La chiamata di Bianca giunse in ufficio la mattina dopo, verso le nove. La contessa fu sintetica: aveva visto Ricciardi teso e preoccupato, e ignorava quali disposizioni avessero le centraliniste in merito alle telefonate in entrata.
– Il dottore ti aspetta fra un’ora a casa sua, per quella visita. Sii puntuale.
Il commissario apprezzò la riservatezza; nemmeno lui era in grado di dire se ci fossero infiltrazioni e a che livello. Aveva ragione Bruno: i tempi stavano cambiando, e assai in fretta.
Fu tentato di non avvertire Maione; dover coinvolgere il brigadiere e il medico era il suo principale rammarico. Era stato lui a causare il malessere di Livia, e probabilmente anche gli eventi successivi; mettere i due amici in condizione di pericolo era forse pure peggio. Ma Maione aveva cento occhi e Ricciardi se lo ritrovò davanti appena uscito dalla stanza.
– Allora, commissa’, ci siamo? Ci muoviamo noi adesso, vero?
– Sí, Raffaele. Ma facciamo due strade diverse. Ci vediamo al palazzo della duchessa, all’interno. E non ti devo dire io quanto devi stare attento a non farti vedere. Da nessuno.
– Commissa’, con tutto il rispetto: siete voi che dovete stare attento. Io, se non mi voglio far vedere, non mi faccio vedere. Punto e basta.
Mezz’ora dopo, Ricciardi si presentò al portone del palazzo Previti di San Vito, in via Santa Lucia. Gli venne incontro un portiere in livrea perfettamente sbarbato e coi capelli pettinati all’indietro, che lo omaggiò di un breve inchino e, senza dire una parola, gli fece cenno di seguirlo. Maione, impacciato, attendeva ai piedi di una larga scalinata in marmo.
Quando fu al fianco di Ricciardi, sussurrò:
– Commissa’, ma a voi vi ha chiesto chi siete? Perché a me ha fatto solo segno di aspettare qua, come se sapesse che dovevo arrivare. Ma è muto, secondo voi?
Ricciardi si strinse nelle spalle.
Giunti in cima, il portiere li affidò a una graziosa cameriera vestita di nero, con grembiule e cuffietta bianchi. La donna si produsse in una deliziosa riverenza e si avviò al di là di una grande porta.
Il commissario e il brigadiere furono condotti lungo un’interminabile teoria di stanze, ciascuna con tappezzeria di colore uniforme: verde, blu, marrone, con tanto di quadri, arazzi e soprammobili. Maione, a un paio di metri da Ricciardi, non ricordava di aver mai visto tanta opulenza; e pensava con rammarico alla moglie, che da almeno dieci anni voleva un divano che non potevano permettersi.
La cameriera si fermò di fianco a una porta che dava in una grande sala da ballo, in fondo alla quale campeggiava un pianoforte a coda. A Ricciardi l’ambiente parve deserto, poi si accorse che su un lato, seduta su una poltrona che di fronte ne aveva un’altra insieme a un divanetto, c’era una donna.
La cameriera la indicò col capo e si dileguò. Ricciardi tossicchiò, chiese permesso. La donna sollevò una mano guantata e fece cenno di entrare.
Maria Giulia Previti di San Vito, piú una decina di nomi di cui non si serviva se non in caso di necessità, era vecchia, vecchissima, ma nessuno osava sottolinearle questa triste circostanza. Se ne stava rigida in un abito beige ricamato, la schiena eretta, il viso rugoso e imbellettato. Il valore dei gioielli che indossava avrebbe garantito lo stipendio di un paio di commissari per un anno o due. Ogni volta che muoveva la testa gli orecchini di diamanti tintinnavano allegri, contrariamente agli occhi che sembravano quelli di una testuggine, sferici, sporgenti e semichiusi.
Armeggiò sul petto scarno e prese degli occhialini che le pendevano sul torace, attaccati a una catena d’oro. Li portò sul naso e fissò a lungo il commissario.
– Voi siete Malomonte, dunque. Bianca cambia voce quando parla di voi. Cambia proprio voce. Ero curiosa di vedervi.
Ricciardi resse lo sguardo, poi chinò deferente il capo.
– Buongiorno, duchessa. Mi devo anzitutto scusare di questa irruzione, e anche di aver dovuto ricorrere all’amicizia della contessa di Roccaspina per farmi introdurre a voi, e…
– Non perdete tempo, Malomonte. Sono vecchia, sapete? Non sembra, lo so, ma alla mia età tempo non se ne ha abbastanza e non intendo dilapidarlo in convenevoli. Che posso fare per voi?
– Vedete, duchessa, avrei bisogno di alcune informazioni su…
La donna sollevò una mano.
– Prego, Malomonte. Prego. Fatemi fare la padrona di casa. Posso offrirvi qualcosa?
Ricciardi sbatté le palpebre. Non era poco, il tempo?
– Grazie, signora, no. E preferirei essere chiamato semplicemente Ricciardi, se possibile.
La duchessa reagí come a un insulto.
– Che sciocchezza è mai questa? Non siete voi il barone di Malomonte, come mi ha detto Bianca? Ho forse ricevuto la persona sbagliata?
Ricciardi chiarí in fretta.
– No, sono proprio io, Luigi Alfredo Ricciardi di Malomonte, è solo che non esibisco il titolo, se posso evitare. La mia funzione di commissario di polizia…
– Uno si chiama come si chiama. Non è un merito essere nati in una famiglia, ma è una grave colpa vergognarsene. Io non mi sono mai vergognata di essere me stessa, anche se ormai non ricordo piú le facce dei miei parenti. Sono tutti morti.
Ricciardi era in difficoltà. L’alta società aveva dei codici che non aveva mai compreso, e quel dialogo aveva preso una piega surreale. Trasse un respiro e si rammentò di Maione.
– Duchessa, permettetemi di presentarvi il brigadiere Raffaele Maione, che mi ha accompagnato.
Maione si materializzò al fianco del commissario, col cappello in mano. Aveva ascoltato la conversazione e si era reso conto delle difficoltà del superiore. Batté i tacchi, fece un inchino ossequioso e disse, inatteso:
– Non avete affatto l’aspetto dell’anziana, duchessa. E un vero uomo sa bene quanto sia affascinante l’esperienza, in una donna.
Le labbra della duchessa si stesero in un moto di compiacimento, che non la trattenne dal commentare acida:
– Pure i complimenti fanno perdere tempo, comunque.
Maione rispose, al volo:
– Se fossero complimenti, duchessa. Ma vi posso assicurare che è la pura e semplice verità.
La donna si sciolse, assomigliando sempre a una tartaruga ma nella stagione degli amori. Piegò la testa da un lato con un tintinnio di diamanti e zufolò:
– Dite pure, bel poliziotto: in che cosa può esservi utile, questa donna d’esperienza?
Maione si rivolse a un allibito Ricciardi.
– Prego, commissario, chiedete pure alla duchessa. Lei è gentile e vi risponderà.
Per il resto del colloquio, Ricciardi pose le domande mentre la duchessa replicava di fatto a Maione, non distogliendo gli occhi da rettile da quelli del brigadiere che annuiva estasiato.
– Il ricevimento dell’altra sera, duchessa, si è svolto qui?
– Sí, qui, nel salone grande. C’erano una quarantina di amici, un pianista molto bravo, due violinisti e una soprano del San Carlo. Ci siamo divertiti.
– Tra gli invitati c’era per caso la signora Lucani?
– Certo, la invito sempre, è una donna cosí affascinante. Non di grande nascita, ma di talento. E poi veste cosí bene! Prende abiti e gioielli a Roma, tutte noi ragazze della città ci facciamo rifare i modelli dalle nostre sarte, dopo averglieli visti indosso.
Raffaele assentí partecipe. Ricciardi sospirò e proseguí.
– Ricordate da chi era accompagnata, la signora Lucani?
La vecchia proferí, allusiva:
– Come no, stava col soldato tedesco, il maggiore Von Brauchitsch, quel bel giovane tanto simpatico. Fanno coppia fissa ormai da un po’. Nemmeno se ne chiacchiera piú, sono diventati proprio come marito e moglie, che noia. Eppure Livia sembrava destinata ad avere di meglio, non c’è uomo in città che non abbia perso la testa per lei. Che ci vedranno, poi…
Maione fece una smorfia, come a prendere le distanze da quel tipo di maschio. Lui, era noto, preferiva le donne d’esperienza.
La duchessa gli sorrise, rapita. Ricciardi tossí per catturarne l’attenzione.
– Fino a che ora sono rimasti? Hanno aspettato che si concludesse il ricevimento?
– Macché. A un certo punto, mentre parlavo con Livia, il maggiordomo le ha consegnato un biglietto. Lei è sbiancata, mi è parso addirittura che stesse per svenire. Von Brauchitsch si è avvicinato, l’ha tratta in disparte e hanno cominciato a discutere, poi Livia è uscita sul terrazzo. Il maggiore l’ha raggiunta e hanno continuato a litigare.
Ricciardi era concentratissimo.
– Litigavano, dite? Che si dicevano?
– Che ne posso sapere, io? Da qui mica si sentiva, e poi la cantante stava appunto cantando.
Maione si intromise, soave.
– E voi come lo avete capito, bella signora, che stavano litigando? Siete intelligente, quindi l’avrete intuito, chessò, dai gesti o dalle espressioni.
La duchessa ridacchiò, come in reazione a una barzelletta.
– No, no, si sono proprio presi a schiaffi, altroché. Per la precisione, lui l’ha afferrata per un braccio, lei si è divin...