Gli Altaj erano un grande popolo, laborioso e intelligente. I loro insediamenti occupavano tutta la Siberia, dalle montagne eterne fino all’oceano ghiacciato. I loro cavalli e le loro pecore pascolavano nelle steppe del sud, le mandrie di renne percorrevano sotto il loro controllo la foresta e le praterie del nord. Nessuno era cosà abile nella caccia e nella pesca come gli Altaj: con le loro trappole, posizionate nei punti strategici dei boschi, catturavano molti animali dalla pelliccia pregiata, ermellini o visoni da cui ricavavano vestiti belli e, soprattutto, caldi.
Non obbedivano a nessun monarca e non avevano schiavi o padroni. Tutti erano uguali, i frutti del lavoro venivano distribuiti equamente, le decisioni si prendevano insieme. Alcune famiglie, quelle che riuscivano a ricordare almeno venti generazioni di antenati, erano tuttavia considerate piú autorevoli delle altre. Si facevano chiamare gabajlyu, che significa «i piú vecchi», e intorno a loro si coagulavano i clan, cioè i gruppi di tante famiglie riunite, che si chiamavano per l’appunto raas-bajdy, ovvero «uniti insieme».
I capi delle famiglie piú importanti erano considerati alla pari dei re e i loro figli come principi, nonostante il loro potere fosse soprattutto simbolico, legato allo svolgimento di alcuni rituali tradizionali.
I soli a essere davvero superiori agli altri erano gli sciamani. Ogni clan, infatti, condivideva parte dei propri guadagni con il suo sciamano di riferimento, che cosà si manteneva senza dover lavorare. Potevano diventare sciamani soltanto gli uomini, alle donne l’arte della magia era proibita. Di solito il maestro piú anziano sceglieva fra tutti un bambino che aveva il dono di guardare dentro le cose e lo prendeva a vivere con sé, svelandogli nel tempo tutti i segreti dello sciamanesimo. Malgrado gli aiuti della comunità , la vita degli sciamani non era facile: poiché non potevano vivere nei villaggi con gli altri, trascorrevano in solitudine la maggior parte dell’esistenza; oltretutto non potevano neanche sposarsi, avere una famiglia o portare avanti relazioni durature con chiunque. Gli sciamani si dedicavano quasi esclusivamente al mondo degli spiriti, e trascorrevano piú tempo a viaggiare in altre dimensioni che in questa dove viviamo.
I vecchi raccontano che gli sciamani degli Altaj erano in grado di riportare qualcuno in vita anche a diverse ore dalla morte, convincendo gli spiriti del mondo di sopra o del mondo di sotto a rinunciare a quell’anima ancora per un po’. Sapevano comunicare con tutte le creature incorporee che abitano nella Taiga, all’occorrenza erano in grado di trasformarsi in animali, potevano diventare invisibili e i piú forti riuscivano a fermare anche il corso del tempo, dormendo per anni e risvegliandosi ancora giovani, mentre i loro coetanei erano ormai vecchi. Ma ciò per cui soprattutto ricordiamo questi sciamani è l’accordo tra gli uomini e le creature chiamate Aityur.
Prima di creare l’uomo come lo conosciamo, la Grande Madre aveva plasmato delle creature dalle sembianze umane e allo stesso tempo animali, in grado di passare a loro piacimento dall’una all’altra natura. Questi esseri furono chiamati Aityur, «i diversi», e per molti secoli vissero nascosti, nel timore che gli uomini potessero ucciderli come animali nelle loro battute di caccia. Con la mediazione degli sciamani, però, venne incoraggiato il primo dialogo tra i due popoli: gli Aityur conoscevano molti segreti della natura e li avrebbero condivisi con gli uomini, che a loro volta s’impegnavano a non invadere mai gli spazi dei loro vicini. Per qualche periodo tutto funzionò secondo i principî dell’armonia e del rispetto, finché un giorno non accadde l’imprevedibile.
In un villaggio degli Altaj vicino alla Grande Montagna abitava una famiglia autorevole, gli Utan-Kosym, «quelli che abbracciano le montagne». Intorno a loro si era formato un clan numeroso: si occupavano dell’allevamento delle pecore e dei cavalli da trasporto che pascolavano nelle praterie ai piedi delle alture. Nella famiglia principale c’erano tredici eredi, dodici maschi e una sola femmina, conosciuta in tutta la Siberia per la sua bellezza. Aveva la pelle cosà bianca e luminosa che tutti la paragonavano allo splendore della luna nel cielo notturno: non a caso si chiamava Aibala, che nell’antica lingua significa proprio «candida come la luna».
Gli Altaj erano convinti che la longevità e il futuro di una stirpe dipendessero esclusivamente dalle donne, visto che erano loro a portare i figli in grembo, a metterli al mondo e a occuparsi della loro educazione. È per questo che tutta la famiglia custodiva Aibala come il piú prezioso dei beni.
Dopo aver passato tutto il giorno a lavorare, poco prima che arrivasse la sera, Aibala montava sul suo cavallo e galoppava fino ai piedi della Grande Montagna, dalla quale amava osservare il sole nascondersi dietro le rocce. A quell’ora la luce si faceva piú densa, le ombre si allungavano e la neve sulla cima dei monti si tingeva di un rosso simile al sangue. I rumori del giorno svanivano, la quiete si posava sulla Terra, all’improvviso era possibile ascoltare lo scorrere dell’acqua nei ruscelli là in alto, tra le rocce.
Aibala passeggiava nei valloni tra le gole e raccoglieva i fiori azzurri che crescono sui bordi degli strapiombi. Prima di andare a dormire li appoggiava ai piedi del letto: il loro profumo dolce si spargeva per la stanza e riempiva i suoi sogni.
Una sera, al tramonto, Aibala camminava come al solito in una radura di montagna. All’improvviso vide un fiore che sporgeva da una roccia poco distante, sospesa sul grande vuoto. Senza preoccuparsi dei rischi che poteva correre, si allungò per coglierlo, ma perse l’equilibrio. Proprio mentre stava per cadere nel burrone, con la coda dell’occhio vide un leopardo delle nevi balzare verso di lei e trasformarsi in volo in un bellissimo giovane avvolto da una folta pelliccia. Lo sconosciuto riuscà ad afferrarla appena in tempo, strappandola alla morte.
«Chi sei?» gli chiese Aibala, non appena le tornò la voce.
«Mi chiamo Irbis, sono il principe dei leopardi delle nevi e abito nelle montagne con il mio popolo».
«Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi salvata. La mia famiglia premierà la tua bontà e il tuo coraggio con molti doni».
«Il mio dono è già qui accanto a me».
A quelle parole la pelle di luna di Aibala si tinse di rosa.
«Perdonami, se ti ho offeso. Ti osservo passeggiare da molto tempo, ogni sera ti seguo da lontano sperando di trovare il coraggio di farmi avanti, ma la sola idea di presentarmi… È strano, sai, non ho mai avuto paura di niente se non di te. Quando ti ho vista scivolare mi sono buttato nel vuoto senza pensarci, se tu fossi caduta io…» Irbis era travolto da un sentimento sconosciuto che non sapeva controllare.
«…Tu mi hai salvata. Non mi avresti mai lasciata cadere». Per la prima volta, anche lei sentiva nel cuore un battito diverso dal solito.
«Promettimi che da oggi in poi, quando verrai a passeggiare in montagna, ti potrò accompagnare lungo le strade rocciose».
«Lo prometto». Irbis, che dentro di sé aveva un’anima felina, dovette trattenersi dal fare una di quelle capriole che fanno i gatti quando sono pieni d’allegria.
Quando i due ragazzi si salutarono, per la prima volta capirono cosa fosse la nostalgia: una piccola, dolcissima sofferenza. Irbis si trasformò di nuovo in leopardo delle nevi, balzò su uno sperone e guardò Aibala scendere dalle montagne e prendere la via di casa.
Da quella sera e per tutti i giorni che seguirono, al calare del sole Aibala cavalcava verso Irbis. Camminavano insieme lungo i sentieri, parlavano della bellezza della terra e del cielo, dei colori delle stagioni, dell’acqua limpida dei ruscelli e del destino, che spesso fa incontrare gli sconosciuti e li trasforma in una cosa sola. Si amavano con un’innocenza ancora bambina, con quella timidezza ingenua che i piú fortunati riescono a coltivare per tutta la vita.
Il loro amore gli sembrava grande quanto il mondo stesso, ampio e arioso come i paesaggi incontaminati che ogni giorno facevano da fondale alle loro parole. Travolti da questi sentimenti cosà alti, ignoravano totalmente la diversità delle loro nature e le possibili conseguenze di quell’amore.
Il tempo passava e loro continuavano a sognare un futuro insieme nelle montagne.
Ma al villaggio la vita del clan andava avanti come se nulla fosse. Presto iniziarono ad arrivare le prime proposte di matrimonio per Aibala: da ogni angolo della Siberia giungevano i messaggeri delle famiglie piú illustri, che portavano ai genitori della ragazza doni ricchissimi. Tradizione voleva che fosse la futura sposa a scegliere il marito tra i pretendenti, selezionati prima dai genitori. Allora, per non offendere i suoi giovani corteggiatori e i clan a cui appartenevano, Aibala decise di confessare alla madre di essere già innamorata di Irbis, il principe dei leopardi delle nevi.
Ma non era un caso se la madre di Aibala si chiamava Kara, che nell’antica lingua Altaj significava «forte, decisa», un nome che aderiva perfettamente alla sua indole autoritaria e astuta: la donna ascoltò il racconto della figlia fingendo compassione, facendole credere di capirla e di condividere la sua scelta.
«Se siete innamorati non si può fare altro, a me basta che siate felici insieme, – disse. – Ma adesso, visto che a raccontarmi del tuo principe ti sei agitata, beviti questa e rilassati». Kara offrà alla figlia una ciotola colma di tisana, nella quale aveva aggiunto di nascosto un potente sonnifero. La ragazza, che non era sospettosa di natura e amava la madre, bevve.
«Quindi ogni sera al calar del sole vai a incontrare il tuo leopardo delle nevi?»
«Sà madre, ogni sera, a cavallo… In montagna». Il sonnifero iniziava a fare effetto, Aibala aveva la bocca impastata e stava per essere sopraffatta dal sonno.
«Benissimo. Vorrà dire che oggi andrò io al posto tuo, cosà metterò fine a questa storia vergognosa».
Aibala non poté vedere la luce della cattiveria sul volto di sua madre: il sonnifero era cosà forte che non riuscà nemmeno a sentire quelle ultime, terribili parole.
Il piano di Kara era semplice. Ordinò ai figli maschi di sellare il cavallo di Aibala e si vestà come lei. Nascose un pugnale nella cintura e si coprà la faccia con il velo che indossavano le donne per ripararsi dalla polvere durante le cavalcate.
All’ora del tramonto era già arrivata ai piedi della Grande Montagna. Là trovò Irbis, che aspettava Aibala e non poteva sospettare di nulla. Il principe corse verso quella che pensava fosse la sua amata, era felice, fece per abbracciarla. Proprio in quel momento, Kara tirò fuori il pugnale dalla cintura e lo colpà dritto al cuore. Irbis cadde ai suoi piedi, e morendo si trasformò per l’ultima volta in un leopardo delle nevi: Kara portò a casa il cadavere e ordinò ai figli, nottetempo, di farne una pelliccia.
Il mattino seguente, quando Aibala si svegliò, trovò la madre in piedi, nella sua stanza. «Come hai osato, ragazzina, portare tanta vergogna nella nostra famiglia?»
Aibala, che era all’oscuro di tutto, non riusciva a capire cosa stesse succedendo. I suoi ricordi del giorno prima erano confusi, lattiginosi. Le sembrava che la madre avesse accettato di buon grado la sua scelta, poi improvvisamente era calato il buio. Ora invece era là davanti a lei, piena di rabbia, un fuoco nero negli occhi. «Mocciosa arrogante e insolente, non pensavi a dove ti avrebbe portato unirti a quel mostro? Che figli avresti dato alla tua famiglia? Credevi davvero che avrei accettato di avere degli animali come nipoti?» Piena di livore, Kara lanciò addosso alla figlia la pelliccia che i suoi fratelli avevano appena scuoiato dal corpo di Irbis. Fu a quel punto che la ragazza, inorridita, capà ogni cosa. La madre uscà senza dire una parola e la fece rinchiudere in camera, sorvegliata dai fratelli, abbracciata a tutto ciò che le restava del suo unico amore.
Per sette giorni e sette notti Aibala pianse ogni sua lacrima sulla pelliccia del principe dei leopardi. Nei pochi istanti di lucidità , ripercorreva i loro momenti insieme, l’uno al fianco dell’altra, le loro passeggiate e le loro promesse. Dalla memoria emergevano pian piano tutti i sogni spezzati di una vita dedicata all’amore. Un mondo calpestato e distrutto per sempre.
Poi alla disperazione subentrò una sorta di feroce risolutezza: sua madre aveva ucciso Irbis perché apparteneva al popolo degli Aityur, ma lei avrebbe fatto di tutto per rimettere le cose a posto.
Alla fine della settima notte riuscà a ingannare uno dei fratelli che la sorvegliava e fuggà di casa. Aveva sentito che esistevano degli sciamani cosà potenti che erano in grado, con un complesso rituale, di restituire alla vita una creatura morta, bastava che gli si consegnassero le sue spoglie. Per questo portò con sé la pelliccia di Irbis, sperando che fosse sufficiente.
Da qualche parte, lontano da lÃ, nella foresta, in mezzo alle paludi profonde, dove dalla terra fuoriesce il respiro dei demoni del mondo di sotto che uccide ogni creatura viva, dove non volano nemmeno gli uccelli, dove gli spiriti e i fantasmi camminano vicino ai vivi, abitavano gli sciamani. Quella era la direzione di Aibala.
Attraversò le Grandi Montagne e camminò per la steppa infinita. Durante il viaggio veniva ospitata dagli abitanti di quei luoghi, li aiutava nel lavoro e in cambio otteneva un po’ di cibo e un letto. Ogni notte di quel lungo inverno, prima di prendere sonno, stringeva la pelliccia e piangeva in silenzio.
Aibala raggiunse la foresta proprio quando la Taiga stava indossando il suo vestito primaverile: nella natura non esiste spettacolo piú bello. Gli alberi si ricoprono di verde, vicino alle radici spuntano erba e muschio, di giorno e di notte si sente allegro il canto degli uccelli. Il cielo si apre all’improvviso, vuoto e azzurro, un oceano sospeso sopra la terra. La luce del sole accarezza ogni creatura, persino i vecchi sassi sulle rive dei fiumi appaiono piú vividi. La neve ghiacciata si scioglie formando ruscelli che corrono squillanti tra gli alberi fino a sgorgare nel fiume piú vicino. Gli animali, provati dai tanti mesi di freddo, vagano liberi in cerca di cibo, scavano la terra, rovistano fra i tronchi caduti durante l’inverno. I predatori affamati riprendono confidenza con i loro territori, annusano l’aria, fiutano le tracce delle prede. Il vento leggero che avvolge tutto questo, gli alberi, l’erba, i ruscelli, i fiumi e gli animali, sembra instillare nella Taiga un nuovo soffio di vita, e chi si trovasse ad assistere allo spettacolo avrebbe l’impressione di sentire la foresta respirare.
Aibala non aveva mai visto la Taiga prima di allora. Rimase impressionata da tanta maestosità , e finà per perdersi. Troppo giovane per comprendere quanti pericoli attendevano una ragazza indifesa come lei nelle profondità di quel mondo selvatico, si orientava soltanto con il suo cuore, convinta che sarebbe bastato il suo amore per Irbis a condurla dove abitavano gli sciamani. Nessuno può sapere cosa sarebbe successo a qualsiasi altra creatura al suo posto, ma Aibala portava con sé la pelliccia del principe dei leopardi: tutti, animali e spiriti della foresta, sentivano la forza del suo legame con Irbis e la lasciavano passare in segno di rispetto.
Finché, mentre calava il sole, capitò in un villaggio di cacciatori che la accolsero e la ospitarono per la notte. Dopo cena, quando tutti si preparavano al sonno, un giovane ragazzo della foresta che non era mai uscito dalla Taiga e non aveva mai visto un leopardo delle nevi si accorse che Aibala stringeva a sé una pelliccia bellissima di un animale sconosciut...