Albie è a bordo di un veliero che trasporta tè. Oscilla e cigola al vento, le vele pulsano come un cuore che batte. Eleganti soffitti a cassettoni, amache ben tese. Sua sorella è con lui, lo tiene per mano, e Albie ha i suoi denti nuovi in bocca. Se chiude gli occhi gli sembra di sentire sul viso il morso del mare e del vento, di poter correre da poppa a prua e urlare le parole che gli ha insegnato un marinaio una volta: Ammainate le vele! Randa sopravvento! Virate! Timone sottovento! Tutto intorno a lui l’orizzonte è un mormorio infinito, una linea azzurra di mare che incontra il cielo che incontra le nuvole.
La barca brontola con piú violenza e sua sorella comincia a piagnucolare. Lo schiocco delle vele si fa sempre piú secco, piú forte, come una sonora serie di schiaffi al vento. Albie è su una barca. Su una barca. Sua sorella gli stringe piú forte la mano.
Ora Albie è sottocoperta, disteso nella sua amaca, e sopra di lui ce n’è un’altra. Nella tempesta, i sussulti del vento gli schiacciano il letto – anzi no, l’amaca – sopra di lui contro il naso, folata dopo folata. Albie è su una barca. SÃ.
La tempesta se ne va con un ruggito finale, sua sorella gli affonda le unghie nella carne, e Albie vorrebbe uccidere il vento, strangolarlo all’istante, picchiarlo fino a fargli sputare il suo ultimo alito.
Quando la porta si richiude con un tonfo, sgattaiola via da sotto il letto. Gli fa male la mano. Ha i segni di quattro livide mezzelune sul dorso.
Mentre allunga la mano verso sua sorella per ravviarle una ciocca dei capelli biondi dietro l’orecchio, lei sussulta.
– Non è stato violento stavolta, – dice Albie. – Vero?
Sua sorella scuote la testa mentre conta le sudicie monete lasciate sul cuscino. Le morde. Le conta anche Albie. Sei pence. Avrà guadagnato almeno cinque volte tanto, per quando sarà conclusa la nottata. Avrà un bel daffare con quell’influenza che si ritrova, Albie ne è sicuro: si è spacciata per malata di tisi e ha aumentato la tariffa di un penny. Le ragazze moribonde sono le piú richieste di tutte. A quel pensiero si stringe piú vicino a lei, nasconde il viso tra i suoi capelli. – Molto meglio che lavorare in fabbrica.
Sua sorella si alza. Lui resta a letto, prende ago e filo e comincia a canticchiare. Il vecchio deposito di carbone è una stanzetta piccola come una scatola di cerini, e da dove è seduto sul letto, Albie riesce a toccare tutte e quattro le pareti. Se poi si mette in ginocchio sul materasso striminzito riesce a toccare anche il soffitto.
– Quell’ufficiale a cavallo
l’ho conosciuto in un reggimento,
quel che gli ho dato non gli è piaciuto,
e gli ho rubato i cucchiai d’argento.
Con la coda dell’occhio Albie osserva sua sorella, accovacciata sopra la bacinella d’aceto, uno sturalavandini in mano, i peli del pube in un groviglio unto. Vorrebbe tanto dirle: Andiamo via! Imbarchiamoci di nascosto e partiamo… Ma non sarà sempre lo stesso? Ovunque vadano, sarà sempre lo stesso. Odia questa vita. La odia a sprazzi improvvisi, incontrollati, eppure la accetta, e non la giudica in termini di felicità o infelicità ma solo di sopravvivenza, nella misura in cui riesce a tenersi alla larga dalla fabbrica o dalla cassa da morto. Ma a ogni passo pesante su per le scale sente dentro il bisogno di correre, scappare via, abbandonare tutto.
– Ti sta strangolando qualcuno?
– Si chiama cantare, – risponde Albie con voce rassegnata e ago in mano. – E comunque sono armato. Se qualcuno si fa avanti gli infilzo le palle degli occhi come chicchi di uva spina.
Albie torna al suo cucito. Con dei ritagli di stoffa sta confezionando una coccarda da regalare a Iris per Natale, ma non ha il coraggio di dirlo a sua sorella per paura che gli dia della mammoletta. Ha ripensato spesso a quella moneta che Iris gli ha infilato in mano, il che non fa che confermare la sua convinzione, ovvero che sia una specie di regina. Ricorda le sue altre gentilezze: una pagnotta messa di nascosto nel suo cesto del cucito, una trottola che era un suo gioco da bambina.
Sua sorella si infila sotto la coperta. – Dormo un po’, prima che ne arrivino degli altri, – dice.
– Ohi! – Sentono sbattere alla grata della finestra sopra di loro. – Ohi, Alb… c’è un cane…
– Non t’azzardare a portare un’altra volta qui dentro un cadavere puzzolente, – gli dice la sorella, ma lui sta già correndo oltre la tenda che fa da porta alla stanza, e poi su per le scale fino alla soglia sgangherata che dà sulla strada, con in mano il suo sacco per le Creature Morte.
– Quant’è grave? Quant’è vecchio?
– Boh! Ma è finito sotto un carro, – dice il ragazzo.
– Morto?
– No, no. Ulula cosà tanto che potrebbe svegliare gli scheletri di St Anne. Ti conviene sbrigarti.
Il sole sta calando, un tuorlo sbiadito che si intravede a stento tra il fumo e la polvere di carbone. I due schizzano via, si catapultano per le strette strade del quartiere – Old Compton, Frith e Romilly – finché sentono il guaito del cane. Mentre corrono cominciano già a contrattare – un dolce, un sacchetto di mangime per polli – e Albie acconsente a comprare all’amico un po’ di zenzero candito per ricompensarlo della soffiata.
La zampa posteriore del cane è intrappolata sotto la ruota di un carro, mozzata e spolpata tanto da mostrare l’osso. Il cane si dimena nel tentativo di liberarsi, ma ogni volta che si muove i guaiti diventano sempre piú penosi. Il sangue scivola nel canale di scolo.
– Qualcuno faccia smettere di soffrire quella povera cagna, – dice un uomo. – Un paio di calci e non ci pensiamo piú.
– Lasciatela a me, – dice Albie, e si avvicina cauto alla bestiola. – Sssh, buona –. Teme che un suo morso possa farlo diventare un pazzo con la bava alla bocca. La zampa è andata; il cane può solo morire. È un pezzo di carne viva, né piú né meno come gli scarti che il macellaio regala di nascosto ai giovani mendicanti per compassione.
– Sei una bella cuccioletta, sai? – dice Albie accarezzandola. L’animale si tranquillizza, gli occhi bianchi di terrore. Trema. – Buona, buona, principessa.
Fa segno all’amico di passargli un sasso. Poi chiude gli occhi. Meglio cosÃ, meglio che lasciarla morire lentamente di dolore, o sotto i calci divertiti di qualche ragazzaccio. E magari, cosà facendo, chissà che non riesca a scucire a Silas qualche altro scellino, e ad avvicinarsi un po’ di piú al traguardo dei suoi denti nuovi. Preferirebbe strangolarla, e ci guadagnerebbe anche di piú perché la testa resterebbe tutta intera. Ma non sopporterebbe di spaventare la bestiola in quel modo, restare a guardare gli spasmi del panico mentre il battito si fa sempre piú incerto.
Un tonfo sordo, uno scricchiolio, e poi il cane non fa piú rumore. Albie si accovaccia, ha il respiro corto. Le palpebre dell’animale fremono ancora, ma lui sa che è morto. Si asciuga il viso con la mano e gli tremano le dita mentre libera la zampa maciullata della bestia da sotto la ruota.
– Mi dispiace, principessa, – dice, ed è sincero.
Megalosauro, megalosauro, megalosauro.
Albie non ricorda dove ha sentito questa parola né cosa significhi, ma dà una cadenza ai suoi passi. Se la ripete sottovoce mentre scatta e svolta per le strade, catapultandosi nel negozio di Silas a Covent Garden. Il cane che ha nel sacco è ancora caldo, povera bestiola. Un giorno farà anche lui la stessa fine, il corpo steso in un obitorio, ormai utile solo a far esercitare un chirurgo. Rabbrividisce. Sua sorella gli dice sempre di andare piano, di non infilarsi come una saetta in mezzo al traffico di carrozze, cavalli e vetturini con le loro fruste d’argento. È stato cosà che ha perso gran parte dei denti: sbattuto sul fianco della strada da un carro quando aveva quattro anni. Erano denti da latte, ma quelli nuovi non sono mai scesi. Si stuzzica il suo unico dente con la lingua.
Megalosauro, megalosauro, megalosauro.
Percorre l’ampio viale dello Strand, attraversa scie trafelate di impiegati in fila come formiche, imbocca un vicolo cieco, cosà stretto che può passarci a malapena una persona – trattiene il fiato, perché l’odore è nauseante –, ed entra deciso nella bottega di Silas. C’è una piccola insegna accanto alla porta, e Silas gli ha detto che serve ad avvertire i clienti di bussare e suonare, e cosà lui tira il filo che si collega al campanello e batte forte sulla porta. Il negozio è scuro come il carbone, niente candele alle finestre, non c’è anima viva nei paraggi. Solo il miagolio di un gatto che si fa le unghie su un muro.
– Chi è? – chiede Silas. Ha un’aria ancora piú smunta del solito, lo sguardo nervoso. Scruta Albie con attenzione, poi il vicolo, poi di nuovo Albie. Si tormenta una ciocca di capelli.
– Stavolta ho un vero gioiello, – dice Albie, ma sa benissimo che non è il suo bottino migliore. – O almeno avevo per le mani un diamante, solo che ho dovuto lanciarlo a un cagnaccio che mi stava alle calcagna.
– Di che si tratta?
Albie si gratta la testa. – Se non ricordo male era un megalosauro, di quelli piccoli, ma mi sa che ormai dovete farne a meno –. Alza le spalle, ma sembra che Silas non abbia sentito le sue parole. – Però aspettate di vedere cosa ho, signore…
Fa una pausa, ha paura che il cane possa suscitare nient’altro che sdegno, perché vede che l’attenzione di Silas è già debole. Ad ogni modo stringe la bestia con entrambe le mani, la tira fuori dal sacco e alza gli occhi con aria speranzosa. La dentiera d’avorio costa quattro ghinee e lui ha messo da parte solo dodici scellini. Di questo passo rimarrà senza denti almeno fino ai trent’anni.
Silas non dice nulla. Sembra trapassarlo con lo sguardo. Albie prosegue, anche se la sua voce cantilenante è meno vivace del solito. – Signore, un esemplare freschissimo, appena morto. Non si è ancora irrigidito, pensate che bello scheletro, ogni cosa al suo posto, signore. Bella pelle per fare guanti, pelo per le guarnizioni. E le ossa… potreste intagliarle, signore, farci fischietti, pettini o chissà cos’altro, o magari tasti di pianoforte… oppure…
– Quella ragazza, – lo interrompe Silas colpendogli la mano con uno schiaffo.
Il cane cade a terra, e Albie lo raccoglie. Gli accarezza involontariamente la testa. – Che ragazza?
– Lo sai –. Si tocca la clavicola, e Albie cerca di atteggiare il viso a una smorfia confusa, benché abbia capito all’istante.
– No so di chi state parlando, signore.
– La ragazza che lavora da Mrs Salter. Iris.
Albie arriccia il naso e fa finta di grattarlo. – Non mi pare di ricordare nessuno con quel nome, signore. Proprio no.
– Al cantiere della Grande Esposizione. Sei stato tu a presentarci, dannazione!
– No… ve lo sarete immaginato, – insiste Albie, sperando di far leva sul modo distorto, illusorio, che l’uomo ha di vedere il mondo. – Non vi ho presentato nessuno, signore. Forse l’avete sognato. Non conosco nessuno con quel nome. Nessuno.
Ma Silas guarda oltre il ragazzo, strattona la sua ciocca di capelli, si morde le labbra già tormentate.
– Ve l’assicuro, signore, non avete incontrato nessuna ragazza.
Non arriva risposta.
E Albie sa che non è un buon segno.