Lettera di dimissioni
eBook - ePub

Lettera di dimissioni

  1. 200 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Lettera di dimissioni

Informazioni su questo libro

Da dove si comincia a raccontare la propria storia? Un inizio Clelia lo ha trovato lontanissimo nel tempo, è il 1914 e la nonna Franca arriva a Napoli dalla Russia, e lí resta. Da quel punto sull'asse del tempo Clelia dispiega una dopo l'altra le fortune e le sfortune della famiglia che conosce e di quella che non c'è piú, cercando nelle foto e nei racconti tramandati una verità da far combaciare alla vita di oggi. Oggi, Clelia è una donna che si nutre del successo e della stima di chi, fino a qualche tempo fa, lei stessa disprezzava, e che pare essersi assuefatta «al male minore». Se ne accorge all'improvviso, e quasi non ci crede. Dov'è finita la passione che la faceva innamorare di tutto, dov'è finito l'amore per Gianni?
È solo raccontando - a se stessa, prima di tutto - il proprio passato, che Clelia potrà trovare il punto in cui qualcosa si è rotto, comprendere che «le cose non si compiono all'improvviso, ma all'improvviso le vedi nel loro intero». *** «Con quella lingua che sa di mare e di Napoli e di Ortese, che punge come una medusa, taglia come l'eco di un'invettiva di Pasolini e poi torna morbida di parole domestiche, di madre e di cucina, Parrella racconta la storia di Clelia: che è la sua e quella di tutti, è la storia dell'Italia com'è diventata, è il ritratto politico e morale di un Paese che non si può smettere di amare ma dal quale ci si deve difendere. È il romanzo del tempo di mezzo, questo. Il libro che racconta dove non potevamo piú stare quando non sapevamo ancora dove andare». Concita De Gregorio, «la Repubblica»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806215682
eBook ISBN
9788858431795

Terza parte

Quindici

La guerra era iniziata alla fine della prima Repubblica, lí dove pareva che le monete dell’Hotel Raphaël come grandine, come pioggia, avessero cominciato a lavare tutto. Invece essa silente e sotterranea era iniziata, aveva usato cunicoli già scavati e ne scavava di nuovi, per poi rendersi manifesta direttamente negli animi. Non era stato necessario spargere gas, o iniettare veleni, e non era neppure cosí necessario sparare e incarcerare, come nelle dittature del brivido. Qui non era reale, il dolore: era etereo, per questo pareva un racconto di fantascienza piuttosto che una pagina di storia.
La psicologia, dopo aver guarito, era stata scienza dei pubblicitari, degli addestratori al marketing, degli sparring partner per improvvisati amministratori, dei ghost-writer per insegnanti di aerobica finite a far le ministre dello Stato. Ma senza altezza, senza che Mefisto c’entrasse nulla. Perché Mefisto è l’alter ego di Dio, mentre qui, del Faust, vi erano solo improbabili spiriti goffi facili da prendere al sacco e rutilanti su biciclette a una sola ruota.
Del diavolo, solo fraudolenza.
C’era un racconto, su «alter alter», che mio padre leggeva a me e Alessandro: diceva di un dittatore che pensava di comandare il mondo, invece il suo uomo di fiducia riusciva a ipnotizzarlo per imporgli le sue decisioni, ma anche quest’ultimo era diretto dal maggiordomo, il quale a sua volta dal portiere, il quale dal fruttivendolo e cosí via, fino a scoprire che il piú povero del mondo, mediante l’ipnosi, era il padrone del mondo. Noi, anche mia madre, quando lui ci leggeva questa storia, restavamo immobili impietriti, e poi ci scioglievamo solo pensando che non era possibile, e glielo chiedevamo, a mamma e papà, andandocene, che non era vero, vero? E loro ci rassicuravano. Mamma del tutto: diceva due cose, la prima è che era un racconto di fantasia, e dopo, scavando e scoprendo come fanno le madri, le talpe dell’animo, aggiungeva: «E poi non sarebbe possibile perché l’ipnosi è un procedimento complesso, dopo che sei stato ipnotizzato magari non ti ricordi quello che è successo, ma di esserci stato sí. Quindi con l’ipnosi non si può controllare proprio niente».
E siccome lei era zoologa e ipnotizzava le tartarughe, noi ci facevamo i conti tra tutto quello che separa un rettile da un essere umano, e ce ne andavamo alquanto rasserenati. Invece mio padre diceva una cosa assurda, diceva: «E tanto pure se fosse vero a voi cosa cambierebbe? Se a decidere la guerra o quanto costa la roba nel supermercato o se bisogna pagare il ticket o se devono esistere le frontiere, se lo decide il piú povero o il piú ricco della terra, a voi cosa cambia?»
«Claudiooo…!» lo zittiva mia madre dalla cucina, e noi ce ne andavamo tormentati, lungo il corridoio infinito, razionalmente placati ma con un enorme terrore dentro il petto, che io mi spiegavo cosí: posso accettare di essere comandata ma devo sapere da chi, devo poterlo riconoscere, eleggere, dargli colpa o merito. Voglio sapere chi è, se non lo so mi fa paura.
E mio padre come un gatto ci faceva un ultimo agguato sperando che la moglie non lo sentisse, lí, proprio dove il corridoio svoltava nelle nostre camere da letto: «Ma se sarete voi a decidere le cose: questo cambia, sí».
Non avevamo deciso niente.
Quando ero piccola, certe vecchie degli antichi portoni di Pompei si vedevano in inverno, attorno al braciere, e puzzavano assai di cenere e cianciando di qualunque cosa – con quelle mani raggrinzite dal dolore della vita in sé, piú che dalla sua manifestazione immanente, che è la vecchiezza – aspettavano che gli ultimi rossori della cenere sparissero. Senza speranza ci parevano a noi bambine, nelle nostre piccole commissioni a chiedere uova fresche di gallinella o mandarini di alberi non trattati, senza speranza ci parevano quelle mura spesse a cielo aperto, che erano ginecei e piazze private, in bianco di capelli e nero di vesti: dalle sedie di legno impagliate si alzava una, o un’altra, andavano a provvederci di ciò che le nostre madri avevano richiesto.
Altre ci si affaccendavano intorno, ringalluzzite dalla fanciullezza e attratte e terrorizzate, che a noi pareva un sabba casalingo, piccole streghe di paese dai volti noti e dai nomi chiari, che conoscevano noi e le nostre madri, i nostri compagni di classe e i loro nonni. E un gran da fare si davano, sollevandoci i ricci, o le code di cavallo, toccando la stoffa stampata dei cappotti, lagnandosi che portassimo le gonne corte e senza calze di lana, e anzi a tirare un poco per farle diventare piú lunghe, poi ci chiedevano gracchiando se fossimo fidanzate e con chi. E qualcuna di noi lo era, con un compagnello delle medie che le aveva regalato un piccolo anello uscito a Pasqua da un uovo, o una lettera con le parole giuste dettate dalla madre. Allora dicevamo i cognomi e le famiglie e c’era sempre una di queste vecchie a chiosare che: «Noooo non fa per te».
E un’altra invece la correggeva: «Perché, che tiene quel giovane?»
«Non c’ha un’arte né una parte, non c’ha i natali non appartiene a nessuno».
«Eh ma io lo conosco è un bravo giovane, non ruba, non gioca».
«E che significa che non ruba? Per fidanzarsi con una di queste belle figliole devono avere voglia di lavorare, andare bene a scuola, avere giudizio nelle cose, un futuro gli devono dare. Non ruba, non gioca, e mica sono medaglie. Poi bisogna metterci qualcosa di volontà vicino».
E allora l’ultima chiudeva sempre: «Nel paese dei delinquenti l’assassino è re e i ladri di polli sono gente per bene».
Ugualmente noi si viveva cosí.
Tornare a Napoli mi permise di vedere di nuovo Gianni, di vedere come le febbri passano lasciando solo una spossatezza che poi diventa di nuovo corpo sano e si è pronti a ricominciare. Non ci amavamo piú, lui aspettava un bambino con la sua compagna, cosí aveva dovuto chiedere il divorzio in fretta dalla nostra protetta di cui avevamo perduto le notizie in una qualunque delle strade del mondo. Si chiamava divorzio in contumacia. Gianni si era impiegato senza gioia come consulente legale in una compagnia d’assicurazioni appena aveva saputo della gravidanza, e si erano spostati in periferia per pagare meno soldi di pigione.
Il luogo dove vivevano aveva un nome bellissimo, Pianura si chiamava quel quartiere, e si raggiungeva facilmente dal centro con la ferrovia Cumana, quattro fermate e si arrivava. Era ancora Comune di Napoli, ma aveva questo nome che faceva pensare a praterie sconfinate e fughe di cavalli al tramonto. Lí le case erano brutte, tutta edilizia residenziale e moderna, senza infrastrutture, ma costavano meno e si poteva avere una parvenza di dignità in affitto. Poi c’era la stanzetta da preparare, pareti da dipingere di rosa, perché sarebbe arrivata femmina. Cosí Gianni pendolava tutti i giorni tra Pianura e Posillipo, dove lo aspettavano pratiche automobilistiche e sinistri, vangate di sinistri strani.
– A Napoli non si capisce mai dove finisce l’avvocato e dove comincia il cliente, – diceva, contento di non occuparsi di penale. Forse contento di tenersi al margine, finalmente, perché piú distante sei dall’occhio del buco nero, meno risenti della sua forza, meno ne sei consustanziale.
La sua compagna era una latinista, si occupava di Seneca e amava la Fedra in particolare, ma dopo il dottorato aveva perduto ogni stipendio e ogni altra possibilità di continuare la ricerca, cosí si era ripiegata sulla pancia. Gianni aveva provato ancora un poco con il diritto del lavoro, che era la materia che piú gli stava a cuore, ma poi aveva smesso perché a difendere i diseredati non riusciva a comprare la culla. Si poteva solo scegliere tra le due corna di un bue infuriato.
Quando ci rivedemmo sembrava uguale, perché era nato gentile e nessuno e nulla l’avrebbero mai mutato. Però si era inasprito dentro, lo compresi dalla frase che mi disse congedandosi. Perché lui era sempre stato per le battaglie parlamentari, non quelle armate, e aveva sofferto di come avessero precarizzato la fatica, avvilendo il popolo, e dunque sparpagliandolo perché non recuperasse mai la forza. E le vendette non avevano disinnescato il processo perché la vendetta arriva sempre dopo, per sua natura. Però correndo a prendere la Cumana mi salutò:
– Ma noi veramente abbiamo pensato che si poteva fare con le leggi? Con i fucili si doveva fare.

Sedici

Quando risalii la Sanità per prendere possesso del nuovo teatro, la città mi venne addosso con boati di motorette a precipizio dal Moiariello, angoli armati per lo spaccio, bufere dalle finestre dei bassi, turisti giapponesi in fila indiana lungo il cimitero delle Fontanelle. Strade che un tempo finivano in scale, ora sbranate e riaperte, strade un tempo illuminate da lampioni di ferro battuto, ora chiuse da divani e magnolie, velocità nei passi, scatti bruschi nelle azioni, e un occhio gigantesco a seguirmi: l’occhio del quartiere che mi vedeva arrivare e voleva sapermi prima di tutto a tutti i costi. Il teatro aveva una sola sala agibile, e un costante rosso.
– Ogni volta che apriamo la saracinesca paghiamo settecento euro di interessi alle banche, – mi disse il proprietario mostrandomi gli spazi, presentandomi agli interni, che risultavano tutti soci di un’associazione e nessuno dipendente. Avevamo cosí tanti debiti che l’ufficiale giudiziario veniva a pignorarci ogni settimana, noi indicavamo come pignorabile sempre una cosa: la cinepresa, perché era stata piombata con la fiamma ossidrica a terra ed era impossibile portarsela via. Poi facevamo sparire qualunque altro materiale dalla cabina di regia e dal palcoscenico. Avevamo i ragazzini del quartiere che ci davano l’allarme, in cambio noi li lasciavamo giocare a pallone nello spiazzo, gli comprammo pure una porta vera con la rete. Una sola, perché dall’altra parte c’era una grande pendenza, e comunque era di pertinenza di un parcheggiatore alquanto aggressivo. Però i bambini ci furono utili, e ugualmente un impiegato del Comune, amante di Pirandello, che ci faceva avvisare almeno ventiquattr’ore prima. In realtà avevamo anche una seconda sala, piú piccola e in basso, con delle gradinate molto ripide, che poteva ospitare una sessantina di spettatori scomodi. Ma non aveva le uscite di sicurezza, e manco l’impianto a norma, e mentre le norme aumentavano e si proporzionavano all’Europa noi restavamo sempre piú indietro. L’unica programmazione che riuscii ad affidare a quella sala furono i martedí anarchici, cioè decisi di lasciarla alle compagnie che avessero voluto: un giorno di prove, il giorno dopo in scena, lo sbigliettamento era paga da dividere. Ma il teatro intanto affogava, anche se riuscimmo a mettere su due spettacoli a costo niente, un Viviani e un’opera originale di improvvisazioni fatta con le donne del quartiere, che andarono benino e presero pure una parte di critici, quella parte che aveva bisogno di noi per essere credibile quando poi parlava bene degli allestimenti costosissimi e nulla nuovi degli stabili. Insomma qualcosa pure si muoveva, e la svolta economica fu affittare la sala grande a una compagnia di danza che faceva continuamente corsi, lezioni e laboratori, e alla fine debuttava con costosissimi saggi pieni di ragazzine senza talento e mamme dal portafogli facile. Questo non ci salvò però dall’ultimo pignoramento, quando l’impiegato comunale ci avvisò che avrebbero preso le poltrone e io dovetti chiamare in gran fretta zio Raffaele e Gianni e chiunque conoscessi ancora in città, e, armati di chiavi inglesi e avvitatori, smontammo trecento poltroncine tra la sala e la galleria e le nascondemmo giú, nella sala piccola, che non era manco accatastata.
Fu quello, il teatro vuoto, sradicato e nudo, la scenografia dello spettacolo di Marina e Alessandra che lavoravano caparbie da mesi con le donne del quartiere. Si produsse con millecinquecento euro. Le donne erano vestite di nero e iniziavano col pubblico già in sala a stendere teli di plastica trasparente dalla galleria, come fossero stati panni da far asciugare. Mischiavano allo stropiccio della plastica quello delle loro voci, allungate in urli antichi, pianti di donne di pescatori e marinai. Con uno di questi teli una donna tentava di impiccarsi, ma veniva salvata. Poi scendevano sul palcoscenico e il palcoscenico diventava uno scoglio, una banchina che guardava verso di noi che stavamo in piedi, che forse eravamo mare, o spettatori silenti, o superficie.
Dal mare sbucavano donne, come se avessero tentato il suicidio in acqua e venissero poi tratte in salvo, lo volessero o no. E una lunga fatica era stare sullo scoglio del palcoscenico, ché si dovevano riposare guardando verso la superficie. E si chiedevano cosa fosse quel mare, se una morte lenta o il primordio di una nuova vita, e ci coprivano poi, con quel telo, passandocelo a tutti sulle teste, che inevitabilmente alzavamo le mani per lasciarlo scorrere. E le nostre dita diventavano spruzzi e gocce, e onde.
Però intanto era successa questa cosa: mi andavo accred...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lettera di dimissioni
  4. Prima parte
  5. Seconda parte
  6. Terza parte
  7. Epilogo
  8. Ringraziamenti, riferimenti, e una precisazione
  9. Il libro
  10. L’autrice
  11. Della stessa autrice
  12. Copyright