Era una serata buia, umida e fredda, e la pioggia veniva giú a secchiate. Gli alberi sul lato destro della strada si piegavano al nostro passaggio, perdendo foglie e rami che cadevano davanti alla macchina o dritti sulla carrozzeria. Io continuavo a guidare, schivando i rami quando potevo, sperando che non ci fossero dei pezzi di strada in cui l’asfalto era venuto via, o che un ramo non si incastrasse sotto l’auto.
I tergicristalli correvano avanti e indietro a fatica, come una bibliotecaria incattivita che facesse di no con un dito a un ragazzino troppo chiassoso, e le luci dei fari rimbalzavano contro il buio pesto. Avrei quasi voluto vedere un’altra auto lungo la strada, ma non c’era nessuno che fosse stato cosà stupido da uscire con quel tempaccio.
Io e Leonard avevamo finito un lavoro di sorveglianza a San Augustine e stavamo tornando a LaBorde. Quando eravamo partiti il cielo era sereno e si vedevano le stelle e la luna calante, ma la situazione era cambiata a sette o otto chilometri dalla città . Prima si era alzato il vento, poi erano cominciati i tuoni e i lampi e subito dopo si era messo a piovere. Quando poi il vento aveva preso forza, il diluvio si era trasformato in una tempesta in piena regola.
Avevo messo il riscaldamento a palla per tenere a bada il freddo di gennaio, e in generale funzionava pure. Avevo fame e sognavo di essere a casa con un bel piatto e una tazza di decaffeinato davanti, ma sapevo che, essendo cosà tardi, sarei stato costretto ad andare dritto a letto e aspettare la colazione.
Forse, però, una barretta dietetica e un bicchiere di latte me li sarei potuti concedere.
O magari dei cereali. Una tazza e basta. Piccola. O un bagel, senza la crema di formaggio. Magari con una passatina di burro. O forse qualche costoletta avanzata dalla grigliata di due giorni prima. No. Troppo pesante. Però che cavolo, quel barbecue non era stato affatto male, e se la roba restava per troppo tempo in frigo finiva per guastarsi.
Leonard disse: – Attento, amico!
Alzai gli occhi mentre qualcosa attraversava la strada di corsa. Sterzai sulla destra, mancando di poco il fosso, e slittai fino a fermarmi, sollevando una nube d’acqua. Guardai nello specchietto retrovisore, poi su quelli laterali, che gocciolavano, ma tutto quello che riuscii a vedere era la pioggia.
– C’era qualcuno, – disse Leonard.
– Non poteva essere un animale?
– No, era un essere umano, – ribadÃ. – Una ragazza, credo.
Andai avanti fino a uno slargo e feci inversione, cercando di non spostarmi troppo verso il bordo per non finire in un fosso. La strada era bagnata, fangosa e ripida, perciò era molto facile perdere il controllo dell’auto. Se fossimo finiti in un fosso, lo avremmo trovato pieno d’acqua, e l’unico modo per uscirne sarebbe stato chiamare i soccorsi, sempre però che ci fosse la linea. Cosa improbabile, considerando dove ci trovavamo. In ogni caso, non ero affatto sicuro che il soccorso stradale sarebbe venuto fin lÃ. Cavolo, neppure Noè si sarebbe azzardato a farlo, e la situazione peggiorava di momento in momento.
Dopo aver fatto inversione ripartii procedendo lentamente, ma non vidi nessuno, almeno in un primo tempo. Poi però Leonard disse: – Hap.
Frenai, slittando leggermente, e guardai in direzione del suo dito puntato. Una ragazza tornò in mezzo alla strada, incespicando: doveva averla attraversata per poi decidere di tornare indietro. Agitava le mani nella nostra direzione. I capelli illuminati dai fari erano quasi bianchi e incollati alla testa come un cappuccio, e le cadevano in parte sul viso; c’era poi qualcosa di scuro che le scorreva dalla bocca e lungo il mento. La pioggia lo lavava via un istante dopo la sua comparsa. Era piccola, pallida e palesemente sfinita. Indossava una maglietta tutta macchiata, un paio di pantaloncini del pigiama, ed era a piedi nudi. Crollò in mezzo alla strada.
Leonard scese dall’auto e corse verso di lei mentre la pioggia lo martellava e il vento entrava fischiando dalla portiera aperta. La raccolse da terra come fosse una bambola e la riportò verso l’auto. Io mi slacciai la cintura e mi allungai all’indietro tra i due sedili per aprire la portiera posteriore. Leonard la sistemò dentro, spingendola verso il centro del sedile.
Con le portiere aperte l’abitacolo era illuminato, e vidi che la ragazza era albina, asiatica e cosà piccola che in un primo tempo pensai avesse undici anni o poco piú. Aprà la bocca e il sangue le scorse dal mento sul petto. Mi guardò con due occhi chiarissimi: non bianchi, ma di un azzurro cosà slavato da sembrare quasi trasparente. Ricordava un uccello ferito e intrappolato dietro un vetro. Cercò di parlare, ma tutto quel che le uscà di bocca fu un getto di sangue accompagnato da un suono strozzato.
Leonard chiuse la portiera anteriore destra, scivolò accanto a lei sul sedile di dietro, chiuse anche quella portiera e disse: – Va tutto bene. Ora sei con noi. Su, fammi dare un’occhiata. Apri la bocca.
Le toccò delicatamente il mento, le guardò dentro la bocca aperta e disse: – Hap, dammi la torcia.
Aprii il cruscotto, dove tenevamo una pistola, una torcia e diversi altri ammennicoli, tirai fuori la torcia e gliela porsi.
La ragazza cominciava a lamentarsi.
– Sta’ calma, – disse Leonard. – Do solo un’occhiata.
Leonard guardò, e nel riverbero della torcia vidi la sua espressione cambiare.
– Dammi i Kleenex, – disse.
Aprii di nuovo il cruscotto e tirai fuori un pacchetto di fazzolettini. Leonard lo prese, strappò l’involucro di plastica, tirò fuori tutti i Kleenex e disse: – Tesoro, devi metterli in bocca e poi chiuderla adagio. Puoi tirare indietro la testa, ma non stenderti.
Le infilò i Kleenex in bocca, e la ragazza non fece obiezioni. Poi le allacciò la cintura di sicurezza e aggiunse: – Andrà tutto bene.
In quell’istante, un grosso Suv nero sbucò da una strada laterale, nello stesso punto dove la ragazza aveva fatto la sua apparizione, e svoltò verso di noi, puntandoci i fari addosso. Il Suv si fermò e dal sedile del passeggero scese un nero grande e grosso, vestito di scuro e con un cappello anch’esso scuro, fradicio di pioggia. Sembrava che potesse raddrizzare la Torre di Pisa con una mano sola, e teneva una grossa pistola lungo un fianco. Quindi, se la Torre gli avesse dato del filo da torcere, poteva sempre spararle.
Dissi: – Leonard, tieniti forte.
L’uomo in mezzo alla strada sollevò la pistola.
Misi la retromarcia, mi voltai per scrutare attraverso il lunotto, tra Leonard e la ragazza, ma per quanto mi riuscà di vedere alle nostre spalle c’erano solo la notte, la pioggia e la debole luce dei miei fari posteriori. Pigiai sul pedale del gas e partimmo di scatto. Sentii uno sparo e qualcosa che fischiava sul tetto dell’auto. Un colpo decisamente da dilettanti.
Tenni il piede pigiato sul pedale dell’acceleratore, guardai davanti a me e vidi che ero riuscito a mettere una certa distanza tra noi e il Suv, ma la Prius non è certo un’auto da corsa.
Leonard disse alla ragazza: – Tieniti forte, piccola.
Pigiai sul freno e l’auto slittò. Girai il volante nella stessa direzione in cui stavamo scivolando e feci un’inversione completa, con l’acqua che si alzava in un unico getto e le ruote che gemevano: una mossa facilitata dalla strada bagnata e da una certa esperienza.
Pigiai di nuovo sull’acceleratore e guardai nello specchietto retrovisore. Due fari. Venivano verso di noi, e a gran velocità .
Per un istante pensai di imboccare una via laterale, ma decisi che era una pessima idea. Poi pensai alla strada dove ci trovavamo e alla velocità con cui si stavano avvicinando, e proseguire non mi parve piú un’idea molto brillante. L’unico modo che mi veniva in mente per levarci da quel guaio era che la macchina levitasse, e credetemi, mi concentrai con tutte le mie forze, nella speranza di scoprire dentro di me un talento inedito per la telecinesi: niente da fare.
Leonard pigiò il pulsante del finestrino, lo abbassò, si sporse fuori dall’auto e puntò la pistola contro gli inseguitori. Leonard non è granché, come tiratore, e con quella pistola, la pioggia e il vento, ero convinto che avesse tante possibilità di colpire l’auto quante di far cadere un uccello da un albero con una scoreggia.
Sparò due volte, in rapida successione, e io mi voltai a guardare. I fari erano ancora in avvicinamento. Probabilmente chi era alla guida dell’auto non aveva la minima idea che Leonard fosse armato. Sparò altre due volte. Il Suv sterzò di lato e cercò inutilmente di raddrizzarsi; poi vidi delle scintille levarsi da sotto l’auto.
Leonard doveva essere riuscito a colpire la ruota anteriore destra, che si era sgonfiata del tutto, e ora il cerchione strusciava direttamente sull’asfalto.
Il Suv sterzò ancora e cercò di rallentare, ma era troppo tardi. Scodò in tutte le direzioni, poi si rovesciò su un fianco e i fari puntarono dritti in cielo. Era caduto in uno dei lunghi fossati pieni d’acqua sul lato della strada.
– Qualcuno ha cercato di tagliarle la lingua, – disse Leonard. – L’hanno segata quasi a metà .
Eravamo seduti al LaBorde Memorial Hospital, dove l’avevamo portata prima ancora di chiamare gli sbirri. Il nostro amico Marvin Hanson, il capo della polizia, era partito con la famiglia e si trovava in qualche località isolata del Montana, e il ragazzo di Leonard, Pookie, anche lui un poliziotto, era andato fuori città per far visita alla sorella, a New Orleans. I due poliziotti in servizio non ci conoscevano bene quanto il capo e Pookie, e non sapevo decidere se questo fosse positivo o negativo. Da come ci guardavano e si rivolgevano a noi, sembravano quasi convinti che fossimo stati io e Leonard a tagliarle la lingua.
Dopo un po’, costrinsero il personale dell’ospedale ad aprire il negozio interno che aveva chiuso diverse ore prima, e potemmo cosà comprarci magliette, mutande, calze e giacche a vento: tutti articoli di vestiario con il logo dell’ospedale. In bagno ci togliemmo a fatica i jeans e li asciugammo alla meno peggio con gli asciugamani elettrici, mentre indossavamo mutande e calze asciutte. Quando li rimettemmo erano ancora umidi, ma non zuppi e gelati come poco prima. Leonard si era già bagnato quando aveva recuperato la ragazza in mezzo alla strada, ma era bastato il tragitto dal parcheggio all’ospedale per inzupparci entrambi fino alle ossa.
Quando uscimmo dai bagni, trovammo i poliziotti davanti alla porta, come se avessero avuto paura che ci infilassimo nella tazza del cesso e tirassimo la corda per poi sparire nello scarico.
Dovemmo seguirli in auto alla stazione di polizia e rispondere di nuovo a tutte le loro domande. Semplice routine, dissero. Certo, erano convinti che fossimo due buoni samaritani. Certo, ci credevano. I poliziotti ti credono come credono a Babbo Natale.
Avevano già spedito una pattuglia per accertarsi che il Suv fosse ancora nel fosso, e si erano presi la pistola che Leonard aveva utilizz...