Il centro abitato sembrava essere cresciuto durante la sua assenza. C’era qualche abitazione moderna che Pietro non riconosceva. C’era un accenno di urbanità , come se si cercasse di nascondere tra le pieghe del proprio passato l’ossessione di essere qualcosa che non si era. Quando giunse all’altezza di casa Mannoni trattenne il respiro. Il cielo si era fatto lattiginoso e, forse, di là a poco sarebbe nevicato. Le cornacchie strappavano l’aria e i passeri razzolavano rasoterra come minuscole galline, per scovare le poche sementi infilate tra le pietre del selciato.
Il dio dei racconti, quello che sa ogni cosa prima che diventi voce o avvenga sul foglio, avrebbe potuto dichiarare il perché e il percome. Avrebbe potuto cioè rendere inutile qualunque resoconto e, di conseguenza, se stesso. Da tempi immemorabili gli dèi omettono i particolari salienti per difendere il proprio significato. Spargendo solo briciole di senso. Sicché agli umani, auditori, lettori, non resta che raccoglierle come quei passeri.
Pietro e Paolo nel gelo infinito, inenarrabile della chiesetta, senza una lacrima, piansero la vita talmente fugace di Lucia da poter sospettare che fosse senza senso. Da poter sospettare che Lucia non fosse mai esistita. E forse fu proprio per quello, per darle un significato a dispetto di tutto, che sentirono di doverla piangere in silenzio.
Ma ora, fuori da queste riflessioni che non sapeva di poter fare e che però dormivano in lui, davanti alla facciata della chiesetta di San Carlo, assai vicino alla grande casa di Paolo, Pietro rivide quello che erano stati e rivide le circostanze che l’avevano portato là nonostante sapesse di rischiare la vita. Rivide lo sguardo assorto di Paolo mentre ingoiava il giuramento rivolto ai bulbi oculari di vitella che Santa Lucia, l’omonima, esponeva nel piatto. E poi se stesso, quando fu il suo turno di ruminare un voto, o, piú che altro, quella che il prete definiva attestazione solenne. Perché di voto vero e proprio non si era trattato, ma di auspicio sÃ.
Fece i pochi passi che lo separavano dall’ingresso secondario del palazzotto, si guardò intorno: se c’era qualcuno armato ad attenderlo era nascosto bene. Bussò.
Passarono almeno due minuti prima che riconoscesse all’interno il passo determinato di Annica che veniva ad aprirgli. Lei schiuse poco poco l’uscio, nonostante sapesse con certezza chi c’era. E lo vide bellissimo ed elegante, luminoso per l’alba che gli esplodeva alle spalle. Come San Gabriele dell’Addolorata quando si presentò, impeccabile nella sua tonaca, magnifico nella sua giovinezza, alle prostitute per riportarle sulla retta via. Il volto della donna tentò di ricacciare in dentro lo stupore.
Quando Fiona O’Malley entrò nella canonica con indosso gli abiti bianchi che erano stati preparati per lei nello stanzino delle scope, il parroco cadde in ginocchio. Era talmente bella che a stento riusciva a respirare. Era un uomo di quarantatre anni, e in quel luogo e in quei tempi dopo i quarant’anni gli uomini erano considerati ormai avviati verso la parabola discendente. Era asciutto, longilineo, grigio di capelli, e il suo incanutirsi era stato un processo precoce.
Senza alzarsi dalla sua posizione genuflessa chiese alla fanciulla fasciata di raso bianco di avvicinarsi. Lei si avvicinò con timore. Lui allungò la mano per sistemarle un ciuffo ramato sfuggito al velo che una vecchia della parrocchia aveva rifinito con passamaneria dorata e piccole pietre preziose artificiali. Poi, nel togliere la mano, le sfiorò il seno appena sbocciato.
Fiona indietreggiò, lasciando fra loro abbastanza spazio perché lui non potesse raggiungerla allungando il braccio. Lui avanzò in ginocchio come un penitente per ridurre quello spazio dicendo di adorarla, dicendo di amarla, di averla sempre amata. Si chinò per baciarle i piedi, tentò di afferrarle le caviglie. Fiona ancora una volta tentò d’indietreggiare, ma sentà dietro di sé la superficie scolpita dei pesanti mobili in noce dove giacevano, ben riposti, gli abiti talari, le cotte, le stole…
Il prete, sempre in ginocchio, avanzò ancora. Con furia brancolava come un cieco per raggiungere le gambe della ragazza sotto la tunica. Lei, giovane e scattante, scartò di lato e guadagnò l’uscita della sacrestia correndo. Attraversò la navata semplice della pieve alla presenza di statue di santi che non parvero interessati a lei. Ancora pochi passi e fu fuori, nel sagrato che non era niente di piú che uno spiazzo ripulito, ridotto a un piano solido d’argilla dalla tenacia delle perpetue che negli anni l’avevano spazzato con la saggina.
Poco distante iniziava una campagna secca, che preludeva a una piccola foresta di quercioli…
Annica si ricompose nel tempo che le servà per aprire completamente la porta. Pietro s’intrattenne oltre lo specchio in controluce, nonostante lei gli avesse intimato di entrare. Tanto per chiarire che non era piú disposto ad accettare ordini da nessuno.
– Se gli fai ancora del male, ti ammazzo con le mie mani, Pietro Carta! – sibilò la donna.
Pietro la fissò senza muoversi. – Zitta, Annica Sini, zitta: che te l’ho riportato a casa! – tuonò entrando dalla luce al buio.
Uccelli invernali: aquila minore, piú sottile della poiana: grido piú acuto. Calandra, ungallonga, grosso passero dei campi; ghiandaia, mariapica: striatura blu delle ali, corteggiamento a gennaio tra gli alberi; pittima reale arriva in pieno inverno, se la costa è vicina si possono vedere le pittime che si dirigono verso gli stagni; storno nero, isturulu; sparviere, astorittu, si riconosce dalla camicia a righe.
– Sei tu? – chiese Paolo senza alzare il viso dalla pagina del suo quaderno di appunti che stava leggendo.
– Eh, sono io, – rispose Pietro sorpreso dalla precisione con cui quell’ambiente lo riportava a molti anni prima, quando era stato convocato da don Pasqualino.
– Non ti vuoi sedere?
– SÃ, magari dopo.
– Ti trovo bene davvero.
– Non volevo sfigurare, l’ultima volta che sono entrato qua dentro portavo un tuo vecchio paio di scarpe e facevo ancora il bagno nell’acqua che lasciavi tu.
– Oh quello, si capisce.
– Che cosa si capisce, Pa’.
– Davvero non ti vuoi sedere?
– SÃ, sÃ, mi siedo. Tu come stai?
– Sono vivo.
– Lo vedo. Eccomi qui.
– SÃ, eccoti. Non sapevo se saresti venuto.
– Lo sapevi invece.
– SÃ, lo sapevo.
– Che fai? Ti commuovi?
– No macché, sono i farmaci analgesici che prendo. Per i dolori.
– SÃ.
– Tu invece che mi dici?
– Che ti devo dire…
– Perché sei venuto?
– Perché mi hai chiamato tu, lo sai no?
– Certo. Ma sai cosa intendo.
– Eh, fede, credo…
– Fede?
– Una volta tuo padre, che era seduto proprio dove sei seduto tu, mi ha chiesto se avevo fede.
– E tu?
– E io gli ho detto che sÃ, ce l’avevo… Nell’amicizia? Mi ha chiesto lui…
– E tu?
– SÃ, gli ho detto di sÃ.
Nel silenzio che seguÃ, la pendola parve ticchettare spaventosamente.
– Ah, – fece Paolo dopo un tempo infinito. – Anche io credevo nell’amicizia, e nemmeno tanto tempo fa.
– Poi hai smesso di crederci? – chiese Pietro aprendo le falde della sua mantella. I bottoni della giacca luccicarono nella penombra. Nonostante fosse prestissimo le fiamme nel camino erano altissime.
– Ti faccio fare un caffè, siediti, – intimò. Era evidente che non voleva apparire imbarazzato, anche se una segreta vibrazione della voce lo faceva balbettare impercettibilmente.
– No, sto bene cosÃ, – resistette l’altro.
– Ho una storia da raccontarti –. Si era fatto trovare seduto, ma la resistenza di Pietro ora lo spingeva ad alzarsi. CosÃ, afferrandosi ai braccioli della grande sedia padronale, si sollevò a forza di muscoli. – Avevo un amico, – cominciò un po’ ansimante. – Che mi aveva fatto una promessa.
Quel gesto stupà Pietro a tal punto che quasi fu tentato di alzarsi e scappare. Ma stette dove si trovava, stringendo le labbra fino a farle esangui. – Qualche volta le promesse sono impossibili da mantenere, – disse dopo aver ingoiato il suo malessere.
Paolo lo fissò senza replicare. Cominciava a sentirsi stanco per quella posizione, qualche goccia di sudore gli colava sulle tempie. – Eri tu? – chiese all’improvviso.
Nel silenzio di quel mattino, vorticò un giro di pensieri fragorosi. Furono costretti a constatare quanto chiassoso potesse essere il cuore degli uomini, quanto riverberasse e rendesse impossibile qualunque desiderio di pace.
– Eri tu? – ripeté Paolo, questa volta con piú insistenza. Era chiaro che non accettava che quella domanda restasse senza risposta.
Ma Pietro non sapeva decidersi. Prese a martoriarsi il labbro inferiore con gli incisivi. – Mettiti seduto, per favore, – implorò. Per dire che ritornare alla stasi, liberarsi dalla precarietà di quella situazione, forse avrebbe reso palese qualunque risposta e inutile qualunque domanda.
Paolo obbedà senza, tuttavia, che quell’obbedienza sembrasse una resa.
– Ma tu ti ricordi quanto ci voleva per arrivare all’abbeveratoio? – chiese all’improvviso Pietro. – Venendo qua ho avuto l’impressione che fosse a pochi passi, ma avrei detto che era assai piú distante.
– È cosÃ, – ammise Paolo. – Le distanze cambiano, le cose cambiano…
– Tu credi davvero che io abbia voluto abbandonarti? – domandò Pietro, perché quella era l’unica domanda vera che gli interessava fare.
– È per questo che sei venuto? – domandò a sua volta Paolo.
– SÃ, – ammise quell’altro senza nemmeno fingere di doverci pensare. – SÃ, – rafforzò.
– Lo sai cosa accadrà fuori da qui, no?
– Lo so, lo so, – tagliò Pietro. Non gradiva che quella discussione vertesse sul non detto. – C’è qualcuno ad aspettarmi là fuori, – concluse, con la stessa soddisfazione con cui rispondeva quando era preparato. – Essere e avere, verbi servili e ausiliari… – sussurrò.
Il dio delle storie lasciava corda ora ai cani del risentimento ora a quelli della riconoscenza ora a quelli della rivendicazione. Mute chiassose e disordinate che inseguivano quella volpe che è la certezza presunta, quel cinghiale che è ogni conclusione scontata. Quando li avesse liberati dai guinzagli, avrebbe concesso ai suoi personaggi la piena responsabilità delle loro azioni.
Il dio dei racconti soffia sulle braci dei destini e ne gestisce gli esiti.
Paolo alzò entrambe le braccia per significare che lui per primo si era dovuto adeguare a quanto scritto. – Non è stato doloroso, non all’inizio per lo meno. Mi ricordo che tuonava. Mi ricordo una tale spossatezza che persino morire sembrava un sollievo.
Il giorno pieno si era svegliato completamente oltre le finestre. Fuori da quella stanza gli umani combattevano all’arma bianca per la sopravvivenza. Minacciava neve, si diceva. E si diceva che quell’inverno avrebbe permesso di capire senza ambiguità che cos’era la parola freddo. I piú previdenti avevano fatto incetta di legna per i camini; e fatto impagliare la base degli alberi da frutto perché il gelo non ne bruciasse le radici; e messo a dimora le greggi con scorte sufficienti di foraggio; e impastato pile di pane secco; ed essiccato salsicce; e affumicato decine di forme di formaggio; e messo olive in salamoia…
Tutti esercizi di sussistenza.
Ma dentro quella stanza, nel mondo parallelo delle rivendicazioni, proprio nel cuore della legge che governa gli affetti, si giocava una partita tremenda.
– E comunque sono venuto anche per salutarti, – intervenne Pietro.
– SÃ, – concesse Paolo. – È sempre una buona cosa rispettare le convenzioni –. Attese per qualche secondo che l’altro replicasse. – Sei in partenza, dunque? – chiese vedendo che la replica non arrivava.
– Buenos Aires –. Nella voce di Pietro c’era una sicurezza che irritò e divertà Paolo.
– Ah, la pampa, – lo prese un po’ in giro, senza voler sembrare troppo sarcastico. Nonostante tutta l’applicazione e il tempo impiegato a insegnargli le cose, non era mai riuscito a spiegargli che esiste una dose d’incertezza nel sapere, un frammento di dubbio che rende ciò che hai imparato utilmente indefinito. – Quindi sai come andrà a finire, – constatò piú che chiedere.
– So quello che ho chiest...