La fine dei vecchi tempi
  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Per la prima volta tradotto in italiano uno dei libri piú originali e divertenti del Novecento. In apparenza è un romanzo realistico ambientato nella neonata Repubblica cecoslovacca, alla fine della prima guerra mondiale, e centrato sul contrasto fra la morente aristocrazia e la nuova borghesia rampante e un po' volgare. Ma sotto tale apparenza, elaborando in chiave modernista i modelli del Tristram Shandy e del Barone di M ü nchhausen (e le tecniche cinematografiche degli anni Venti e Trenta), Vančura rappresenta l'inestinguibile dissidio tra verità e finzione. Al seguito del bibliotecario Bernard Spera, uno dei piú loquaci e simpatici «narratori inaffidabili» della storia della letteratura, il lettore viene trascinato in un turbine di personaggi e vicende che sono in realtà la parodia del romanzo realistico e l'affermazione della narrazione come infinita macchina desiderante.Se, a uno sguardo superficiale, La fine dei vecchi tempi sembrava davvero mettere in scena essenzialmente lo stridulo contrasto tra il defunto mondo dell'aristocrazia e il mondo borghese e un po' volgare della nuova economia dei profitti, una piú attenta lettura dimostra invece che ciò che a Vančura in realtà interessa rappresentare nel romanzo è un piú profondo dissidio tra veridicità e finzione. Alla voluta semplicità della trama, dove si narra degli sforzi di alcuni intrallazzatori per riuscire a mettere le mani sulla tenuta di Kratochvíle o - variante tematica di uno stesso "oggetto di valore" - sulla ventenne figlia di Stoklasa, quasi come se l'autore avesse voluto raccontare in parallelo due volte la stessa storia, una volta dal punto di vista del romanzo degli intrighi politici, un'altra da quello degli intrighi amorosi, a questo esile schema narrativo [...] si contrappone infatti - nell'architettura del romanzo - la robusta figura del narratore, autentico motore e fulcro dell'azione. Aleksandr Megalrogov è sí il protagonista del romanzo, ma Bernard Spera ne è il demiurgo. È lui [...] che - nell'erratico procedere del discorso, nella sua continua messa a nudo dei procedimenti - ne modella il "senso", raccontando col necessario distacco del servo e dell'escluso.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806242992
eBook ISBN
9788858432341

La fine dei vecchi tempi ovvero La vita e le opinioni di Bernard Spera, bibliotecario

Il mio atteggiamento verso l’intreccio di tipo comune è come quello del dentista verso i denti. Ho basato il libro sul contrasto di persone di due culture diverse: gli avvenimenti, di cui si fa menzione nel testo, si svolgono solo come materiale per metafore. È un procedimento comune per le opere erotiche: in esse si nega il piano reale e si afferma il piano metaforico1.
Praga, febbraio 1934. La rivista letteraria «Listy pro umění a kritiku» pubblica sul primo numero del nuovo anno – col titolo: La fine dei vecchi tempi. Prefazione di Bernard Spera – un’anticipazione del nuovo romanzo di Vladislav Vančura. La cosa un po’ ci stupisce. Neanche un mese prima, infatti, in una lettera allo scrittore Jiří Mahen (zio dello stesso Vančura), il romanziere gli aveva appena confessato il desiderio di scrivere «in una casetta di montagna un romanzo su un fuoriuscito russo. S’intitola La fine dei vecchi tempi ovvero Il barone di Münchhausen»2. E, guarda un po’ te, in mezzo a mille altre cose, è proprio di un misterioso principe russo fuggito dalla Russia rivoluzionaria, tale Aleksandr Megalrogov («da noi soprannominato il Barone di Münchhausen»)3, che discorre il bibliotecario signor Spera nella sua alquanto bizzarra prefazione. E questa cosa qui doveva invece certo aver stupito i suoi lettori: era infatti noto che Vančura aveva in mente, già da almeno un paio di anni, il progetto di girare un film a partire proprio dal personaggio di Münchhausen, tema suggeritogli da uno dei direttori di produzione degli importanti studi A-B, per i quali lo scrittore aveva già lavorato in due lungometraggi, sia come soggettista che regista.
Il soggetto del film era già stato consegnato, e anche una sceneggiatura tecnica, e si era pure scovata nella Boemia centrale un’intrigante biblioteca a pianta circolare per Bernard Spera, ma ora – dopo uno sfibrante tira e molla – la casa di produzione A-B non sembra piú interessata. Non che ci fosse neanche tanto da meravigliarsi: quella nuova borghesia rinsaldatasi con la fine della Guerra mondiale (e forse anche grazie alla Guerra mondiale), quella famelica borghesia che nella sceneggiatura si accapiglia per conquistare la proprietà di Kratochvíle o la mano della figlia del reggente (che sembra essere in fondo la stessa cosa), quella ricca borghesia che Vančura prendeva cosí ferocemente e allegramente in giro, era quella stessa che nel suo film avrebbe dovuto investire i propri capitali. Ma sugli schermi di quell’inizio di anni Trenta «i ricchi industriali si sposavano con delle ragazze povere e i nobili possidenti facevano a gara nel compiere buone azioni»4. Le immagini non collimano. Quale che fosse la reale motivazione, nel trasformare in romanzo la sua sceneggiatura lo scrittore era andato di certo all’incontrario rispetto alle buone vecchie abitudini di trarre i film dai romanzi. Ma non poteva fare altro. Anche perché l’invenzione del bibliotecario-narratore aveva totalmente sbaragliato gli equilibri della sceneggiatura.
1. Quando nel settembre del 1934 esce il romanzo La fine dei vecchi tempi5, Vladislav Vančura è già ormai uno scrittore affermato. Ha quarantatré anni e alle spalle piú di una decina di volumi di narrativa e tre opere teatrali. È stato, nel 1920, il primo presidente del gruppo Devětsil, il cuore pulsante dell’avanguardia ceca e di quello che sarebbe stato chiamato il Poetismo, ma si è quasi subito allontanato, e ora si sente piú vicino agli studiosi del Circolo linguistico di Praga (Jan Mukařovský, Roman Jakobson…), dove tiene anche conferenze: il loro interesse concreto per il fatto artistico lo stimola piú ancora delle sirene del Surrealismo, che invece – giusto in quel 1934 – fa da collante per (quasi) tutti i suoi compagni di quindici anni prima6. Ha studiato Medicina, ha fatto il medico, e proprio quell’anno decide di dedicarsi interamente alla scrittura: l’importante casa editrice Melantrich gli ha offerto un allettante contratto di collaborazione e stanno già pubblicando le sue Opere complete. Lo scrittore ha, però, solo ancora meno di otto anni di lavoro, prima di essere arrestato per la sua attività antinazista nel Comitato rivoluzionario degli intellettuali e fucilato nelle cruente rappresaglie che seguono nel ’42 all’attentato a Praga al Reichsprotektor Reinhard Heydrich.
Il cinema affascina Vančura da sempre. Aveva iniziato anche lui, negli anni Venti, come gli altri ragazzi del Devětsil, con cinescenari che non avevano realmente velleità di trasformarsi in film: era all’epoca solo un modo di velocizzare la prosa, di giocare con gli sbalzi di tensione della realtà. Ma con l’inizio degli anni Trenta, lui – unico – passa direttamente dietro la macchina da presa, senza però mai dimenticare la sceneggiatura, autentico «fulcro del film» e suo «punto di vista primario», come dichiara in una conversazione del settembre 1933, mentre è in fervida attesa proprio del responso della A-B. La caricatura di Adolf Hoffmeister, che accompagna su rivista quella conversazione sul cinema, definisce Vančura un «ribelle amatoriale» e lo mostra arditamente accovacciato sul ciglio di una montagna innevata, cineasta d’assalto tutto intento a filmare qualcosa con una piccola cinepresa portatile, e una professionale visierina in celluloide piantata sulla fronte7.
Sia il breve soggetto, intitolato Jen se neostýchejte («Non faccia complimenti»), dove già riecheggiano gli eleganti dialoghi e le belle maniere, sia la sceneggiatura – che fin dal nuovo titolo, Baron Prášil («Il barone di Münchhausen»), pone invece al centro dell’attenzione l’ospite inatteso – narrano delle comiche vicende al castello di Kratochvíle, dove dopo il 1918 il ricco possidente Josef Stoklasa, che ha sostituito il vecchio proprietario, vive con la figlia sedicenne Michaela (il soggetto prevedeva anche una moglie, Leopolda), i suoi due spasimanti: Lhota e l’avvocato Pustina, «il bibliotecario Spera e un monaco, che appartenevano all’inventario del castello» (nella sceneggiatura il monaco bon vivant si chiamerà Amadeus) e infine un’educatrice inglese che col bibliotecario si scambia ripetute occhiate significative. Un giorno, in questo letargico idillio, durante l’avvio di una battuta di caccia, tra gli ospiti di Stoklasa («tiratori della domenica […] vestiti un po’ troppo da cacciatori») irrompe, assieme al proprio servo Vanja, il colonnello russo Prášil, nome che la tradizione ceca ha riservato al personaggio di Münchhausen, per cui sarà cosí che d’ora in avanti chiameremo il protagonista della sceneggiatura. Sarà per uno scambio di persona, o per abitudine, o sarà forse per l’autorità che emana dalla sua figura, ma i servitori cominciano subito a chiamarlo “barone”, e il titolo da lí gli rimane appiccicato. Il suo arrivo, ma soprattutto il suo attacco alle maniere ipocrite e al carattere illusorio degli ospiti di Stoklasa, come anche il repentino innamoramento di Michaela per lui (con relativa reazione dei piccati pretendenti), crea quegli scompigli che il romanzo con gusto e ampiezza di dettagli ha poi saputo sapientemente mettere in scena. Insomma: schermaglie verbali, doppio duello e fuga, che però nella sceneggiatura si immaginava in pompa magna, allo scoccare della mezzanotte, col circense diversivo di un folle «corteo da operetta» con cameriere, sguatteri e cuoco che suona il fagotto. Non è però questo che qui c’interessa8.
Diranno gli ingenui che questo è «realismo», «vita quotidiana». Mettersi a discutere con loro è inutile9.
2. Torniamo al romanzo che, allo schema dei personaggi già presenti nella sceneggiatura, aggiunge ora – come in un reality in progress – una seconda figlia di Stoklasa, la tredicenne Kitty, il suo alter ego e coetaneo Marcel, inserviente tuttofare, e un’insegnante di francese: la graziosa Susanne, che non lascerà dormire sonni tranquilli al povero bibliotecario. Le caratteristiche del monaco Amadeus, che nel romanzo scompare, vengono invece annesse d’ufficio al bibliotecario Spera, mentre dal signor Lhota (che nel soggetto risultava di professione giardiniere e nella sceneggiatura contadino) si germinano tre personaggi: il maturo imprenditore Jakub Lhota, suo figlio Jan (che contende ora lui all’avvocato Pustina la mano di Michaela) e l’iroso contadino Charousek. Nel frattempo la sedicenne Michaela – in crescita disomogenea rispetto al resto della famiglia – ha raggiunto i vent’anni, mentre quello che era il «barone di Münchhausen» si è ora ben piú pomposamente trasformato nel «principe Aleksandr Nikolaevič Megalrogov, colonnello dello zar Nicola II» (come egli stesso si presenta alla combriccola dei cacciatori)10. Accantonando per il momento le diramazioni dell’intreccio, quello che qui ci preme rilevare è che lo scrittore, nel suo rimescolare le carte della sceneggiatura, immette essenzialmente due elementi che cambiano drasticamente il senso della vicenda raccontata. Il primo è ovviamente quell’ingombrante narratore, il bibliotecario Bernard Spera, che racconta adesso nelle sue Memorie vicende di quindici anni addietro, l’altro è quello che invece potremmo definire lo “statuto legale” di Kratochvíle, il castello coi suoi boschi e i suoi terreni.
La fine dei vecchi tempi rappresenta in Vančura un vistoso cambio di passo. Abbandonando le fantasiose costruzioni dei libri precedenti, dov’era principalmente la parola a dominare rispetto al narrato (fino a una sorta di apparente romanzo poliziesco che procede in una selva di proverbi e modi di dire, riprodotti alla lettera o manipolati)11, l’intreccio riprende ora il suo ruolo guida, e lo scrittore sembra voler subito sottolineare nel romanzo proprio la centralità della trama, il carattere concreto del luogo dell’azione, l’ancoraggio realistico degli attori in scena, di cui il lettore ceco riconosce facilmente il pedigree sociale.
S’incomincia perciò immediatamente con la finzione cronachistica del primo capitolo, in cui vengono elencate le vicende medievali legate alla storia del castello di Kratochvíle, e rapidamente si passa (nell’incipit del capitolo successivo) a definire il punto temporale da cui si dipanerà la storia che ci viene raccontata: il dicembre 1920. È un anno importante: quello in cui s’incominciano a percepire in Boemia i primi esiti della riforma agraria. Perché Kratochvíle non è una proprietà come le altre, bensí uno degli effetti di quella riforma avviata in Cecoslovacchia l’anno precedente, acciarino di beghe politiche, intrallazzi e corruzione12. Kratochvíle è una di quelle proprietà terriere risultanti dalla parcellizzazione dei grandi latifondi (fino ad allora in genere nelle mani dell’aristocrazia tedesca o ungherese), che vengono confiscati e rivenduti: quella che nel lessico del tempo veniva definita una «proprietà residuale», tagliata sui margini del latifondo. E mentre vengono espletate le lunghe pratiche legali per acquisirla, Josef Stoklasa ne è solo il reggente. Per cui, all’inizio del romanzo il principe Megalrogov irrompe in Kratochvíle proprio nel momento in cui tutt’intorno a Stoklasa proliferano gli intrighi politici di chi cerca di far cadere la tenuta sotto il controllo dei grandi proprietari terrieri (qui rappresentati dal politico Jakub Lhota e dal figlio Jan), emarginando i meno potenti avversari costituiti dai contadini e dai piccoli proprietari (rappresentati dal fosco e troppo ingenuo Charousek e dall’ambiguo avvocato Pustina).
La fine dei vecchi tempi sembra quindi, a prima vista, voler raccontare questa grottesca contrapposizione fra l’aristocratico Megalrogov e gli arricchiti della nuova rampante borghesia, scontro a sua volta replicato nel conflitto tra grandi e piccoli proprietari terrieri (e nella competizione per la mano dell’ambita Michaela, la figlia del reggente). Ma, spostando di qualche grado la nostra attenzione sulle modalità in cui la narrazione procede (vero fulcro, questo, del romanzo), vogliamo piuttosto mettere in evidenza come – attingendo a procedimenti di scrittura cinematografica, negando la linea sperimentale allora dominante (James Joyce, André Gide, eventualmente André Breton) e tornando piuttosto ai narratori inglesi del Settecento, ma soprattutto influenzato (forse tra i primi in Occidente) dalla lettura della Teoria della prosa di Viktor Šklovskij, uscita in ceco giusto l’anno precedente13 – l’intento di Vančura, pur al di là di tutto quel dispiegamento di realismo (che trasforma il laboratorio di Kratochvíle nel microcosmo polit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La fine dei vecchi tempi ovvero La vita e le opinioni di Bernard Spera, bibliotecario
  4. La fine dei vecchi tempi
  5. Nota del Curatore.
  6. Prefazione di Bernard Spera
  7. Una pagina di storia
  8. I preparativi per la battuta di caccia invernale
  9. Kratochvíle nel pieno del suo splendore
  10. Il Větrník
  11. La comitiva nella residenza di caccia
  12. Il principe Aleksej
  13. Il pollo arrosto
  14. L’avvocato e il mio padrone
  15. Accadimenti notturni
  16. Narrazione di un Natale russo sul campo di battaglia
  17. La follia degli amanti
  18. Lo scambio
  19. La partita a carte
  20. Susanne
  21. L’ora di scherma
  22. Lo schiaffo
  23. La monomachia
  24. I preparativi per il viaggio
  25. La fuga
  26. Epilogo
  27. Note al testo
  28. Il libro
  29. L’autore
  30. Copyright