– Anche tu da queste parti, Contrera? – mi chiede Eddie. Riesco a malapena a distinguere le sue parole, c’è un tale casino qui in corso Vercelli che vorrei infilarmi i tappi nelle orecchie.
È la festa di Barriera. Donne e uomini di tutte le etnie si sono ritagliati un posto, ognuno sviluppa un baccano diverso. I balli sardi risultano piú mosci rispetto a quelli dell’est Europa. I rumeni ci danno dentro con i fiati e sono sballati dalla birra e da chissà che altro. I colori dei costumi accecano.
– Sono con mia sorella e mia nipote. Fosse per me, sarei rimasto a casa. O in ufficio.
Eddie non si chiama proprio Eddie, ma la gente lo ha soprannominato cosà perché pare abbia la stessa risata di Eddie Murphy, anche se io non l’ho mai sentito ridere. È alto quasi uno e novanta, e adesso mi si avvicina rifilando una mezza spallata a un magrebino che all’inizio se la prende, ma poi ne considera la stazza e finge che non sia successo niente. Eddie è nigeriano, nero come il carbone o come la notte in una miniera di carbone, ma lui si sente italiano. È nato qui da genitori fuggiti dai signori della guerra.
– Chiamalo ufficio, il tuo, – mi prende in giro.
Sono un investigatore privato con regolare licenza, ma non guadagno abbastanza per potermi permettere un ufficio. Perciò ricevo i miei clienti in una lavanderia a gettoni in corso Giulio Cesare, quella del mio amico Mohamed. La gente viene a chiedermi favori, e io glieli faccio, per la solita paga piú le spese, come canta Mark Knopfler. Di solito si tratta di corna, uomini in costante stato di arrapamento e donne che vogliono svagarsi un po’.
– Tu vivi sempre in quella cazzo di scuola occupata? – gli chiedo.
– Nah. Ora ho preso una stanza in corso Taranto perché ho un lavoretto. Ma se hai bisogno di me, Contrera, basta che sganci il giusto e sono tuo.
Mi ha aiutato nel peggiore dei casi su cui ho investigato. C’erano di mezzo dei morti ammazzati.
– Lo terrò a mente.
Cerco con lo sguardo mia sorella Paola e mia nipote Giada. In tutto questo macello, le ho perse di vista da almeno venti minuti. Inghiottite dalla folla festante.
– Che poi che cazzo ci sarà mai da festeggiare in questo quartiere di merda, – fa Eddie come concludendo una lunga riflessione.
– La vita? – ribatto.
Mi osserva un attimo. – Amico, io sono diplomato in ragioneria e faccio lo sguattero in un ristorante indiano, lavo i piatti e pulisco le porcherie della gente. Non prendermi per il culo.
Gli sorrido. – Come sei negativo. Quanti anni hai, trentadue?
– Embè?
– Ce li avessi io. Non che invidi il tuo fisico, ma…
– Vaffanculo, Contrera, – taglia corto lui. E un istante dopo il suo testone coi dread lanosi e le sue spalle da scaricatore tagliano come un rasoio nugoli di persone assiepate.
Mi muovo nella direzione opposta, verso piazza Rebaudengo, e ancora non riesco a individuare le mie ragazze. Qui ci sono le sudanesi che ballano mezze nude sotto vestitini leggeri e calzando zoccoli rumorosi. Un giovane invasato con la cresta picchia le mani sui bonghi e i ballerini si scatenano al centro, assieme a tutti gli astanti.
Provo anch’io qualche mossa, ma gli anfibi mi impediscono di sfoggiare tutto il mio talento. Mi sembra di notare che una ragazza sui vent’anni, bionda come l’oro colato, sghignazzi nella mia direzione.
Mi indico col pollice.
Lei annuisce, e ride.
C’è qualcosa in quel sorriso che mi fa frizzare la gola e sballare i sensi. Indossa una minigonna che scopre due cosce bianche e levigate, ha polpacci allenati da runner, seni piccoli e collo lungo, come le braccia. Segue il ritmo dei bonghi facendo su e giú con la testa, i capelli le giocano sul viso. Sorride ancora. A me.
Faccio per avvicinarmi ma poi mi rendo conto che probabilmente ho il doppio della sua età . Questo fa di me un suo padre in potenza. Potrei averla concepita a vent’anni, storia d’amore tra giovani non specializzati nell’interruptus.
E poi, secondo pensiero che mi fa lo sgambetto: io ho davvero una figlia. Di quasi sedici anni.
Perciò decido di voltarmi e andarmene. Solo che lei mi raggiunge a passo di danza, muovendosi persino meglio e con piú carica sensuale delle sudanesi. Resto immobile ad aspettarla, è piú forte di me.
– Gran ballerino, – dice con l’accento americano. Da vicino sembra ancora piú giovane, gli occhi sono verdi e le pupille ruotano come biglie nella sclera. – Dove hai imparato?
Imparrauto, pronuncia.
– Un po’ qua e un po’ là , sono richiestissimo per addii al nubilato e diciottesimi, – rispondo con fare accattivante. – Conosco quasi tutti, qui nel quartiere. Non ti ho mai vista in giro. Me ne ricorderei –. Che frase da provolone affumicato, ma non mi è venuto niente di meglio. – Vieni da qualche altro punto della città o direttamente dal paradiso?
Lei sorride ancora. Gli angeli hanno una dentatura simile, secondo me. – Sono in Barriera da qualche mese. Condivido un appartamento con una… tizia. Ho preso un anno sabbatico dopo il college –. Sabà ticou.
– Uao. E tra tanti posti, proprio Barriera?
– Qui c’è piú vita che in centro –. Indica nel caos attorno.
– Quando arriveranno le nebbie di novembre cambierai idea.
– Io sono di Brooklyn, amico, conosco la nebbia.
Siamo a mezzo metro. Vorrei avere i capelli tinti invece di questo brizzolato pre-cassa da morto; una faccia liscia senza tutte le mie rughe di passioni andate a male; un fisico senza acciacchi.
Eppure sono sul punto di chiederle come si chiama e d’invitarla a bere qualcosa al bar di Sergione quando intravedo il cinese.
Long Lai. O almeno è cosà che si fa chiamare.
Non mi aspettavo che fosse tanto imbecille da farsi un giro alla festa di quartiere. Come l’ho visto io, poteva beccarlo sua moglie.
– Scusa un attimo, – dico alla ragazza nella sana speranza di non incontrarla mai piú, ma qualcosa tra la bocca e il bacino (piú verso il bacino) mi fa aggiungere: – Potresti aspettarmi qui? Torno subito.
Lei s’incupisce, di sicuro non l’hanno mai piantata in asso dopo un minuto di conversazione. Ma è anche incuriosita.
Mi allontano procedendo all’indietro, strizzandole l’occhio. Per compiere questa operazione assai seduttiva, però, inciampo in uno zaino e sto per perdere l’equilibrio. Resto sospeso tra la terra e il nulla per mezzo secondo, poi qualcuno mi afferra prima che finisca col culo sull’asfalto.
– Attento, bello, – dice una voce roca, mentre due mani mi sostengono sotto le ascelle. La ragazza americana si apre in un altro sorriso, insopportabile. Mi riallineo alla forza di gravità e faccio per ringraziare il mio salvatore. Emiliano Macchi, trent’anni trascorsi per metà in galera, e per metà a spacciare in una traversa di via Cigna. Muscoli, tatuaggi, orecchini e tutto l’armamentario da duro.
– A momenti Barriera perdeva il suo segugio numero uno.
– Grazie, Macchi.
– Pregone, Contrera.
Mi è sempre stato sulle palle.
Lui s’allontana e raggiunge la ragazza americana che sembra parecchio infastidita. Si conoscono, perché Emiliano la bacia in fretta sulle guance, mentre lei storna lo sguardo. Cosa posso dedurre da una scena del genere?
Che ho altro da fare.
Long Lai è ancora fermo tra la folla accanto all’imbocco di via Verres. Sta osservando i suoi compatrioti danzare alla melodia di uno strumento a corde che non ho mai visto. Le ballerine hanno cappelli di paglia e lunghe vesti rosse. Long batte le mani a un ritmo che non sento, lo conoscono solo loro.
Scarto gli astanti passando dall’esterno, raggiungo il marciapiede opposto e seguo i movimenti del mio uomo. «Uomo» forse è un termine esagerato per un cinese smilzo che porterà sà e no la quaranta e ha piedi e mani piccoli, da bambino. Solo le sopracciglia sono spesse, incurvate con ostinazione.
Mi basterà camminare lentamente fino alle sue spalle, quindi gli arpionerò i fianchi e lo trascinerò a peso morto dove possiamo parlare. Ha abbandonato il tetto coniugale tre mesi fa, dopo che il suo ristorante in via Boccherini è stato chiuso dai servizi d’igiene. Pare ci fossero dei topi che aiutavano i cuochi a cucinare.
Ciò che provoca il mio odio verso Long Lai è che nel suo ristorante ci ho mangiato anch’io un annetto fa. Di notte sogno scarafaggi al vapore e nuvole di drago con falene arrostite dentro. Perciò, quando la moglie Jin è venuta a chiedermi di rintracciare il marito, il quale non passa soldi da tre mesi a lei e ai suoi quattro figli piccoli, il caso è diventato anche una questione personale.
Mi muovo come una nottola tra le fronde degli alberi in estate, con apparente indifferenza ma motivato da precise intenzioni. Sono alle spalle di Lai. Sta ancora battendo le mani quando congiungo le braccia attorno al suo stomaco e lo trascino via.
All’inizio si irrigidisce e si lascia portare come un bagnante da un’onda impetuosa. Non capisce e dice qualcosa nella sua lingua.
– Mi manda tua moglie, – ribatto. E anche quelle cazzo di blatte che mi hai fatto mangiare.
Fa un verso di resa. Sono troppo piú grosso di lui, uno e settantatré per ottanta chili contro un corpo che non ha consistenza umana. Senza ciccia, senza muscoli, forse anche senz’anima. Uno e sessanta, e sto esagerando, per zero chili. Lo porto con me in via Verres senza permettergli di girarsi, arretrando insieme come avantreno e treno sulle rotaie.
Incrocio una decina di sguardi incuriositi, ma ricambio con un’occhiata alla Fatevi I Cazzi Vostri, Io Sono Contrera. Il piú bastardo tra i detective privati di Barriera, anche se non ho grossi termini di paragone essendo l’unico sbirro senza uniforme del quartiere.
Arrivati a un cassonetto decido di allentare la presa e questo cosetto affusolato allarga il gomito puntuto e me lo sbatte sul mento. Lo mollo, vedo le stelle e i pianeti dell’intero universo, le aurore boreali mi accecano, ascolto il richiamo di sciamani nel ventre dei deserti lontani e resto a toccarmi il mento che pulsa al ritmo dei bonghi sudanesi.
Dopo un’ora di pura incoscienza e dolore vedo la camicia bianca di Long Lai svoltare in via LeinÃ, cinquanta metri piú avanti. Okay, saranno passati dieci secondi, se non gli vado dietro subito me lo scordo per sempre. Parto all’inseguimento con tutto l’odio che ho in corpo e otto secondi dopo sto svoltando anch’io in via LeinÃ. Solo all’ultimo vedo un passeggino con dietro una mamma che sbuca dalla via parallela, e faccio una roba che mai nella vita: salto carrozzella e pupo manco fossi Edwin Moses nei beati anni della sua imbattibilità . La madre urla alle mie spalle, prima di spavento e poi di rabbia, mi chiama stronzo o qualcosa di simile.
Ma io ho un lavoro da portare a termine, e il mio lavoro sta quasi correndo in mezzo al traffico senza piú sprint ma con passo incessante, dribblando le auto che gli strombazzano addosso.
Ce l’ho a quattro met...