Sentí la mia voce tra le molte, e vide il mio viso. Fausto era euforico, trasformato. Ci conoscevamo solo da tre anni e non ci eravamo scambiati nemmeno un bacio da bambini. Fausto era un gran signore.
Si presentarono a tarda sera, prima ascoltammo le loro parole nel buio. Il brigadiere De Munari e il carabiniere scelto Bianciardi ci intimavano di aprire il portone, sembrava un film di Totò. C’era anche mio marito, il dottor Enrico Locatelli, che gridava insulti. Povero Fausto, il patròn Goddet lo avrebbe chiamato il colera del ciclismo e sempre per causa mia. In villa quella notte c’era solo la cameriera. Del nostro amore ricordo un piccolo albergo a Castelletto d’Orba e il Grand Hotel di Salice Terme, e quella volta a Loreto, quando la direzione allontanò i pellegrini perché lí alloggiavano Coppi e la Dama Bianca.
La notte tra il 24 e il 25 agosto del 1954 è stata la piú umiliante e la piú bella della mia vita, perché finalmente tutto il mondo sapeva che io e Fausto ci volevamo bene. I carabinieri non ci sorpresero a letto insieme, ma il brigadiere tastò le lenzuola e le scoprí calde. Dovetti accompagnarli in caserma col pretesto del passaporto e con quel trucco mi portarono nel carcere di Alessandria, cella numero 7, quattro brande, quattro sedie di paglia e quattro detenute. Le altre mi trattarono bene, invece all’uscita di galera venni insultata e lo stesso ad Ancona, al domicilio coatto. Per mezza Italia era come se Coppi l’avessi ammazzato, non amato.
Quando gli dissi che aspettavo un bambino era elettrizzato e vinse il Giro di Lombardia. Quel Natale mi regalò un anello di smeraldi, ma lui era cosí discreto e timido che i doni a volte li faceva trovare in un cassetto, oppure nel cruscotto della macchina. Venni denunciata per adulterio e abbandono del tetto coniugale, presero il passaporto anche a Fausto e con quello lui lavorava, pensate a tutte le corse all’estero che fu costretto a saltare, oltre alla vergogna. Quando ero ad Ancona lui alloggiava in un albergo a Portonovo ed era difficilissimo vederci, i poliziotti ci spiavano, ci pedinavano, si scambiavano messaggi cifrati. Piú tardi scoprirono persino che avevamo comperato un soggiorno in mogano a Cantú: ci erano venuti dietro ovunque. Eppure a quel tempo in Italia c’erano diecimila cause di separazione all’anno, però sembrava che ai giudici interessassimo solo io e Fausto.
Mi fecero scrivere una lettera in cui ammettevo la colpa, e dichiaravo di rinunciare ai figli fino alla loro maggiore età. Il ritiro della querela da parte di mio marito costò a Fausto un bel po’ di milioni, senza contare il resto. Anche la moglie lo denunciò. Al processo interrogarono persino le nostre bambine, ricordo la Lolli che piangeva.
Un amico di Fausto, un professore di Firenze che si chiamava Bartolo Paschetta, gli scrisse che il santo padre Pio XII era addolorato e si rifiutava di credere alla notizia. Il papa confida in te, gli disse. Con discrezione intervenne anche l’arcivescovo di Milano, il cardinale Montini, futuro Paolo VI. Si vorrebbe – scrisse – che Fausto Coppi venisse ricondotto in una direzione cristiana. Ed è cosí che per noi si mossero addirittura due pontefici, perché sapevano bene quanto l’opinione pubblica fosse coinvolta in una storia assurda e fuori dal tempo. Le cose sarebbero cambiate anche grazie a tutto quel clamore, perché qualcuno ci difese.
Io ero napoletana e avevo quattro anni meno di Fausto. Quando incontrai il capitano medico Enrico Locatelli ero rifugiata con la mia famiglia nelle Marche, avevo vent’anni e lui una quarantina. Ci sposammo in fretta e poi mi portò al suo paese, Varano Borghi, dove aveva la condotta. Una vita tranquilla, forse troppo, ma non ero Emma Bovary e con i miei figli mi sentivo contenta. Fausto lo vidi la prima volta nell’agosto del 1948 perché mio marito era un suo grande tifoso e mi portò alla Tre Valli Varesine, che naturalmente Coppi vinse. Mi sembrò, devo dirlo, un uomo non bello. Però volevo l’autografo e Fausto prima di firmare mi chiese: alla signorina?... Io risposi: alla signora Giulia Locatelli.
Quando avvenne lo scandalo, Fausto voleva solo essere lasciato in pace ma sapeva che era impossibile. Una volta cadde in allenamento a Certosa, ma prima di essere portato in ospedale si fece accompagnare nello studio dell’avvocato Andreani perché avevano un appuntamento, ed era cosa della massima urgenza. Prima l’avvocato e poi i medici, cosí avevano ridotto quell’uomo. Eppure la gente diceva che era colpa mia. Dicevano che non sopportassi i suoi amici, i suoi gregari, che li avessi separati da lui. Non era vero, però Fausto aveva intorno anche gente non alla sua altezza. Quando ci mettemmo insieme, smise di essere solo.
In Italia il reato di adulterio fu cancellato solo nel 1968 dalla Corte Costituzionale, Fausto era morto da sei anni e nostro figlio continuava a chiamarsi Fausto Locatelli. Alla caserma di Alessandria mi interrogò il maggiore Di Marcelli, i nomi dell’inchiesta non li ho mai dimenticati cosí come non dimentico che quella notte indossavo un vestito bianco da passeggio con piccoli pois neri. Era agosto, faceva caldo. Rimasi in cella per quattro giorni e quattro notti e le compagne mi raccontarono le loro vite. Quando uscii, diedi mille lire a ognuna. Fausto mi aveva messo sotto contratto per zittire le malelingue, ero stata assunta come segretaria con uno stipendio di 30 mila lire al mese, questo dissi ai carabinieri. Mi contestarono anche il possesso di un braccialetto d’oro e un’automobile Millecento Fiat che avevo acquistato da Fausto per 150 mila lire e rivenduto a 750 mila: ogni nostra cosa, agli occhi del mondo doveva essere un reato, specialmente le questioni di soldi. Perché la donna a quel tempo era ancora la creatura del peccato, quella che ruba all’uomo la virtú, le energie, gli anni migliori e naturalmente il denaro. Ma noi sopportavamo tutto, perché ci amavamo di un amore grandissimo.
Ogni domenica mattina alle 10 dovevo firmare il registro ad Ancona, dove alloggiavo presso la signora Dina Caimmi, la moglie di un macchinista delle ferrovie. Avevo ancora dei parenti laggiú, ed è per questo che il tribunale e gli avvocati scelsero quella città. Mi spedirono nelle Marche col foglio di via come una criminale e Fausto affittò un intero albergo sul Conero per la sua squadra, ma era solo una scusa per restarmi vicino.
Al processo c’era anche il corrispondente della «Pravda», il giornale del partito comunista sovietico. I fotografi per fortuna non li fecero entrare: le uniche immagini erano quelle della «Domenica del Corriere», le tavole a colori disegnate da Walter Molino. Un cronista scrisse che Fausto si era presentato in aula come un uomo modesto, fragile, sottomesso ma non era vero, lui era solo indignato e non voleva che i bambini soffrissero. Il suo avvocato alessandrino lo definí un bon òm, vale a dire quasi un fesso. Cercarono di distruggerlo usando me, però noi eravamo piú forti. Ricordo la lettura della sentenza di condanna e il famoso articolo 570 del Codice Penale, quello che parlava di abbandono del tetto coniugale e condotta contraria alla morale e all’ordine della famiglia. E noi di famiglie ne avevamo addirittura due, figurarsi.
Fausto in aula era elegante come sempre, e parlava sottovoce. Ammise tutto, dal momento che non avevamo niente da nascondere. Si asciugava di continuo la fronte col fazzoletto e disse che nei confronti della signora Locatelli, cacciata di casa e sola, aveva obblighi d’onore. Nelle motivazioni della sentenza di condanna, tre mesi di galera e me e due a Fausto, si parlò di abbandono ingiustificato, ingannevole, ingiusto e pure cosí clamorosamente ostentato. La donna viene punita con un mese di detenzione in piú, scrissero i giudici, perché rispetto all’uomo ha anche un secondo figlio di anni tre. Ma io dico che lo fecero perché appunto ero una donna.
Io e Fausto abbiamo avuto sette anni d’amore, troppo pochi, ma io non li cambierei neppure con un secolo di un’altra vita. Sopportammo tutto, sguardi, allusioni, insulti, lettere anonime, sputi in terra. Persino quel cartello dove un tifoso aveva scritto «viva Marina abbasso Faustino» perché Marina era la figlia legittima, Faustino quello della colpa. Ma i bambini sono tutti uguali e noi li abbiamo amati moltissimo.
Dissero di me le piú orribili cose. Scrissero che avevo rovinato Coppi, che ero avida e viziata, addirittura che a casa nostra i domestici spolveravano solo con strofinacci di lino. E quando è morto lo hanno tirato tutti per il sudario, inventando cose false sull’eredità e sul patrimonio e giurando che Fausto era spirato in grazia di Dio dopo la confessione: impossibile, dal momento che a quel punto non riconosceva neppure me.
Il mio primo vero sguardo su di lui si posò in un ospedale: era destino. Al Giro d’Italia del ’50 Fausto cadde e si ruppe l’anca, lo aveva urtato un corridore mezzo orbo che si chiamava Armando Peverelli e non ci vedeva da un occhio, perciò non s’accorse che da quel lato stava arrivando Fausto. Tripla frattura del bacino. Lo portarono all’ospedale di Trento, e mio marito mi disse andiamo a trovarlo. La sera stessa eravamo là. Lo ricordo in mezzo ai cuscini bianchi, aveva la faccia di un bambino ammalato e suscitava una grande tenerezza. Era un uomo mite, gentile e romantico. Quando andai a partorire in Argentina ci spedivamo lettere bellissime. Ma ci eravamo scritti anche dopo l’incidente del ’50, frasi molto controllate e rispettose però è chiaro che qualcosa stava già cominciando. Lui inviava le sue buste al fermoposta.
Quando tornò da quella maledetta Africa aveva male dappertutto, alle gambe specialmente, e vomitava. Arrivò e lo maltrattai perché non volevo andasse laggiú prima di Natale, che c’entrava poi il safari, e quando ritornò seppi di avere avuto ragione.
Mercoledí 29 dicembre ha la barba lunga e gli occhi spenti. Mi ripete solo non va. Il dottor Allegri di Serravalle parla di semplice influenza, ma quando lo vede il professor Astaldi che è primario a Tortona si comincia a non capire cosa stia succedendo. Il professore mi dice di tenere il bambino lontano da suo padre, per precauzione. Ora si nomina la polmonite ma sempre dentro una nebbia, i medici vanno a tentativi e Fausto sta sempre peggio. Gli fanno l’esame delle urine, non quello del sangue: in tutti gli anni a venire mi sarei chiesta perché.
La notte di Capodanno, in villa è rimasta solo una giovane cameriera. Il resto del personale è a festeggiare. Fausto sta un po’ meglio, ascolta la televisione, parla poco ma risponde. C’è da noi anche la sua mamma che all’inizio era contraria alla nostra unione, ma poi prese ad affezionarsi. Conosceva suo figlio piú di tutti e sapeva cosa gli fosse passato nel cuore. Non l’ho mai sentita dire nemmeno una parola cattiva, e con me era gentile. A Faustino voleva un bene dell’anima.
La mattina del primo gennaio respira sempre peggio, ormai è quasi un rantolo. Ha una sete tremenda e io gli metto in bocca il ghiaccio tritato che gli dà sollievo. Lo portano all’ospedale troppo tardi. La macchina delle radiografie è guasta, e comunque per fargli le lastre devono rivoltarlo nel letto e lui urla di dolore.
Fausto non era tipo che non pensasse al futuro: aveva in mente di vendere anche in Francia le biciclette col suo nome. Acquistò per noi Villa Carla, poi la tenuta della Garibalda vicino a Tortona, un terreno a Milano e uno a Torino dove possedeva pure un immobile, e la fabbrica di caramelle Daina. Aveva interessi in un’azienda che produceva lamette da barba e gli fece perdere dieci milioni, e in una camiceria di Desio dove alla fine i milioni bruciati furono una quarantina. In tanti gli proponevano affari e Fausto non sempre dava retta alle persone giuste, o magari non era neanche fortunato. Ma che avesse dilapidato il patrimonio, quella era una stupidaggine. Certo, la separazione gli era costata un centinaio di milioni, la metà in contanti, e poi andò via molto denaro per gli avvocati, per la remissione della querela del dottor Locatelli, per il viaggio in Argentina e il matrimonio in Messico, carta straccia per la legge italiana. Il passaporto glielo restituirono pochi giorni prima della Roubaix del ’55, quando al traguardo fu secondo. Il 13 maggio a Buenos Aires nacque Faustino. Mandammo dall’Argentina una fotografia del bimbo e un telegramma: Papà, aspetto la prima maglia rosa. Mi dissero che Fausto aveva mostrato la foto a Bartali alla partenza di una tappa, e Bartali l’aveva fatta vedere agli altri corridori. Purtroppo in quel Giro il mio Fausto si piazzò solo secondo, ad appena 13” da Magni che non gli era amico. Io e il bambino tornammo in Italia il primo giugno a bordo del piroscafo Giulio Cesare. Era stata una traversata tranquilla e mi sentivo raggiante, perché mi sentivo amata.
Resta il fatto che eravamo due reietti. In un condominio non ci accettarono, cosí Fausto prese la villa sulla strada per Serravalle: a me piaceva molto, con i pergolati, l’abetaia e quel senso di isolamento, un piccolo mondo solo per noi due e per il bambino. Non ci vollero mica in quel condominio, eppure Fausto a quel tempo faceva aspettare persino i re: una volta Baldovino del Belgio era venuto in hotel a Parigi per conoscerlo ma Fausto dormiva, e Sua Maestà dovette attendere che si svegliasse. Perché anche Fausto era un re.
Non è stato facile continuare la vita senza di lui. Avevo il bambino da crescere e terrore che me lo portassero via. Dovevo combattere. Ho cercato di far fruttare gli insegnamenti e, per quanto possibile, i denari di Fausto, però era complicato e in certi momenti sembrava che tutto girasse contro, come quella storia del maglificio che purtroppo in un paio d’anni fallí. Forse anche in questo io e Fausto ci assomigliavamo, non avevamo il pallino degli affari.
Nella tappa dello Stelvio, al Giro del ’53, sentí dunque la mia voce tra le molte e la riconobbe. Al Giro del ’54, l’anno che andammo a vivere insieme, Fausto si prese un bel po’ di fischi. Tanta gente non capiva e giudicava senza conoscere. Lui era orgoglioso e fiero, e andò comunque a vincere la tappa dolomitica che arrivava a Bolzano. Un giorno era l’uomo che aveva tradito la famiglia legittima, il giorno dopo era l’asso che apparteneva a tutti e rappresentava un Paese intero, anche se quel paese non sapeva decidersi. Con me, invece, tutti ebbero meno dubbi: ero la causa di ogni colpa, ero la donna del peccato.
Dopo l’ultimo Natale vuole ancora andare a caccia una volta, però è uno straccio. Poi gli viene la febbre e si mette a letto. Quando chiediamo il consulto al professor Fieschi di Genova è già troppo tardi. Poi mi dissero che in nessun caso Fausto l’avrebbe scampata, neppure se avessero individuato subito la malaria, perché a quel punto il suo corpo era come mangiato dentro. Non so se fosse vero, non credo, dal momento che gli altri li salvarono con l’esame del sangue e del misero chinino. Fausto però si era già preso la malaria in guerra, e il tifo pochi anni prima di morire. Sembrava una roccia ma dentro era di sabbia. Sabbia bianca, pulita.
All’ospedale di Tortona non sanno cosa fare, dicono che ha una broncopolmonite virale, lo riempiono di cortisone e antibiotici. Il suo respiro intermittente mi dice che sta morendo, lo capisco da come cerca l’aria disperatamente. L’ultima notte mandano a chiamare la moglie, alle due e mezzo danno a Fausto l’estrema unzione ma lui è fuori di coscienza e agonizza. Muore alle nove meno un quarto di mattina, e la sua mamma vuole che prima di essere seppellito ritorni nella casa al paese. È il 4 gennaio 1960, sulla collina ci sono novanta corone di fiori. Faustino non lo portiamo, anche Marina non c’è. In chiesa svengo tre volte. La gente accorre tra i campi e sul colle di San Biagio per veder passare Fausto un’ultima volta, sembra una corsa di biciclette.
Mi viziava, mi trattava con enorme gentilezza perché era un signore. Mi adorava. Quando nacque il bambino, il suo papo, ordinò in Inghilterra la stessa carrozzina degli eredi di casa reale. Al mondiale del ’53, sul podio gli passai i fiori e fu evidente a tutti che esistevo, però non lo feci per questo, lo feci perché lo amavo e volevo esserci nel momento piú importante per lui. Quella maglia la inseguiva da sempre, e finalmente era sua.
Avevo cominciato a capire davvero chi fosse quando mi scrisse quelle lettere dopo la frattura al bacino, per ventinove giorni immobile e una lettera al giorno. Erano parole controllate, è vero, ma dentro c’era tutto. Andò in convalescenza a Roncegno, Hotel delle Terme, poi ad Acqui e da noi a Varano, invitato da mio marito. A Milano, una sera andammo a vedere quei fenomeni americani della pallacanestro, gli Harlem Globetrotters, il dottor Locatelli ci raggiunse piú tardi e cosí io e Fausto potemmo restare un poco da soli per la prima volta. Al Lombardia quell’anno arrivò terzo, e credo che mio marito cominciasse ad avere dei sospetti, l’Italia è un paese piccolo. Ma non è vero che mi presentai da Coppi con le valigie in mano: quando decidemmo, lo facemmo insieme come tutto il resto.
Dopo la grande vittoria su quello svizzero, Koblet, al Giro del ’53, lo raggiunsi dunque a Bormio e Fausto mi chiese un bacio: fu una cosa ingenua, un bacetto da ragazzi. Ma dopo meno di una settimana ci demmo appuntamento alla stazione di Tortona, poi andammo in macchina verso Briançon e a Claviere passammo la nostra prima notte insieme: era il 21 luglio 1953. Fausto non aveva corso il Tour per preparare meglio il campionato del mondo, ma sulle strade di Francia andammo a veder passare la corsa e qualcuno ci fotografò. Mio marito vide quelle immagini e infuriato mi scrisse, io risposi che ero in Francia da amici come gli avevo detto, e che avevo incontrato Coppi per caso, del resto anche mio marito era ormai suo amico.
Il 12 giugno del 1954 il Giro d’Italia faceva tappa a Saint Moritz, io c’ero e avevo addosso quel famoso montgomery chiaro. Un giornalista francese mi notò e si chiese chi mai fosse la dame en blanche: sono rimasta quella per sempre, imprigionata in un’immagine.