Doveva aver fatto un volo di almeno dieci metri, perché la macchina stava ancora bruciando molto piú indietro, ferma accanto al marciapiede, tra un furgoncino dal parabrezza incrinato e una Volvo col bagagliaio spalancato dall’esplosione. Doveva essere uscito sfondando il vetro davanti col sedile e tutto, come espulso da un jet, e doveva aver fatto una capriola per aria, perché era atterrato di schiena, quasi in mezzo all’incrocio. Doveva essere morto, perché la bomba, sparandolo fuori dall’auto, gli aveva strappato tutte e due le gambe all’altezza del ginocchio, bruciandogli il resto del corpo fino all’osso, e invece era ancora vivo e stringeva la bandoliera bianca del brigadiere Carrone, e la stringeva forte, come se volesse strangolarlo. Cercava di parlare, le labbra arricciate sui denti, piegate all’ingiú in uno sforzo che gli gonfiava una bolla rossa di saliva all’angolo della bocca. Teneva l’unico occhio aperto fisso sul brigadiere e intanto tirava e tirava, spingendo fuori dalla gola bruciata un gorgoglio raschiante e teso, che sembrava strappargli i polmoni di bocca.
– Coraggio, – disse il brigadiere, – sta arrivando l’ambulanza... coraggio –. Si sentí stupido, inevitabilmente stupido a parlare cosí a un uomo ustionato a morte e senza piú le gambe, e intanto strappava indietro, perché c’era abituato a queste cose, era stato in Irpinia per il terremoto, aveva fatto un turno in Kosovo ed era a Capaci quando avevano fatto saltare Falcone e i colleghi della scorta, ma quell’uomo continuava a tirarlo verso di sé, verso la bocca scavata e rinsecchita che sembrava già quella di un morto, e non gli faceva schifo, no. Gli faceva paura.
L’uomo smise di tirare e le mani gli scivolarono sulla pelle screpolata della tracolla del brigadiere, lasciando una scia rossastra e nera. Smise di tirare, come se non avesse piú forza, come se volesse raccoglierla e riservarla per qualcos’altro, e infatti piegò in avanti il collo e sputò un ringhio duro come un colpo di tosse.
– Pit bull! – gridò, – Pit bull!
Il brigadiere Carrone pensò che nella macchina doveva esserci un cane, sul sedile di dietro o chiuso nel bagagliaio, e voltò la testa verso il telaio annerito che bruciava, gonfiato da rovi di fiamme furibonde, e pensò anche che se davvero c’era stato un cane a quest’ora chissà com’era, poveraccio, ma l’uomo ricominciò a tirarlo per la bandoliera, come se si fosse accorto di ciò che stava immaginando, e non fosse quella la cosa che voleva dirgli, non quella. Allora il brigadiere Carrone lo guardò e pensò che per quanto onore potesse fargli, un uomo che cerca di parlare anche quando sta morendo bruciato e senza gambe va ascoltato, cosí smise di tenersi e si lasciò tirare contro quella bocca, tanto da sbattergli con la guancia sui denti.
Ascoltò un raschiare spezzato e secco, che fece molta fatica a capire. Talmente assorto da non accorgersi che i barellieri erano arrivati, e uno lo aveva preso per le spalle, cercando di toglierlo dall’uomo.
– Alt! – disse il brigadiere. – Alt! – ripeté, allargando le braccia per allontanare l’infermiere che gli stava addosso.
– Come alt? – disse uno dei due. – In che senso?
– Nel senso che state fermi un minuto, – disse il brigadiere. Aveva infilato una mano nell’apertura della giacca, sotto la bandoliera insanguinata, per cercare penna e taccuino.
– Siete testimoni tutti e due, – disse facendo scattare il pulsante della biro. – Verbalizziamo.
Ci sono certi silenzi pieni di rumori che si annullano a vicenda. È quando i rumori diventano indifferenti e cosí costanti e monotoni da non colpire piú l’attenzione. Certi fruscii, certi ronzii sottili, come quello di un’autoradio fuori sintonia chissà da quanto tempo, che non prende piú niente, e che all’inizio graffiava le orecchie, e poi era come se avesse grattato cosí tanto il fondo del timpano da renderlo insensibile, come anestetizzato. O il ribollire piatto e sordo del motore della macchina, fermo chissà da quanto tempo alla stessa velocità e alla stessa marcia, anche se c’era un cuscinetto, nella ruota di dietro, che prima spezzava ogni tanto quell’ansimare compatto con un sospiro piú acuto, e che adesso era diventato soltanto un’altra nota indifferente, coerentemente dissonante, cosí monotona che non esisteva piú.
Chissà da quanto tempo.
Dalle griglie d’aerazione entrava un soffio d’aria notturna, afono come un sospiro a bocca aperta, e anche quello si fondeva, si confondeva con il silenzio rumoroso e spesso che riempiva l’abitacolo dell’auto di Vittorio, tutto lo spazio che c’era tra i finestrini, il pavimento e il tetto. Gli si schiacciava addosso, era uno stampo di mercurio nero che gli scivolava dentro i vestiti, sulla pelle, e gli entrava nel naso e nelle orecchie, liquido e sottile, fino a riempirgli lo spazio tra le pieghe del cervello.
Pensò: devo far revisionare l’auto.
Le parole gli risuonarono nella testa, chiare e rotonde. Pizzicarono, addirittura, in gola, sul fondo della lingua, premettero forte sulla laringe quando le arrotolò, mute e schioccarono, sonore e senza voce, contro il palato.
Ci sono certi silenzi in cui le parole non dette suonano piú forte. Non era solo per l’assenza di rumore intorno, o perché il silenzio della solitudine gli avesse sigillato insieme labbra, lingua e gola e giú, fino allo stomaco, come un tubo inutile e pieno. Era una questione di luce. D’inverno, ci sono certe mattine brillanti di ghiaccio in cui un grido può essere piú acuto e piú veloce che in un giorno di nebbia. D’estate, poi, ci sono certe giornate col cielo cosí limpido che sembra di arrivare con lo sguardo fino all’altra parte del mondo e non c’è ragione perché il suono non possa fare lo stesso. E sul mare, quando c’è il sole radente sull’acqua, sulla spiaggia arrivano anche le voci delle barche lontane, quasi corrano sul riverbero, saltando come i sassi lanciati di piatto sulle onde. Con le voci senza suono, invece, con le parole dei pensieri, è il contrario.
Per quelle ci vuole il buio.
Il buio in autostrada.
Di notte, l’autostrada è nera. Se non ci fossero stati i fari delle auto a illuminarla, sarebbe stata immobile e scura come un lunghissimo animale addormentato, con appena la linea di mezzeria piú chiara, come una fila di vertebre in rilievo sotto la pelle. Se non ci fossero stati i suoi fari a farla scintillare lontana davanti al muso dell’auto, soprattutto adesso che aveva appena piovuto, se non ci fossero stati loro a riflettersi rossi e gialli sui catarifrangenti del guardrail, e i led dell’autoradio a graffiare, elettrici e verdi, il buio dell’abitacolo, rischiarato attorno alle sue mani sul volante dalla luce pallida del cruscotto, se non ci fosse stata la spia della riserva che lampeggiava arancione all’angolo del suo occhio sinistro quando imboccava una curva, tutto sarebbe stato nero, lui, l’interno dell’auto, la strada, l’aria, il cielo, anche il mare quando ci passava accanto. Perché non brillava di luce propria, l’autostrada. Come la luna.
Era in quella strana penombra lucida, ronzante e appena illuminata che i pensieri, i suoi pensieri, si sentivano piú forte.
Pensò: ho bisogno di un caffè.
Gli venne in mente appena vide il segnale quadrato dell’area di servizio, «Agip mt. 500», e rallentò di colpo, lanciando solo dopo un’occhiata allo specchietto retrovisore, per vedere se dietro aveva qualcuno. Ce l’aveva, due fari, non cosí vicini da tamponarlo ma abbastanza da fargli mettere la freccia per il senso di colpa. Scivolò nella corsia d’ingresso dell’autogrill e intanto sganciò la cintura di sicurezza, che gli salí fino alla spalla, con uno schiocco. Il parcheggio era piccolo ma vuoto, cosí allargò per evitare il rettangolo giallo riservato ai portatori di handicap e si fermò, attento a non grattare col fondo del muso sul gradino rialzato del marciapiede. Poi, spense il motore e solo allora Vittorio si accorse dell’uomo.
Era sulla trentina e sorrideva, avvicinandosi, con una mano infilata sotto il giubbotto di jeans, sul petto. Aveva alzato un dito, agitandolo in aria come per richiamare la sua attenzione, poi aveva indicato il giubbotto, toccando la stoffa sulla mano nascosta, e aveva sorriso ancora di piú, piú ammiccante. Vittorio aveva già aperto la portiera, e scuoteva la testa. Aveva staccato il cellulare dal viva voce sotto il cruscotto ed era pronto a fargli vedere che ce l’aveva già un telefonino, grazie, ma l’uomo aveva allargato il braccio libero e aveva sostituito il sorriso con un’espressione esageratamente desolata, quasi offesa, aprendo anche il resto della mano e sollevandola a mezz’aria. Poi aveva sorriso di nuovo e alzato il dito, come prima, pronto a ricominciare, a continuare, finché uno dei due non avesse ceduto.
Vittorio sospirò. Stava per uscire dalla macchina e dirgli qualcosa, anche se ancora non sapeva cosa, quando l’uomo gli mise la mano libera su una spalla e lo spinse dentro, mentre toglieva l’altra da sotto il giubbotto. Gli schiacciò sulla guancia la lama di un coltello a scatto, fredda e spigolosa, la punta che gli pizzicava l’angolo del sopracciglio. Vittorio trattenne il fiato, premendo la nuca contro il poggiatesta. L’uomo lo prese per la cravatta, girandola un paio di volte attorno alla mano per tenerlo piú stretto, e si infilò per metà dentro l’abitacolo.
Non ti muovere. Grida e te lo pianto in un occhio.
Vittorio non si mosse. Non gridò. Rimase fermo, evitando di guardarlo. Sotto la giacca, agganciata alla cintura, aveva una pistola, ma non si sognava neppure di toccarla. Allungò una mano e sfiorò la valigetta del campionario che teneva sul sedile accanto, ma l’uomo schiacciò ancora di piú il coltello. Vittorio premette piú a fondo contro la pelle del poggiatesta. Dallo specchietto laterale poteva vedere l’auto che lo seguiva quando era entrato nell’autogrill. Era accanto alla sua, in moto, con lo sportello del passeggero aperto e un uomo al volante, che li guardava. Quello col coltello liberò la mano dalla cravatta, si sporse su di lui e si allungò a prendere la valigetta col campionario. Vittorio pensò che doveva mostrare piú paura, che non sembrava ne avesse abbastanza.
Per favore. Per favore, non mi faccia niente. E socchiuse gli occhi, perché a chiuderli del tutto non si fidava.
Stronzetto. Testa di cazzo. Io li odio i fighetti stronzi come te.
Nel tirarla fuori piantò uno spigolo della valigetta dietro lo zigomo di Vittorio, strappandogli un gemito. Vittorio strinse forte i denti per rimanere fermo e non tagliarsi la faccia col coltello. Gli occhi cominciarono a lacrimargli e dovette chiuderli per forza.
Sta fermo lí. Aspetta che siamo andati via e poi esci dalla macchina. Attento a quello che racconti. So il giro che fai e ti ribecco quando voglio. È un sacco che ti teniamo d’occhio, stronzo.
Vittorio aprí le palpebre, d’istinto, e vide l’uomo muoversi dietro un velo lucido. Il coltello si era staccato dalla sua faccia, ma la sensazione fredda c’era ancora.
Pensò: ti teniamo d’occhio.
Gli bastò sbattere le palpebre una volta per asciugarle. Vide la faccia dell’uomo allontanarsi, le spalle sfilare oltre lo sportello e girarsi, mostrandogli la schiena. Vittorio aveva una pistola, sotto la giacca, ma non si sognò neanche di toccarla.
Pensò: ti teniamo d’occhio, stronzo.
Lanciò un’occhiata all’autogrill, attraverso il parabrezza. Da lí dentro quell’angolo di parcheggio non si poteva vedere. Abbassò gli occhi e vide la costola verde di un Tuttocittà nella tasca della portiera semiaperta. Lo prese, scivolando fuori dall’auto e intanto infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni, a grattare la guancetta di legno dello stiletto a serramanico che gli era sceso sotto il portafoglio. Lo aprí, e appena l’uomo cominciò a voltarsi perché lo aveva sentito, Vittorio glielo piantò in gola, di punta, preciso sulla giugulare, dentro e fuori, e alzò il Tuttocittà, perché il sangue non gli schizzasse in faccia.
Mentre si infilava nella macchina in moto, scivolando sul sedile verso l’altro uomo, già pensava a cosa avrebbe dovuto raccontare a sua madre, il mattino dopo, per giustificare il livido che gli si stava allargando, pesante, dietro lo zigomo.