È venuta a trovare sua figlia a Nizza, per la prima volta dopo anni. Suo figlio arriverà dagli Stati Uniti per passare qualche giorno con loro, e poi proseguire verso questo o quel convegno. È strana questa coincidenza di date. Si chiede se non ci sia dietro un qualche accordo, se quei due non abbiano in testa qualcosa, una di quelle proposte che i figli fanno a un genitore che pensano non possa piú badare a se stesso. È cosà cocciuta, si saranno detti: cosà cocciuta, cosà testarda, cosà ostinata – come faremo a spuntarla se non ci lavoriamo insieme?
Naturalmente le vogliono bene, altrimenti non starebbero là a programmarle la vita. Eppure lei si sente proprio come uno di quei nobili romani in attesa della pozione fatale, in attesa che qualcuno le dica nel modo piú fiducioso, piú comprensivo, che per il bene di tutti deve buttarla giú senza tante storie.
I suoi figli sono e sono sempre stati bravi e rispettosi, per come possono esserlo i figli. Se lei è stata altrettanto brava e rispettosa come madre è un altro discorso. Ma in questa vita non sempre ci tocca quello che meritiamo. I suoi figli dovranno aspettare un’altra vita, un’altra incarnazione, se vogliono pareggiare i conti.
Sua figlia dirige una galleria d’arte a Nizza. Ormai è francese a tutti gli effetti. Suo figlio, con la moglie americana e i figli americani, presto sarà , a tutti gli effetti, americano. Una volta lasciato il nido, sono andati lontano. A non sapere come stanno le cose, si potrebbe persino pensare che se ne siano andati per allontanarsi da lei.
Qualsiasi proposta vogliano farle, sarà certamente piena di ambiguità : amore e sollecitudine da un lato, brusca efficienza e desiderio di sbarazzarsi di lei dall’altro. Certo, non saranno le ambiguità a turbarla. Si guadagna da vivere con le ambiguità . Che fine farebbe l’arte del romanzo senza i doppi sensi? Come sarebbe la vita se ci fossero solo teste e code senza niente in mezzo?
– Quello che piú mi sconcerta via via che invecchio, – dice a suo figlio, – è che mi sento uscire dalle labbra parole che un tempo sentivo dire ai vecchi e che avevo giurato di non dire mai. Cose del tipo dove-sta-andando-il-mondo. Per esempio: Sembra che nessuno piú ricordi che esiste il congiuntivo passato – dove sta andando il mondo? La gente cammina per strada mentre mangia la pizza e parla al cellulare – dove sta andando il mondo?
Lui è a Nizza da un giorno, lei da tre. È una giornata di giugno tersa e calda, di quelle che da sempre attirano su questo tratto di costa la gente ricca e annoiata dall’Inghilterra. Ed eccoli qua, loro due, lungo la promenade des Anglais proprio come facevano gli inglesi cent’anni prima con i loro ombrellini e i cappelli di paglia, che passeggiavano deplorando l’ultima fatica di Thomas Hardy, deplorando i boeri.
– Deplorare, – dice lei: – un termine che non si sente piú tanto al giorno d’oggi. Nessuno che abbia un po’ di buonsenso deplora, a meno che non si voglia far ridere dietro. Una parola vietata, un’attività vietata. E allora che fare? Bisogna tenersele tutte dentro, le cose che deploriamo, finché non ci troviamo in compagnia di altri vecchi e ci sentiamo liberi di snocciolarle tutte insieme?
– Con me puoi deplorare tutto quello che ti pare, mamma, – dice John, il suo bravo e rispettoso figliolo. – Assentirò con un cenno del capo senza prenderti in giro. Cos’altro vorresti deplorare oggi oltre alla pizza?
– Non si tratta della pizza, che va benissimo al suo posto, ma di camminare mangiando e parlando, tutto contemporaneamente, è questo che mi sembra cosà volgare.
– Sono d’accordo. È volgare o perlomeno poco raffinato. Che altro?
– Basta cosÃ. Quello che deploro non è di per sé tanto interessante. Ma è interessante che anni fa avevo giurato che non l’avrei mai fatto, ed eccomi qua a farlo. Perché ho ceduto? Deploro dove sta andando il mondo. Deploro il corso della storia. Lo deploro con tutto il cuore. Eppure quando mi ascolto che cosa sento? Sento mia madre che deplorava la minigonna, che deplorava la chitarra elettrica. E ricordo quanto mi esasperava. «SÃ, mamma», dicevo, e stringevo i denti sperando che la facesse finita. E cosÃ…
– E cosà pensi che anch’io stringa i denti sperando che tu la faccia finita?
– SÃ
– E invece no. È del tutto accettabile deplorare dove sta andando il mondo. Lo faccio anch’io, in privato.
– Ma sono i dettagli, John, i dettagli! Non è tanto il grande corso della storia che deploro, quanto i dettagli – le cattive maniere, la pessima grammatica, la voce alta! Sono i dettagli a esasperarmi, ed è proprio questo a gettarmi nella disperazione. Cosà futili! Capisci? Ma certo tu non puoi capire. Pensi che io sia ridicola, e invece no. Faccio sul serio. Capisci che tutto questo può essere serio?
– Certo che capisco. Ti esprimi con grande chiarezza.
– E invece no! Proprio no! Sono solo parole, e a questo punto siamo tutti stufi delle parole. L’unico modo per far capire che fai sul serio è farla finita. Pugnalarsi al cuore. Farsi saltare le cervella. Ma so che non appena lo dico dovrai reprimere un sorriso. Lo so. Perché non faccio sul serio, non del tutto – sono troppo vecchia per fare sul serio. Se ti ammazzi a vent’anni è una tragica perdita. Se ti ammazzi a quaranta è il tuo commento sul nostro tempo. Ma ammazzati a settanta e la gente dirà : «Poverina, avrà avuto un cancro».
– Ma se non ti è mai importato di quello che dice la gente.
– Non mi è mai importato di quello che dice la gente perché ho sempre creduto nel futuro. La storia mi vendicherà , questo mi dicevo. Ma sto perdendo fiducia nella storia, come è diventata oggi, sto perdendo fiducia nella sua capacità di appurare la verità .
– E cosa è diventata la storia oggi, mamma? E già che ci siamo, posso farti notare che ancora una volta mi hai messo nella posizione del conformista, vecchio o giovane che sia, una posizione che non mi piace?
– Scusami, scusami. È perché vivo sola. In genere faccio queste conversazioni nella mia testa; è un tale sollievo avere delle persone con cui farle.
– Interlocutori. Non persone. Interlocutori.
– lnterlocutori con cui scambiarle.
– A cui imporle.
– Interlocutori a cui imporle. Scusami. Basta cosÃ. Come sta Norma?
– Norma sta bene. Ti abbraccia. Anche i bambini stanno bene. Cosa è diventata la storia?
– La storia ha perso la voce. Clio, la musa che un tempo suonava la lira e cantava le gesta dei grandi uomini, è diventata debole e sciocca come una vecchia rimbambita. Almeno a volte cosà mi pare. Altre volte mi pare che sia stata catturata da una banda di teppisti che la torturano e le fanno dire cose che non voleva dire. Non posso dirti tutti i cattivi pensieri che mi vengono sulla storia. È diventata un’ossessione.
– Un’ossessione. Significa che stai scrivendo qualcosa su questo?
– Niente affatto. Se ci riuscissi sarei sulla buona strada per capirci qualcosa. No, riesco solo a infuriarmi e a deplorare. E a deplorare anche me stessa. Sono rimasta intrappolata in un cliché, e non sono piú tanto sicura che la storia riuscirà a smuovere questo cliché.
– Quale cliché?
– Il cliché del disco inceppato, anche se oggi non significa piú niente perché non ci sono piú né puntine né grammofoni. La parola che riecheggia in me da tutte le parti è tetro. Il suo messaggio al mondo è irrimediabilmente tetro. Tetro, che significa? Un termine che fa pensare a un paesaggio invernale e che per qualche motivo mi è rimasto appiccicato, come un bastardino che mi viene dietro abbaiando, e di cui non riesco a liberarmi. Mi perseguita. Mi accompagnerà fino alla tomba. Si fermerà sull’orlo della fossa, guarderà dentro e si metterà a uggiolare tetro tetro tetro!
– Se non sei tu la tetra, allora chi sei, mamma?
– Lo sai chi sono io, John.
– Certo che lo so. Però dillo lo stesso. Dillo.
– Sono quella che prima rideva e che ora non ride piú. Sono quella che piange.
Sua figlia Helen dirige una galleria d’arte nel centro storico. Da tutti i punti di vista, gli affari vanno bene. Helen non è la proprietaria, ma è alle dipendenze di una coppia di svizzeri che due volte l’anno scendono dal loro rifugio di Berna per controllare i conti e intascare gli incassi.
Helen, o Hélène, è piú giovane di John ma sembra piú grande. Anche da studentessa aveva l’aria di mezza età , con le sue gonne a tubo, gli occhiali da gufo e lo chignon. Un tipo che ai francesi piace e che rispettano: l’intellettuale severa, nubile. In Inghilterra invece Helen sarebbe subito bollata come bibliotecaria e verrebbe presa in giro.
In effetti non ha elementi per ritenere che Helen sia sola. Helen non dice nulla della sua vita privata, ma da John apprende di una relazione che dura da anni con un uomo d’affari di Lione che la porta fuori per il fine settimana. Chissà , forse nei fine settimana sua figlia rifiorisce.
Non sta bene fare illazioni sulla vita sessuale dei figli. E tuttavia non può credere che una persona che dedica la sua vita all’arte, sia pure solo per vendere quadri, possa essere priva di un suo fuoco segreto.
Quello che si aspettava era un assalto congiunto: Helen e John che la inchiodavano a una sedia e le sottoponevano il piano che avevano elaborato per la sua salvezza. E invece no, la prima serata insieme trascorre in tutta piacevolezza. L’argomento viene introdotto il giorno dopo, nella macchina di Helen, mentre si dirigono a nord sulle Alpi dell’Alta Provenza per pranzare in un posticino scelto da Helen. John è rimasto a casa a lavorare sull’intervento per il convegno.
– Che ne diresti di vivere qui, mamma? – dice Helen all’improvviso.
– Vuoi dire in montagna?
– No, in Francia. A Nizza. C’è un appartamento nel mio palazzo che si libera a ottobre. Potresti acquistarlo o potremmo farlo insieme. È al pianoterra.
– Andare a vivere insieme, io e te? Cosà all’improvviso, tesoro? È questo che stai dicendo?
– Non vivremmo insieme. Tu saresti del tutto indipendente. Ma in caso di necessità avresti qualcuno a cui rivolgerti.
– Grazie cara, ma a Melbourne ci sono delle ottime persone in grado di occuparsi dei vecchi e delle loro piccole emergenze.
– Ti prego, mamma, non scherzare. Hai settantadue anni. Hai problemi cardiaci. Non sarai sempre in grado di cavartela da sola. Se…
– Non dire altro, tesoro. Sono certa che anche a te gli eufemismi danno fastidio come a me. Mi potrei rompere l’anca, potrei rimbambirmi, potrei essere costretta a letto per anni: è di questo che stiamo parlando. Date queste eventualità , la domanda che mi faccio è la seguente: Perché dovrei imporre a mia figlia il peso di occuparsi di me? Mentre immagino che quella che ti fai tu sia: Potrai vivere in pace con te stessa senza aver provato almeno una volta e in tutta sincerità a offrirmi cura e protezione? Ti pare che questo presenti il problema, il nostro problema, in maniera equa per entrambe?
– SÃ. La mia è una proposta sincera, e anche fattibile. Ne ho parlato con John.
– Allora non roviniamo questa bella giornata impelagandoci in una discussione. Hai fatto la tua proposta, l’ho ascoltata e prometto che ci penserò. Fermiamoci qui. Come forse avrai capito, è molto improbabile che io l’accetti. I miei pensieri vanno nella direzione opposta. Se c’è una cosa che i vecchi fanno meglio dei giovani, quella è morire. È doveroso (che strana espressione!) per i vecchi morire bene, mostrare a chi viene dopo che cos’è una buona morte. È questo che occupa i miei pensieri. Mi piacerebbe concentrarmi su come fare una buona morte.
– Potresti fare una buona morte a Nizza come a Melbourne.
– Ma questo non è vero, Helen. Pensaci bene e ti accorgerai che non è vero. Chiedimi cosa intendo per una buona morte.
– Cosa intendi per una buona morte, mamma?
– Una buona morte è quella che avviene lontano, quella in cui delle tue spoglie mortali si occupano degli sconosciuti, gente che per mestiere ha a che fare con la morte. Una buona morte è quella che si apprende da un telegramma: Ci dispiace dovervi informare, eccetera. Che peccato che i telegrammi siano passati di moda.
Helen sbuffa esasperata. Continuano il viaggio in silenzio. Nizza è parecchio lontana: scendono per una strada deserta e svoltano in una lunga valle. S...