infatti potrebbe definirsi tale se non avesse lasciato una precettistica sui doveri? Vi sono comunque alcune dottrine che, una volta definito il concetto di bene e il concetto di male, stravolgono ogni idea di «dovere»10. Chi definisce il sommo bene in modo tale che non abbia alcun collegamento con la virtú, e lo misura sulla base dei propri vantaggi, non di ciò che è giusto, costui, se è coerente con se stesso e non si lascia avvincere dalla naturale disposizione alla bontà, non potrebbe né coltivare l’amicizia, né la giustizia, né la liberalità; certamente in alcun modo forte può essere chi giudica il dolore sommo male, né equilibrato chi stabilisce che il sommo bene è il piacere. Questi argomenti, per quanto siano talmente evidenti da non aver bisogno di essere discussi, sono stati affrontati da me in un altro trattato11. [6] Queste scuole filosofiche, se vogliono essere coerenti, non possono dire alcunché intorno al dovere, e neppure si possono insegnare precetti certi, stabili, naturali riguardo a esso se non da parte di coloro che sostengono che solo (o comunque prevalentemente) ciò che è morale deve essere perseguito per se stesso. Cosí tale precettistica appartiene in modo particolare agli stoici, agli accademici, ai peripatetici, poiché già da un pezzo è stata confutata l’opinione di Aristone, di Pirrone e di Erillo12. Costoro tuttavia avrebbero tutto il diritto di discutere del dovere, se avessero lasciato un qualche criterio attraverso il quale fosse possibile arrivare a scoprire l’idea di dovere. Dunque, in questa situazione e in questa specifica questione seguiamo in modo particolare gli stoici, non come traduttori, ma, secondo quanto siamo soliti fare, attingeremo dalle loro sorgenti, in base al nostro giudizio e alla nostra volontà, quanto e in qualunque modo ci parrà opportuno farlo. [7] È mia intenzione dunque, poiché la discussione verterà tutta intorno al dovere, definire prima che cosa sia il dovere stesso, cosa che, mi accorgo con stupore, da Panezio13 venne tralasciata: infatti ogni insegnamento che ragionevolmente venga intrapreso intorno a un argomento, deve partire da una definizione, perché si comprenda qual è l’oggetto di cui si discute ***.
[3] Ogni indagine riguardante il dovere è costituita di due aspetti: il primo che riguarda il fine del bene, il secondo che è riposto nei precetti ai quali sia possibile conformare in ogni direzione la pratica della vita. Esempi del primo tipo di indagine sono: se tutti i doveri siano compiuti, se qualche dovere sia piú importante di un altro, e questioni dello stesso genere. Dei doveri dei quali si tramandano precetti, sebbene essi riguardino il fine del bene, tuttavia questo appare meno chiaro, poiché sembrano maggiormente riguardare l’organizzazione della vita comune; riguardo a questi ho deciso di dare spiegazioni in questo trattato.
[8] Esiste anche un’altra divisione interna al concetto di dovere: infatti esiste un dovere che vien definito «medio» e quello che viene definito «perfetto». Credo possibile che chiamiamo «retto» il dovere perfetto, poiché i Greci lo hanno definito katórthōma, mentre chiamano kathêkon la forma comune di dovere. E definiscono questi concetti in modo tale che, ciò che è retto, lo definiscono come dovere «perfetto»; chiamano «medio» il dovere del quale si possa rendere probabile conto delle ragioni per cui è stato compiuto14. [9] Secondo Panezio è triplice la forma della decisione sul da farsi: ciò che ricade nella decisione infatti o è morale o è vergognoso; in questa considerazione spesso gli animi dei soggetti sono trascinati in opposti pareri. In secondo luogo, essi o ricercano o si chiedono se ciò di cui devono decidere conduca oppure no a una condizione di vita vantaggiosa e felice, alla disponibilità economica e alle ricchezze, alle risorse, alla potenza, con cui poter giovare a se stessi e ai propri parenti; si tratta di una decisione che ricade tutta nel conto dell’utile. Una terza tipologia di dubbio si presenta quando ciò che sembra utile sembra in contrasto con ciò che è morale; infatti, poiché l’utile sembra che ci trascini verso di sé, mentre ciò che è morale pure sembra chiamarci indietro, accade che l’animo nell’atto del decidere si trovi distratto in direzioni opposte e effettui pensieri ambivalenti. [10] In questa divisione, e certo tralasciare qualcosa in una suddivisione rappresenta l’errore piú grande, due elementi sono stati tralasciati; né infatti abitualmente occorre solamente decidere tra il vergognoso e ciò che è morale, ma anche quale decisione sia piú morale tra due possibilità entrambe morali, e anche quale sia piú utile tra due possibilità ugualmente utili; per cui, si scopre che quella trattazione che si pensò dovesse essere triplice, in realtà debba essere distribuita in cinque parti. Per prima cosa dunque occorre discutere di ciò che è morale, ma in modo duplice, poi allo stesso modo dell’utile, infine del confronto tra queste due cose.
[4, 11] Di tutto principio, a ogni specie di esseri viventi la natura ha concesso la capacità di allontanare da sé, allo scopo di proteggere la vita e il corpo, le cose che sembrino destinate a nuocere, e inoltre quella di cercare e procurarsi tutte le cose necessarie per vivere, come il cibo da mangiare, i luoghi dove rifugiarsi, e altre cose di questo tipo; è comune inoltre a tutti gli esseri viventi la propensione all’accoppiamento per generare una prole, e anche la cura nei confronti di coloro che sono stati generati. Ma tra l’uomo e la bestia questa è la differenza piú grande, ed è il fatto che la bestia, nella misura in cui è sollecitata dalla sua sensibilità, si dispone soltanto a ciò che è presente e a portata di mano, poiché percepisce davvero poco del passato o del futuro. L’uomo invece, poiché è partecipe dell’intelligenza attraverso la quale distingue le conseguenze, osserva le cause e non ignora le loro premesse, per cosí dire i loro prodromi, mette a confronto ciò che si assomiglia e aggiunge e connette al presente il futuro, scorge facilmente il corso dell’intera vita e prepara ciò che è necessario a percorrerlo. [12] La natura stessa, con la forza della ragione, concilia l’uomo all’uomo sia in direzione di una socialità del linguaggio, sia in direzione di una socialità della vita, e fa nascere in lui in primo luogo un particolare amore verso coloro che ha generato, e lo spinge a volere che ci siano e che siano intraprese riunioni e frequentazioni tra gli uomini, e per queste ragioni desideri procurarsi quelle cose che servono alla vita e al nutrimento, e non solo per sé, ma per la sposa, per i figli, per gli altri che ha cari e che deve proteggere; cura che risveglia anche gli animi e li rende piú grandi, allo scopo di compiere imprese15. [13] In primo luogo è propria dell’uomo la capacità di indagare e investigare la verità. Per cui quando siamo liberi dalle occupazioni necessarie e dalle preoccupazioni, allora proviamo il desiderio di osservare, ascoltare, imparare cose nuove, e riteniamo necessaria a vivere felici la conoscenza di cose nascoste o mirabili; da ciò si comprende che ciò che è vero, semplice e autentico risulta particolarmente adatto alla natura umana. A questo desiderio di osservare il vero è collegata una certa tendenza a primeggiare, in modo che l’animo ben forgiato dalla natura non desideri obbedire ad alcuno se non a chi è in grado di fornire precetti, o a chi è in grado di insegnare, o a chi impartisce ordini per l’utilità comune, in termini pienamente legittimi; è da questo che deriva la magnanimità e il disprezzo delle cose umane. [14] Né in verità è piccola quella forza della natura e della ragione, cioè che solo l’essere vivente che è l’uomo percepisca che cosa sia l’ordine, che cosa sia ciò che è giusto, quale misura ci sia nelle azioni e nelle parole. Cosí, di quelle stesse cose che sono percepite dalla vista, nessun altro essere vivente percepisce la bellezza, la grazia, la proporzione delle parti; la natura e la ragione trasferiscono per analogia questa attitudine dagli occhi all’anima, e cosí gli uomini ritengono che anche molto di piú la bellezza, la coerenza, l’ordine debbano essere conservati nelle decisioni e nelle azioni, ed evitano di comportarsi in modo indecoroso o effeminato, e infine di fare o pensare qualcosa in modo capriccioso in tutte le opinioni o atti. Da tutti questi elementi si forma e si costituisce l’oggetto della nostra indagine, ciò che è moralmente corretto, il quale sebbene non sia noto all’attenzione di tutti, tuttavia resta morale, e del quale possiamo affermare che, anche se non riceve approvazione da nessuno, è lodevole per natura.
[5, 15] Tu vedi appunto, figlio mio, la forma stessa, e quasi il volto della moralità, che se fosse visibile agli occhi «susciterebbe mirabili innamoramenti», come asserisce Platone16. Ma la moralità nasce da ciascuna delle seguenti quattro parti: si colloca infatti nella disamina accurata della verità, oppure nella protezione accordata alla società umana nonché nell’attribuzione a ciascuno di ciò che gli spetta e nella garanzia degli accordi stipulati, oppure nella grandezza e nella forza di un animo eccelso e invitto, oppure nell’ordine e nella misura di tutte le cose che vengono dette e fatte, in cui risiede la moderazione e il controllo delle passioni. Sebbene queste quattro fonti siano tra loro collegate e intrecciate, tuttavia specifici tipi di dovere scaturiscono da ciascuna di esse, per esempio, nella parte che è stata descritta per prima, in cui collochiamo la sapienza e la saggezza, si trova l’indagine e la scoperta della verità, e di tale virtú questo rappresenta uno specifico dono. [16] Quanto piú infatti uno osserva soprattutto che cosa sia vero in un ambito, tanto piú in modo acuto e celere può vederne e spiegarne la ragione, e questi suole essere ritenuto giustamente l’uomo piú saggio e piú sapiente. Per cui la verità è sottomessa a questa parte, come materia che essa tratta e nella quale si svolge. [17] Le rimanenti tre virtú sono necessariamente finalizzate a preparare e custodire quelle cose nelle quali è contenuta la vita, affinché la società e l’unione degli uomini sia preservata, e la superiorità e la grandezza d’animo, tanto nello sviluppo dei mezzi e dei vantaggi da procurare a sé e agli altri, quanto molto di piú nel disprezzo di queste stesse cose, possano risplendere. L’ordine, la coerenza e la moderazione, e quelle cose a esse simili, si muovono in quest’ambito, al quale bisogna rivolgere ogni azione, non solo l’intenzione; infatti a quelle cose che sono trattate nella vita quotidiana, riserveremo onorabilità e rispetto sociale se attribuiamo loro una certa misura e ordine.
[6, 18] Dei quattro elementi in cui abbiamo diviso la natura e il significato della moralità, il primo, che consiste nella conoscenza della verità, riguarda in modo particolare la natura umana: tutti infatti siamo trascinati e condotti al desiderio di conoscenza e di sapere, in cui consideriamo bello distinguerci, mentre riteniamo vergognoso scivolare, errare, ignorare, essere ingannati. In quest’ambito naturale e morale occorre evitare due difetti: il primo è che non riteniamo note cose che ci sono sconosciute, e a esse, in modo avventato, diamo il nostro assenso; chi voglia evitare tale difetto – e tutti devono volerlo – userà tempo e cura per considerare le cose. [19] Il secondo difetto consiste nel fatto che alcuni rivolgono troppo grande impegno e attività a faccende oscure e difficili, e per ciò stesso non necessarie. Evitati tali difetti, ciò che sarà collocato in termini di cura e di impegno nelle occupazioni onorevoli e degne di conoscenza, sarà a buon diritto lodato, come accade per esempio a C. Sulpicio per l’astronomia17, a Sesto Pompeo per la geometria18, a molti per la dialettica, a moltissimi per il diritto civile; si tratta di arti che si collocano tutte nell’indagine della verità, ma è contrario al dovere essere trascinati lontano dall’azione per eccessivo amore di esse. Ogni pieno riconoscimento della virtú consiste nell’azione; in questa tuttavia può verificarsi un’interruzione e molte sono le possibilità di ritorno allo studio; allora l’attività della mente, che mai riposa, può trattenerci nelle occupazio...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Eredità ed eredi.
- De officiis
- De officiis
- Note
- Bibliografia
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
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