La gioia fa parecchio rumore
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La gioia fa parecchio rumore

  1. 256 pagine
  2. Italian
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La gioia fa parecchio rumore

Informazioni su questo libro

La gioia fa parecchio rumore è un romanzo tempestoso che ubbidisce a una sola regola: dire la vita con tutta l'energia che ci si ritrova addosso. C'è un io e c'è un noi: anzi, un noantri. E c'è un bambino che impara a vivere dalle persone che gli stanno intorno: «gente che non si tiene niente nel cuore», allegra, chiassosa, abituata ad amare anche nei momenti piú bui, e ad amare senza misura. Bonvissuto canta la Roma, ma canta soprattutto un amore assoluto, fulminante, che si accende nell'animo per trasformarlo.Mescolando alto e basso a ogni riga, divagazioni e scene formidabili, il nuovo libro di Bonvissuto parte come un trattatello filosofico sull'amore per diventare a poco a poco un romanzo corale di grande forza. A differenza di molte passioni, quella calcistica dura una vita intera e arde sempre, nel bene e soprattutto nel male: «Forse il calcio è l'unica cosa al mondo che è piú bella quando la fanno gli altri, quelli con quella maglia però. Che comunque ce l'hanno solo in prestito, perché la maglia della Roma è la mia. Potrebbero anche averla rubata. E l'amore forse è questo: correre appresso a un ladro che ci ha rubato qualcosa». Attorno a questa fiamma si condensa un microcosmo di padri, nonni, zii, fratelli di fede giallorossa, una comunità vera e propria, allegra, sterminata, capace d'iniziarti alla vita. La condivisione delle sconfitte, il divano da cui tutta la famiglia «guarda» la radio, l'epica costruzione della bandiera da portare allo stadio insieme ai panini con la frittata, le trasferte su quel pulmino lentissimo che profuma di mandarini, e le partite, certo, viste con occhi bambini ancora allergici a date, nomi, tecnicismi, ma capaci di vedere pure l'invisibile. Poi c'è Barabba, che vive in una roulotte lungo la ferrovia: spetterà a lui svelare al bambino la quantità di universi concentrati in una sola maglia di calcio. La numero cinque. La indossa un brasiliano atipico, un centrocampista che arriva in punta di piedi e realizza il sogno proibito di tutti i tifosi, l'innominabile parola che inizia con la s... La gioia fa parecchio rumore è uno di quei libri che ti fanno immergere totalmente nel mondo che raccontano. E che te lo fanno rimpiangere, alla fine, come se fosse il tuo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806217723
eBook ISBN
9788858432297

Un divano chiamato Augusto

È quasi impossibile parlare dell’amore, si riesce a farlo solo raccontando altre cose che sono poi la vita. Perché l’amore senza vita non esiste, non si può cogliere come concetto. L’amore è gesto, esiste solo se incarnato. Quindi per raccontare l’amore bisogna raccontare qualcos’altro. E poi se al dunque non ci sarà stato modo di comprenderlo, c’è da dire che le uniche cose belle sono quelle che alla fine nessun sapere è mai riuscito a spiegare. Sono quelle le cose delle quali continueremo a parlare. Ogni volta di nuovo, e per sempre.
A casa nostra c’era un divano marrone, anzi color tabacco, ed è lí sopra che è cominciata la mia storia. Aveva i braccioli tondi e i piedi di legno, tondi anche loro. E siccome era di pelle vera, veniva trattato come un essere umano, uno di famiglia. Zio gli aveva dato anche un nome.
È proprio seduto su quel divano che ho visto la mia vita, prima nebulosa e indistinta, rivoluzionarsi completamente per diventare il luogo dove di lí a poco avrebbe agito un’unica forza titanica.
I miei lo avevano acquistato per volere di mio padre, che ne fu poi sempre il vero padrone. Perché a casa mia la roba era di chi la usava di piú e non di chi ne millantava la proprietà a parole. E mio padre ha trascorso la vita su quel divano. E quelle rare volte che non ci stava seduto, permaneva comunque la sua impronta. Come un monito. Perché mio padre aveva due forme di esistenza: o c’era o non c’era, ma quando non c’era si manifestava comunque in un numero infinito di dettagli sparsi per casa.
Il divano lo comprammo in un negozio che stava nella nostra borgata, proprio sotto casa. A Roma c’erano di sicuro posti migliori dove comprare un sofà, ma a noi non importava, compravamo tutto quello che ci serviva nel negozio piú vicino a casa; nella nostra logica comunitaria il negozio giusto era sempre quello del quartiere, l’unico.
Il giorno dell’acquisto mamma e papà stettero prima un bel po’ soli in camera loro. Credo a discutere della spesa, ma non ne sono sicuro, dal momento che mio padre non parlava mai, e mamma e papà quando conversavano lo facevano con gli occhi e basta, e in questo modo, se dovevano affrontare un discorso lungo e complicato, lo risolvevano in uno breve e semplice. Perché gli occhi non sono come la bocca e le orecchie, non sono stati inventati per parlarsi e ascoltarsi. Li puoi anche usare per parlare ma devi fare in fretta, gli occhi si stancano presto, gli sguardi durano un attimo. Evidentemente però il metodo fra loro funzionava, perché a un certo punto, all’unisono, smettevano di guardarsi e voleva dire che si erano capiti. E poi andavano insieme dappertutto, quella volta ancora di piú, vista l’importanza dell’occasione.
Ci sono dei complementi d’arredo che intervengono in modo cruciale sui destini di una famiglia nel mondo, e il divano è certamente uno di questi, perché «ce dovemo mette er culo», diceva mio nonno. Mamma e papà erano persone umili e resistenti, come chiunque sia stato sinceramente povero, e per sinceramente povero intendo una condizione in cui non ti è nemmeno mai venuto in mente anche solo per sbaglio che un giorno potresti non esserlo piú.
Quel pomeriggio papà era tornato molto prima del solito, e capimmo tutti subito che stava per succedere qualcosa di grosso quando si presentò in soggiorno con indosso la camicia. Mamma invece aveva messo il rossetto e la collana, e per prepararsi ci aveva impiegato un sacco di tempo. Quando ci guardarono si resero conto che non sarebbe stato possibile lasciarci a casa e che avrebbero dovuto portare anche noi, per questo tardammo ancora a uscire. Dovetti vestirmi bene pure io. – O tte cambi o nun venghi, – disse mamma. Anche nonna, l’unica che restò a casa, diede il suo contributo all’iniziativa: – M’ariccomanno tanto a vvoi, – sussurrò sulla soglia mettendoci a tutti le mani sul viso.
Il mobilificio era sullo stesso marciapiede di casa pochi numeri civici piú avanti, tipo a venti metri dal nostro portone. Forse trenta, e dall’inizio della spedizione al momento in cui arrivammo davanti alle vetrine trascorsero due o tre ore. Ma una volta arrivati fu chiaro a tutti che eravamo troppi e che non ci saremmo proprio entrati, lí dentro. Allora a noi ci lasciarono fuori lo stesso, e mamma disse: – E non fate caciara, – raccomandazione quanto mai doverosa, visto che fra noi c’era un mezzo cugino che si chiamava proprio er Caciara. Passavano gli abitanti del quartiere e ci guardavano straniti. Perché stavamo lí, ma soprattutto perché c’eravamo vestiti come se ci avessero invitato a pranzo i parenti di Ostia. Zio infatti mi prendeva in giro e mi chiedeva in continuazione se ero emozionato per la mia prima comunione, gli era presa quella che noi chiamavamo la cojonella. E quando mi stancai della sua ironia gli dissi che lui invece sembrava un cassamortaro, uno di quelli che lavorano ai funerali vestiti di scuro, ma si vede che sono stati chiamati la mattina stessa e gli hanno dato la giacca di un altro e che non c’entrano niente con le onoranze funebri. Comunque le persone passavano ma non ci chiedevano niente. Si limitavano a voltarsi e a guardarci. Però ridevano. E io lo sapevo che l’avrebbero detto a tutti quelli del palazzo loro che noi della famiglia mia stavamo lí al mobilificio. Cosí si sarebbe saputo in tutta la borgata che c’eravamo comprati qualcosa al negozio dei mobili. Di sicuro sarebbe stato meglio non vestirci cosí bene per non dare nell’occhio. O comprare il divano di notte. Cercai i miei con gli occhi al di là della vetrina.
Il negozio sembrava allestito in un futuro piú decadente del nostro presente, falso nelle sue linee nuove e pulite, loro due lí dentro non c’entravano niente. Stavano aspettando il proprietario seduti sullo stesso divano che volevano acquistare. Erano in mostra, assieme al sofà. Sembrava si stessero conoscendo in quel momento, come fossero a una festa ma per persone grandi, ai circoli del dopolavoro. Se qualcun altro si fosse comprato quel divano, pensai, si sarebbe portato via anche loro.
Faceva buio, e tutti rientravano a casa. Le automobili sembravano vuote in quella luce, come se non le guidasse nessuno e avanzassero da sole; era quel momento della giornata in cui all’improvviso tutto sembra diverso rispetto a prima, e pure la vetrina, nella sera, da fuori splendeva ancora di piú.
Mamma diceva delle cose a papà, non doveva ancora essere del tutto d’accordo su qualcosa, combatteva contro la lusinga all’acquisto. Era molto bella, aveva la gonna a pieghe e una piccola borsa sulle gambe. Mamma sembrava sempre che avesse smesso di piangere un minuto prima, somigliava a quelle Madonne delle edicole che stanno sparse per Roma, le Madonnelle, come le chiamavamo noi.
Anche papà era molto bello. Aveva la camicia bianca sbottonata fino al cuore, con le maniche girate, e stava sempre zitto. Pareva in ogni momento pronto per una rissa, perché non era solo romano, era del Quadraro, la borgata piú ribelle di Roma che il comandante della Gestapo di stanza nella capitale durante l’occupazione nazista definí «un nido di vespe». Quelli del Quadraro sono fuori posto ovunque, gente nobile in un mondo ignobile.
Zio, che stava fuori con noi, ci disse di aspettare un attimo, che ora ci avrebbe pensato lui a tutta quella gente che si faceva i fatti nostri; entrò nel negozio e s’infilò come un topo nella vetrina attigua, quella dei bagni, dov’erano esposti vasche e gabinetti. Si calò i calzoni fino alle caviglie e si mise seduto su una tazza di ceramica che stava lí, fingendo di andare di corpo mentre leggeva il giornale, proprio come faceva a casa. Teneva il quotidiano al contrario e noi gli facevamo segno di girarlo, ma lui non ci dava retta. Tutti quelli che passavano lo guardavano con gli occhi grossi cosí, e lui faceva il gesto con la mano di andare via, via. E quelli se ne andavano davvero. Era una scena troppo ridicola e noi infatti ridemmo fino a sentirci male.
Poi mamma parlò con il proprietario del negozio, credo riferí quello che gli avrebbe voluto dire papà, perché praticamente mia madre era l’interprete di mio padre, e pure la portavoce, e fratelli e cognati la chiamavano «er segretario de Stato», Stato che era la famiglia nostra della quale papà forse era il presidente, ma piú che altro onorario, perché a casa comandava mia madre. In quegli anni presero a chiamarla anche Eri Kissinger, Eri, non Henry, perché da noi Enrico si dice Erico. E la chiamavano pure ’a Farnesina, come il ministero degli Esteri; appena qualcuno diceva che avrebbe voluto parlare con mio padre, qualcun altro gli rispondeva subito: «Prima devi tlefonà a ’a Farnesina».
Mamma diede il consenso all’acquisto, papà consegnò i soldi al signore del negozio, li contò a uno a uno, battendo una banconota sopra l’altra sul tavolo con risentimento, malvolentieri e quasi dolorosamente, come a briscola quando si cala una carta del seme dominante superiore per valore a quella dell’avversario e si è costretti a prendere comunque in una mano inutile, perché non si può fare diversamente. E li contò a quel modo guardando sempre il proprietario e mai i soldi. Poi su invito di mamma strinse la mano al mobiliere, un gesto d’amicizia consumato con un’estraneità che mentre mostrava le cose come avrebbero dovuto essere ci ricordava com’erano. Perché anche odiarsi è un rapporto, una relazione che ha comunque le sue regole, regole da onorare.
Quando uscirono dal negozio mamma piangeva, papà ci portò al bar di fronte e pagò qualcosa a tutti. Anche ad alcuni che non c’entravano niente e che stavano lí. E quel pomeriggio si trasformò davvero in una festa. A me comprò il gelatino all’amarena che avevo scoperto da poco. Di fianco al frigorifero c’era un cartellone di metallo con tantissimi gelati confezionati e io pensavo che in futuro, uno alla volta, li avrei provati tutti. Ma poi, quando ho cominciato ad amare, la vita di prima si è interrotta e io ho finito per mangiare quello stesso gelatino all’amarena per sempre.
Tornammo a casa e ci togliemmo quegli abiti di riguardo. C’era una grande soddisfazione in noi, ci scambiavamo sorrisi e sospiri. Poi cominciammo coi complimenti, e dopo pure a stringerci in abbracci. Qualcuno disse, per prenderci in giro, che sembrava avessimo firmato l’armistizio. Io risi senza sapere cosa fosse l’armistizio, perché a me le parole che non conoscevo facevano ridere. E quando ridevo cosí mia madre mi guardava per farmi smettere, e lo faceva con uno sguardo che aveva solo lei, uno sguardo che mi procurava un lieve dolore ai testicoli.
Il divano arrivò a casa il giorno dopo, lo portarono su due facchini del magazzino che avevano la coppola in testa e un camice verde che noi chiamavamo sinale, con un suono della s vicino alla z. Quando ero piccolo per ogni mestiere c’era un sinale di un colore diverso, proprio solo di quel mestiere, cosí quando vedevi qualcuno con un camice di un certo colore sapevi per certo se si trattava di un farmacista o di un pizzicarolo. Ma era sempre meglio augurarsi di vedere sul tuo orizzonte il pizzicarolo, dicevano a casa mia.
Io avevo seguito il divano e quei due fin dal portone, e quando arrivarono al pianerottolo mi fecero stendere sul telo e mi portarono dentro casa con tutto il sofà, come un gran visir di qualche sultanato. Mamma offrí loro un liquorino all’anice, si riposarono da noi per un po’. Erano uomini di una serenità granitica, gli unici pesi che avevano nella vita erano quelli che gli facevano portare gli altri. Andarono via dicendo che per quel giorno avevano lavorato abbastanza. E lo credevamo bene, dicemmo.
Papà e mamma si sedettero per primi; erano belli come quando avevano fatto quello stesso gesto al negozio il giorno prima, ma adesso ancora di piú. Qualcuno fece partire un applauso e mamma si alzò subito, precisando che sul divano non si poteva mangiare e che serviva esclusivamente per guardare la televisione, alludendo a un oscuro passato di corrotte abitudini. E tutti le rispondemmo che avevamo capito e che poteva stare tranquilla, ma lei rispose che Tranquillo aveva fatto una brutta fine.
Infine ci sedemmo anche noi, quasi increduli, a guardare la tv, ognuno in quello che sarebbe rimasto il suo posto per sempre. Qualunque cosa ci fosse stata prima di quel divano non aveva funzionato, ma ormai non aveva piú importanza.
Mi piacevano gli animali, come a tutti i bambini, ma non quelli della giungla o della savana, nobili ed esotici per capirci, che nemmeno conoscevo, piuttosto quelli di una certa fauna domestica tipica della campagna, cani e cavalli, papere e topi. Animali del tutto comuni, la visione dei quali però mi emozionava tantissimo. Era questo il mondo che tornava sempre, come per magia, nella televisione che guardavamo dal divano, in un programma semplicemente straordinario, forse il piú bello che si sia mai visto sui canali di stato, e che si chiamava Alla scoperta degli animali. La serie si articolava in episodi davvero fantastici, nei quali c’era un adulto che accompagnava un bambino nel suo percorso di conoscenza, e con voce rassicurante gli svelava ogni mistero di quel mondo animale che era insieme piccolo e grande. Queste due voci erano nientemeno che quella di un padre e quella di un figlio, e io, ogni volta che ci pensavo, sentivo l’emozione trasformarsi in commozione. Il genitore spiegava le cose in modo semplice al ragazzino che poteva fare tutte le domande che voleva senza che il padre si stancasse di lui. Gli restituiva una sapienza buona, nella giusta quantità. Guardando quel capolavoro pedagogico senza pari, manifesto di armonia fra uomo e uomo, fra uomo e natura, e soprattutto fra due nature diverse, lo stupore per le meraviglie dell’universo e la fiducia sconfinata nell’umanità s’impossessavano di me puntata dopo puntata.
C’era però un problema legato al mondo degli animali che mi assillava da tempo, una stonatura che adesso avvertivo ancora di piú, davanti a quella sinfonia perfetta d’immagini, parole e personaggi. Un giorno, durante un episodio, mi decisi a chiedere proprio a mio padre opportune delucidazioni sulla mia perplessità, che adombrava quella poesia rivelata della vita come fanno quelle nuvole dispettose il giorno di Pasquetta, quando le famiglie se ne vanno in gita fuori porta. Sapevo che papà non avrebbe mai risposto, ma sapevo pure che non avrebbe potuto non rispondere.
Eravamo sul divano con gli altri, ognuno al suo posto eterno, e gli chiesi se nel mondo animale un padre poteva uccidere il figlio. Era una domanda che smascherava all’improvviso l’assurdità della vita, e non so bene da dove venisse, ma da qualche parte doveva essermi entrata in testa. Temo al catechismo. Lui comunque non si scompose, fece solo di no col capo, no e basta. Non colsi nessuna indecisione nel suo sguardo. Un atteggiamento che mi parve molto strano, non si era affatto scandalizzato per la mia domanda scandalosa. E rispondendo a quel modo, il suo no andava ad assumere per paradosso un valore assoluto e non relativo, cioè lui stava sí affermando che il padre non uccide il figlio nel mondo animale, ma ero stato io a circoscrivere la domanda a quell’universo, perché il mondo animale non è tutti i mondi, e senz’altro ne esistevano altri. Quali? Quello umano, ad esempio. Fu allora che mi sentii percorso da un brivido.
Tempo dopo, durante un’altra puntata, mi decisi a rivolgergli di nuovo quella domanda, non avevo digerito la sensazione di reticenza che mi aveva lasciato la sua replica muta. Gli chiesi se fosse proprio sicuro che un animale non potesse uccidere il figlio. Mio padre scosse la testa con la stessa risoluta fermezza. Ero sempre piú convinto che ci fosse sotto ben altro, e che si trattasse di qualcosa d’importante.
Rimasi a guardarlo a lungo, finché, non riuscendo a trattenere l’inquietudine, mi venne da scuoterlo per un braccio. Intervenne Zio, alle mie spalle, come una voce fuori campo ma col tempo giusto, dicendo che in natura i padri non uccidono mai i figli e che solo gli uomini sono capaci di un’azione del genere.
Ci fu come una frenata nel mio pensiero, tipo un’automobile che si trova davanti un ostacolo. Una frenata di quelle che lasciano tracce nere sull’asfalto. Ne sentii anche il rumore. Eppure anche fermo non ero al sicuro, forse era già troppo tardi. Quella situazione somigliava tanto a una trappola.
Dopo un imbarazzato silenzio mi venne spontaneo domandare, a quel punto a tutti, perché un padre avrebbe dovuto uccidere il proprio figlio. Zio parlò di nuovo e mi rispose con grande semplicità che c’era un solo motivo al mondo che avrebbe potuto portare un genitore maschio a una decisione del genere: se il figlio avesse deciso di tifare per una squadra di calcio diversa dalla sua. E poi tutti quelli che non erano me o papà se ne andarono simultaneamente, come i levrieri del cinodromo quando escono dalle gabbie per inseguire il fantoccio della lepre che li precede sull’ovale della pista, lasciandoci soli sul divano.
Non ci avevano pensato nemmeno mezzo secondo ad alzarsi e sparire, coordinati, rapidi, sicuramente gente che si era già messa d’accordo alle mie spalle. È cosí quando si consuma un rito, quando succede qualcosa che deve andare in un certo modo per forza. E credo pure che me la dovessero dire da tempo quella cosa. Da tanto tanto tempo. Mi svelarono in questo modo l’esistenza di una legge di natura del tutto invisibile ai piú, ma solare per loro, per noi, una rivelazione che mi lasciò al cospetto di mio padre in una sorta di scacco matto. Il bon ton degli scacchi vuole che non si continui a oltranza una partita già compromessa in modo definitivo per l’avversario, invece loro non avevano avuto nessuna pietà per me. Sapevo di essere l’unico destinatario di quella messinscena, e sovrastato dai fatti accettai le loro volgari insinuazioni. Per il momento. Piú tardi uscii.
Ero certo molto deluso, cosí raggiunsi la macchina di Barabba lungo la ferrovia e mi sedetti sul sedile dietro. Piú tardi Barabba aprí lo sportello e si sedette sul sedile davanti, come dovesse guidare. Per quanto non lo conoscessi di persona e nemmeno gli avessi mai parlato, quel suo gesto non mi stupí.
Barabba mi guardava dallo specchietto retrovisore e non parlava. E a un certo punto, piú o meno automaticamente e senza che lui chiedesse niente, qualcuno gli raccontò tutto quello che mi era successo. E quel qualcuno ero io.
Barabba dimostrò un’impressionante familiarità con le cose umane. Mi disse che, per come eravamo fatti noi, i miei parenti avevano ragione: un padre può sopportare qualunque divergenza con un figlio, anche che sia una guardia se lui è un ladro, o il contrario. O che sia un drogato, o che si faccia prete. E pure che abbia idee diverse in politica, o diverse attitudini sessuali. Ma avere un figlio di un’altra squadra per un padre dei nostri sarebbe stato davvero troppo. E anzi, se davvero volevo mortificare mio padre e profanare il suo ruolo, allora non avrei dovuto fare altro che diventare di un’altra squadra rispetto alla sua. Fu definitivo, perfetto. Mi chiese come avrei reagito se un giorno fosse successo a me, se avess...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La gioia fa parecchio rumore
  4. Breve prologo sull’amore
  5. Un divano chiamato Augusto
  6. In quel mondo rivoltato
  7. Nella colonna di destra
  8. Il rodaggio del cuore
  9. Noantri
  10. La frattura
  11. Alzare una Coppa
  12. Un mondo in miniatura
  13. I sogni e i segni
  14. Pensare il Brasile
  15. Qualcosa di Lui
  16. Il numero cinque
  17. La notte dei desideri
  18. Quella parola
  19. Fuori dal branco
  20. L’idea di madre
  21. A guardarlo in campo
  22. Liti e rinunce
  23. Un salto nel cielo
  24. L’enigma
  25. Con tutta la forza che ho
  26. L’odore dei mandarini
  27. Ecco, cosí
  28. Il volante
  29. Sopra le nostre teste
  30. Ringraziamenti
  31. Il libro
  32. L’autore
  33. Dello stesso autore
  34. Copyright