Il Nanga Parbat è una spina.
Starci sotto ti mette addosso una pressione violenta. E non è solo il peso della sua storia: è una montagna fuori scala, il Monte Bianco ci sta dentro quaranta volte, l’Everest due volte almeno. È il massiccio piú grande della Terra. Appena lo vedi capisci che è una cosa per poche persone, estremamente motivate e disposte a rischiare.
Non conosco nessuno che abbia raggiunto la cima del Nanga alla prima salita. Adam Bielecki era convinto di farcela perché si era acclimatato in Sudamerica, poi si è accorto che non sarebbe stato facile ed è rientrato a casa. Simone Moro ci è dovuto tornare tre volte, cosà come Alex Txikon ed Élisabeth Revol.
Per scalare questa montagna ci vuole tempo, soprattutto in inverno. Devi essere perfettamente allenato, avere pazienza, studiare ogni dettaglio e forse per te si aprirà una porta. La chiave non ti viene data subito, la montagna ti dice: «Mi vuoi? Mettiti comodo».
Quando ci sono andato la prima volta nell’inverno del 2012-13, insieme a Élisabeth, non facevo che pensare: «Ok, mi sono acclimatato, ora posso salire». Era assurdo starsene fermi al campo base. Poi ho imparato ad attendere, a fare ogni cosa per gradi. All’inizio ero come una lepre, andavo su e giú senza sosta, ma il Nanga mi ha dato la sua lezione. E non soltanto rispetto all’alpinismo, quello che capisci scalando lo capisci per la vita e cambia la tua visione, cambia i pensieri, le relazioni con gli altri.
Insieme al K2, era l’ultima cima di ottomila metri inviolata in inverno. Era un problema che attirava molti di noi, alpinisti giovani, sfrontati. Ci chiedevamo come fosse possibile che nessuno l’avesse ancora scalata, nonostante ci avessero provato piú di trenta spedizioni.
Nel 2011-12, quando Denis Urubko e Simone Moro hanno piantato le tende al campo base, tutti eravamo convinti che la montagna avesse le ore contate. Urubko è il Ronaldo delle ascese invernali, un alpinista in stato di grazia. La comunità mondiale degli specialisti è rimasta un mese con il fiato sospeso, finché a febbraio i due se ne sono tornati a casa dopo aver raggiunto 6600 metri di quota.
A quel punto è diventata la sfida, per tutti.
La complessità del Nanga Parbat ha diverse ragioni. È una montagna sopra un’altra montagna. Per arrivare in vetta percorrendo la via normale, la Kinshofer, devi salire su una cresta a 7400 metri, ridiscendere sulla sella a 7200 e salire di nuovo altri novecento metri per raggiungere la vera cima. Perdi quasi duecento metri a una quota in cui la percezione del freddo può arrivare fino a sessanta gradi sottozero, con raffiche di vento che superano i cento chilometri orari e una rarefazione dell’aria appena tollerabile dal corpo umano.
Un altro fattore che lo rende temibile è l’estrema variabilità delle condizioni atmosferiche. Poter disporre di previsioni affidabili è una questione vitale, il vento e il freddo ti possono uccidere. Se sei sulla montagna nel momento sbagliato, non hai scampo. Sei ti fai male, puoi contare solo sulle tue forze. Se hai un malore, te la devi cavare. È impossibile salvare chi va sopra i seimila metri, gli elicotteri non volano a quelle quote, nessuno può salire a prenderti, a parte un pugno di scalatori himalayani – forse dieci al mondo – che devono essere già acclimatati per poter tentare un soccorso senza rischiare di morire pure loro.
Il Nanga è un massiccio gigantesco circondato da un deserto, isolato dagli altri Ottomila del Karakorum e dell’Himalaya. Solo lui e niente intorno. È esposto a tutte le modificazioni del clima, perché non è riparato da nulla. Ed è il piú occidentale, quindi il primo che viene investito dalle perturbazioni, che di norma avanzano da ovest verso est.
È come un enorme scoglio nel mezzo di un torrente impetuoso su cui vanno a sbattere le correnti, cosà che non si riesce mai a indovinare in che direzione schizzerà l’acqua. Nello stesso modo, fra un versante e l’altro si creano dei venti improvvisi, imprevedibili, che dal punto di vista meteorologico rendono la montagna una scheggia impazzita.
È un microcosmo all’interno di un cosmo piú disciplinato, una zona con regole diverse rispetto a quello che c’è intorno. Imparare a conoscerlo è stato come osservare un neonato, studiarne le reazioni, i moti, le espressioni.
Un’altra difficoltà è che il campo base del Nanga si trova a 4200 metri, mille piú in basso rispetto ai campi base di tutti gli altri Ottomila. Da qualunque versante prendi la montagna – Diamir, Rakhiot, Rupal – c’è il dislivello in assoluto piú grande tra campo base e vetta. Significa una dilatazione estrema del tempo di scalata.
Quando un alpinista riesce a percorrere in alta quota fra gli ottocento e i mille metri di dislivello al giorno, vuol dire che è molto forte. Per farne quattromila, gli servono cinque giorni solo per salire la montagna e almeno altri due per scenderla. Sette giorni consecutivi di bel tempo. In inverno, un’utopia.
Nel caso delle altre montagne ci sono mille metri in meno da coprire, si risparmia un giorno e mezzo. Perciò basta una finestra di cinque giorni di bel tempo, prospettiva piú realistica.
Al fattore meteorologico e al maggiore dislivello da percorrere si aggiunge la natura della via. Nonostante l’Everest sia settecento metri piú alto del Nanga, il Nanga è piú difficile, anche in estate.
È la stessa differenza che passa tra il Monte Bianco, 4800 metri, e il Cervino, 4400 metri. Sul versante italiano del Monte Bianco si può andare in vetta senza quasi mai usare le mani, sul versante francese si mettono i ramponi, si usano un poco le mani e si raggiunge la cima. Il Cervino, invece, da qualsiasi lato presenta pareti di roccia di quarto o quinto grado. Non è solo l’altezza a fare la difficoltà di una montagna, ma anche la pendenza della via che conduce alla cima.
Tutti e tre i versanti del Nanga Parbat prevedono passaggi in cui si è obbligati ad affrontare pareti verticali, in alta quota.
Ciò che scoprivo studiando non faceva che alimentare il fuoco che avevo dentro. Il Nanga mi attraeva, la possibilità di tentarlo in inverno, lo stile di salita, l’idea di una via nuova ancora di piú. Questa era per me l’impresa, questo il suo senso.
Quando metto piede sullo sperone per la prima volta è l’inverno 2012-13. Con me c’è Élisabeth Revol. Sono già stato in vetta al Nanga nell’estate del 2008, ma l’inverno è un’altra cosa, cambia i connotati alla montagna.
Penso a Mummery, al suo tentativo solitario di fine Ottocento, alla paura che deve avere sentito sotto la lama della roccia aggettante, alla sua cocciutaggine. Penso a Messner, alla lacerazione che si prova a perdere un fratello, a tutte le volte in cui è tornato su quella montagna, dopo esserci quasi morto. Da bambino ero molto sensibile alle storie che leggevo, erano parte dell’alpinista che ancora non si esprimeva ma che stava prendendo forma nelle parti cieche del mio corpo.
Su una montagna che ha catalizzato vicende cosà potenti, non è piú solo una questione di spingere il fisico, allenarlo perché possa raggiungere l’obiettivo. Le sensazioni si fanno profonde, in ogni passo si concentrano la volontà , l’intuizione, la sofferenza di chi ha visto quella via prima di te e l’ha desiderata.
Dal campo base ho passato giornate intere a osservare la montagna con il binocolo. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo sperone, una costola che sale sfacciata verso la vetta, senza deviazioni, senza fronzoli. Una linea dritta, come la traiettoria di caduta di una goccia d’acqua. La scalata perfetta.
La prima esperienza di una spedizione invernale è soltanto il freddo, ogni minuto combatti contro questo freddo che non molla mai la presa. Il campo base è un insieme di tende poggiate sulla neve. Ce n’è una grande dove si monta la cucina e dove stanno il cuoco e il suo aiuto, una per i materiali e una comune per mangiare, poi quelle singole per dormire. Di solito nella tenda comune c’è una stufa a cherosene che, quando funziona al massimo, può portare la temperatura intorno allo zero. Per il resto del tempo si vive sempre sottozero, la notte a meno venti, meno trenta gradi. Si dorme per terra dentro il sacco a pelo, con un materassino a separarti dal suolo gelido. Non c’è mai una tregua dal freddo, non ci si spoglia mai, ci si lava di rado. Quando le spedizioni sono numerose si monta un piccolo box per i bisogni, altrimenti si fa tutto fuori.
D’inverno sul Nanga, sul versante Diamir, il sole riesce ad alzarsi oltre le cime per un paio d’ore, fra le 11 e le 13. Certi giorni non fai che desiderare il momento in cui lo sentirai sulle guance, sulla punta del naso, attraverso tutti gli strati con cui sei coperto. Il Nanga è piú freddo del K2, dell’Annapurna, piú freddo di qualunque altro Ottomila. Tomek Mackiewicz lo ha chiamato the huge fridge.
All’inizio cerchi solo di capire come sopravvivere, come dosare le forze, perché all’improvviso sei catapultato dentro il corpo di un vecchio, fare qualsiasi cosa ti affatica, ti fa mancare il fiato. Arrivare al campo base vuol dire aver già fatto un trekking di avvicinamento che può durare una decina di giorni, nel caso del Nanga il trekking è piú breve perché si parte da 1300 e si arriva a 4200. E a quel punto può capitare di tutto, mal di testa, nausea, picchi di ipertensione, difficoltà a dormire, edema polmonare, edema cerebrale.
Nel 2013 la via normale, la Kinshofer, è molto ghiacciata, poca neve, secca nella parte alta. Sarebbe pericoloso andarci senza corde fisse. Temo che Élisabeth se ne torni a casa, perché non abbiamo nessuna alternativa e dello sperone non abbiamo mai parlato come di una possibilità condivisa. Io invece ne sono già innamorato, ancora non immagino quanto intimamente.
Una sera metto sul tavolo le immagini del Mummery, alcune ingrandite. Lascio che Élisabeth le guardi, le studi con calma. Poi le mostro il cono di caduta dei seracchi sommitali, che so essere una sua preoccupazione. Sopra lo sperone ci sono due ali di seracchi, due muri di ghiaccio alti settanta metri, poi uno ancora piú a destra, sopra la solitaria di Messner. Il ghiacciaio si muove e per il peso si spacca sulla parte frontale, cadono interi frammenti grandi come palazzi che vanno a finire ai piedi dello sperone.
– Per fare la parte bassa e arrivare sotto servono un paio di giorni, ma siamo esposti alla caduta solo in una parte del tragitto. C’è molta neve adesso, e se qualcosa cade la neve lo ferma prima che possa colpirci. Poi, una volta sul Mummery, siamo protetti e lo possiamo scalare in sicurezza.
Devo convincerla a ogni costo, mi è presa una smania di salire, di conoscere lo sperone da vicino. Lei rimane in silenzio, beve tè caldo e passa da una foto all’altra. Il vento sferza la tenda con violenza, fa sbatacchiare la copertura che in alcuni punti non è bene assicurata. Non ci siamo ancora presi le misure, Élisabeth è un’alpinista fortissima ma non so come voglia affrontare la scalata, con che spirito viva la sofferenza e lo stato di allerta costante che t’impongono gli Ottomila.
La osservo.
– Quando senti una forte attrazione nei confronti di una montagna e vuoi proprio scalarla, oltrepassare il confine è facile. Il Nanga è il mio sogno da due anni a questa parte, mi sono preparata solo per lui. Quindi ho dovuto fissare delle regole e l’ho fatto, con me stessa e con mio marito, perché è la persona piú importante della mia vita e perché so che per lui è molto stressante sapermi qui. Con lui non ho mai oltrepassato il confine, non ho mai infranto le nostre regole e non voglio farlo nemmeno ora.
I suoi occhi piccoli e grigi scintillano alla luce fioca della lampada, che oscilla per il vento. Mi fissa, quasi volesse strapparmi da dentro una risposta che non so di avere. Sulla montagna è un gioco di equilibri. Sarebbe bello poter salire solo in condizioni perfette, cinque giorni sicuri di bel tempo, un’ottima forma fisica, la mente vuota, stabile. Ma non è mai cosà e allora impari a giocare in continuazione con il confine perché se non lo fai, se non spingi, se non forzi, vuol dire che la strada che hai scelto non è poi cosà dura e la sfida non è alta. Sei come un animale con tutti i sensi aperti, ascolti il tuo corpo, l’ambiente, il clima che cambia all’improvviso, per avvicinarti il piú possibile e poi poter tornare indietro. Ogni alpinista si dà il proprio limite.
Al campo base del Nanga rispondo soltanto a me stesso, sono il re del mio regno. Non sono sposato, da piú di un anno non ho notizie di Daniela, ci siamo lasciati male, anzi, è stata lei a lasciarmi. È scomparsa. Nessuna spiegazione, nessuna risposta ai miei messaggi, silenzio totale, come si fosse trasferita su Marte.
Sarei disposto ad andare incontro al Mummery anche da solo.
La mia è una famiglia numerosa, molto ramificata. Al ritorno dalle spedizioni avevo l’abitudine di organizzare delle cene per raccontare al paese la mia esperienza. Quando tra i parenti si era sparsa la voce che ero stato in cima all’Everest, avevano voluto che mostrassi le foto nell’agriturismo di proprietà di alcuni zii, dove c’era un grande piazzale circondato da piante secolari. A furia di dire in giro: «Il figlio di Agostino ci fa vedere le foto dell’Everest», ci eravamo ritrovati in centotrenta fra alpinisti, appassionati di montagna, curiosi e parenti. Un meraviglioso casino.
A fine serata stavo seduto in un angolo a scambiare qualche idea con un alpinista di Frosinone. Si era avvicinata una ragazza.
– Forse non ti ricordi di me. Sono Daniela, una tua cugina lontanissima.
L’avevo guardata negli occhi e da vero spaccone setino avevo subito pensato: tu sarai mia.
Era il 2004, da allora avevo fatto in modo che ci vedessimo. Organizz...