
- 416 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il Paradiso è altrove
Informazioni su questo libro
Il gioco appare non soltanto con la forza del ricordo, ma con il suo possente valore simbolico, di ricerca del Paradiso in terra, inteso come giustizia, bellezza, libertà, amore: l'Utopia, insomma. E due utopisti, a diverso titolo, sono Paul Gauguin e Flora Tristán, sua nonna materna, agitatrice sociale e proto-femminista, le cui vicende vengono narrate, in parallelo, da questo trascinante romanzo.
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Informazioni
eBook ISBN
9788858431535Categoria
Letteratura generaleXVIII. Il vizio tardivo
Atuona, dicembre 1902
– Ha sempre desiderato essere un pittore, Paul? – domandò, all’improvviso, il pastore Paul Vernier.
Avevano bevuto, mangiato la splendida «frittata bavosa» del padrone di casa, e discusso sui problemi che, a giudizio di Ben Varney e Ky Dong, avrebbero comportato per Paul le sue sfide alle autorità con le esortazioni ai marchesani a non pagare le tasse. Avevano riso e fantasticato sull’arrabbiatura che avrebbe colto il vescovo Martin nel sapere che Koke aveva appena sistemato, nel suo giardino, due sculture di legno che alludevano a ciò che piú poteva infastidire il porporato: il fantoccio con le corna, che pregava, aveva la faccia di monsignore e si chiamava Padre Lussuria, e la donna, dalle grandi tette e dai grandi fianchi che esibiva oscenamente, Teresa, come la domestica, che, secondo la vox populi in Atuona, era l’amante del vescovo. Avevano discusso sul fatto se la misteriosa imbarcazione che era passata a distanza di fronte all’isola, in mezzo alla pioggia e alla nebbia, fosse una di quelle baleniere americane portatrici di malasorte, che tanto inquietavano i nativi dell’isola di Hiva Oa perché sequestravano la gente dell’isola per inserirla a forza nell’equipaggio. Ma, arrendendosi agli argomenti di Frébault e di Ben Varney secondo cui le baleniere ormai non venivano perché non c’erano piú balene da quelle parti, avevano decretato che la nave che avevano intravisto non esisteva, che era una nave fantasma.
L’improvvisa domanda del pastore protestante di Atuona lasciò Paul sconcertato. Stavano chiacchierando nell’inondato giardino della Casa del Piacere. Fortunatamente, aveva smesso di piovere. Le nubi, che si erano aperte circa un’ora prima, avevano messo a nudo un cielo di un azzurro purissimo e il sole brillava molto forte. Aveva diluviato per tutta la settimana e questa parentesi di tempo buono metteva i cinque amici di Paul – Ky Dong, Ben Varney, Émile Frébault, il suo vicino Tioka e il capo della missione protestante – di buon umore. Solo il pastore Vernier non beveva alcol. Gli altri tenevano tra le mani bicchieri di assenzio o di rum e avevano gli occhi alticci.
– Ha sentito la vocazione dell’artista fin da bambino? – insisteva Vernier. – Mi interessa molto il tema delle vocazioni. Religiose o artistiche. Perché credo che ci sia in entrambe molto in comune.
Il pastore Vernier era un uomo asciutto e senza età e parlava con grande delicatezza, carezzando le parole. Era appassionato di anime e di fiori; il suo giardino, che si estendeva ai piedi dei due bei tamarindi della missione che Koke intravedeva dal suo studio, era il piú curato e il piú fragrante di Atuona. Arrossiva ogni volta che Paul o gli altri dicevano parolacce o nominavano il sesso. Guardava Koke con vero interesse, come se il tema della vocazione gli interessasse sul serio.
– Beh, a me, questo vizio mi è venuto tardissimo, – rifletté Paul. – Fino ai trent’anni non credo di aver disegnato neppure un pupazzo. Gli artisti mi sembravano bohémien o checche. Li disprezzavo. Quando ho lasciato la marina, alla fine della guerra, non sapevo che cosa fare nella vita. Ma l’unica cosa che non mi passava per la testa era diventare pittore.
I tuoi amici si misero a ridere, credendo che fosse uno dei tuoi scherzi abituali. Ma era vero, vero, Paul. Per quanto nessuno lo capisse, a cominciare da te stesso. Il grande mistero della tua vita, Koke. L’avevi indagato mille volte, senza trovare mai una spiegazione. Portavi fin dalla culla quel vermetto nelle viscere? Aspettava il momento, l’occasione adeguata per manifestarsi? Lo aveva appena insinuato Ky Dong, che sembrava essere scivolato dentro al suo pareo a fiori:
– È impossibile che una vocazione da pittore compaia all’improvviso nella vita di un uomo maturo, Paul. Raccontaci la verità.
Questa era la verità, per quanto i tuoi amici non ti credessero. Nella tua memoria non c’era traccia del minimo interesse per la pittura, né per nessuna arte, negli anni in cui percorrevi i mari del mondo su navi della marina mercantile, né piú avanti, quando facevi il servizio militare sulla Jérôme-Napoléon. Nemmeno prima, nell’internato d’Orléans da monsignor Dupanloup. La tua memoria veniva un po’ meno in questi ultimi tempi, ma di questo eri sicuro: né da scolaro, né da marinaio avevi mai dipinto un bozzetto, né avevi mai visitato un museo, né eri mai entrato in una galleria d’arte. E, quando ti dimisero dal servizio militare e andasti a vivere a Parigi presso il tuo tutore Gustave Arosa, neppure allora avevi prestato grande attenzione ai dipinti che pendevano alle sue pareti; guardavi soltanto con curiosità le figurine di terracotta degli antichi incas che il tuo tutore aveva, ma per ragioni artistiche o perché ti ricordavano quelle figurine dei mantelli preispanici che ti avevano incuriosito tanto, da bambino, a Lima, nella casa del tuo prozio don Pío Tristán?
– E che cosa hai fatto allora tra i venti e i trent’anni? – gli domandò Ben. L’ex baleniere e padrone dell’emporio di Atuona era congestionato e aveva gli occhi mezzo fuori dalle orbite. Ma la sua voce non era ancora quella di un ubriaco.
– Sono stato agente di borsa, finanziere, bancario, – disse Paul. – E, per quanto possiate non crederci, lo facevo bene. Se avessi continuato, forse sarei milionario. Un gran borghese che fuma sigari e mantiene due o tre amanti. Scusi, pastore.
Si divertivano molto. Le risate del gigantesco Frébault, che Paul aveva ribattezzato Poseidone per la sua corpulenza e la sua passione per il mare, sembravano trascinare pietre. Perfino lo ieratico Tioka, che si accarezzava la grande barba bianca come se sottoponesse a ruminazione filosofica tutto quello che udiva, rise. Non ti immaginavano come uomo d’affari, a te, selvaggio com’eri, Paul. Non c’era niente di strano. Adesso, neppure tu riuscivi a crederlo, nonostante l’avessi vissuto. Ma eri tu quel giovane di ventitre anni, cui Gustave Arosa suggeriva, in una conversazione molto seria, bevendo cognac nella sua dimora di Passy, di dedicarsi alle trattazioni di Borsa, dove si potevano accumulare fortune, come aveva fatto lui? Avevi accettato l’idea di buon grado e gliene fosti riconoscente – ancora non l’odiavi, ancora non volevi sapere che tua madre era stata l’amante di quell’uomo ricco – quando ottenne per te un posto nell’ufficio del suo socio, Paul Bertin, agente stimato della Borsa di Parigi. Com’era possibile che saresti diventato quel giovane pulito, educato, timido, che arrivava in ufficio con maniacale puntualità, e, senza distrarsi un istante, si dedicava per ore e ore, anima e corpo, a immergersi in quel difficile mestiere, ottenere clienti che affidassero all’agenzia Bertin l’incarico di investire le proprie rendite e i propri capitali nella Borsa di Parigi. Chi ti avesse frequentato negli ultimi dieci anni non avrebbe potuto minimamente immaginare che nel 1872, 1873, 1874, tu fossi un impiegato modello, con cui lo stesso capo, Paul Bertin, tanto asciutto e arcigno, si felicitava a volte per l’impegno, e per la vita ordinata, che, a differenza dai colleghi, evitava di perdere tempo nei caffè e bar dove quelli si precipitavano alla chiusura dall’ufficio. Tu, no. Tu, persona seria, te ne andavi a piedi verso l’appartamentino affittato in rue La Bruyère, e, dopo aver cenato frugalmente in un ristorantino da quelle parti, ancora ti sedevi alla tua piccola scrivania zoppa e cigolante a rivedere le carte dell’ufficio.
– Sembra impossibile, Paul, – esclamò il pastore Vernier, alzando la voce perché la smorzavano tuoni in lontananza. – Lei era cosí, nella sua giovinezza?
– Uno schifoso apprendista borghese, pastore. Neanch’io ci credo, adesso.
– E come avvenne il cambiamento? – intervenne il vocione di Frébault.
– Vorrai dire il miracolo, – lo corresse Ky Dong. Il principe annamita guardava Paul affascinato, con espressione preoccupata. – Com’è successo?
– Ci ho pensato molto e credo di avere una risposta chiara –. Paul rigirò in bocca, con diletto, un sorsetto dolce e piccante di assenzio e tirò dalla sua pipa prima di continuare. – Il corruttore, quello che mandò a farsi fottere la mia carriera di borghese, è stato il buon Schuff.
Spalle cadenti, sguardo da cane, andatura stanca, un accento alsaziano che provocava il sorriso: Claude-Émile Schuffenecker. Il buon Schuff. Come potevi immaginare, Paul, quando quell’uomo timido, bonario, tozzo e paffuto, era entrato a lavorare nell’agenzia Bertin – era piú preparato di te, aveva fatto studi di economia ed esibiva un diploma –, l’influenza che avrebbe avuto nella tua vita. Quel collega amabile, cordiale, timoroso, impaurito, ti guardava con rispetto e invidiava la tua personalità forte e decisa. Te l’aveva detto, arrossendo. Diventaste molto amici. Solo dopo alcune settimane avresti scoperto che quel collega inibito e umile coltivava, sotto l’apparenza insignificante, due passioni, che ti andava rivelando man mano che l’amicizia si rinsaldava: l’arte e le religioni orientali, soprattutto il buddismo, di cui Claude-Émile aveva letto moltissimo. Avrebbe continuato a ricercare il nirvana? Ma fu il modo che aveva Schuff di parlare della pittura e dei pittori che ti sorprese, ti incuriosí, e, a poco a poco, ti contagiò. Per il buon Schuff, gli artisti erano esseri di una specie diversa, mezzo angeli, mezzo demoni, distinti nella sostanza dagli uomini comuni. Le opere d’arte costituivano una realtà a parte, piú pura, piú perfetta, piú ordinata, rispetto a questo mondo sordido e volgare. Entrare nell’orbita dell’arte era accedere a un’altra vita, nella quale non solo l’anima, ma anche il corpo si arricchiva e godeva attraverso i sensi.
– Mi stava corrompendo e io non me ne rendevo conto –. Paul gli dedicò un brindisi. – Al buon Schuff! Mi trascinava in gallerie, musei, in atelier di artisti. Mi fece entrare al Louvre per la prima volta, a vedere mentre copiava i classici. E un bel giorno, non so come, non so quando, nei momenti liberi, di nascosto, mi sono messo a disegnare. È cominciata cosí. Questo vizio tardivo. Ricordo la sensazione che stessi facendo qualcosa di male, come da bambino, a Orléans, dallo zio Zizi, quando mi masturbavo o spiavo la servetta che si spogliava. Incredibile, no? Un giorno, mi fece comprare un cavalletto. Un altro, m’insegnò la pittura a olio. Non avevo mai tenuto in mano un pennello prima. Mi fece preparare i colori, me li fece mescolare. Mi corruppe, vi dico! Con la sua faccina da mosca morta, da io non sono niente, da io non esisto, il buon Schuff ha provocato un cataclisma nella mia vita. Per colpa di quell’alsaziano paffuto mi trovo qui, alla fine del mondo.
Ma l’episodio decisivo non sarà stato piuttosto, anziché il buon Schuff, la visita in quella galleria di rue Vivienne dove era esposta l’Olympia, di Édouard Manet?
– Fu come essere colpito da un fulmine, come vedere un’apparizione, – spiegò Paul. – L’Olympia di Édouard Manet. Il quadro piú impressionante che avesse mai visto. Pensai: «Dipingere cosí è essere un centauro, un Dio». Pensai: «Devo diventare un pittore, io pure». Ormai non mi ricordo tanto bene. Ma fu una cosa simile.
– Un quadro può cambiare la vita di un uomo? – Ky Dong lo guardava scettico.
Sulle loro teste c’era adesso di nuovo uno strepito infernale di fulmini e tuoni e il vento scuoteva tutti gli alberi di Atuona con furia. Ma ancora non era ritornata la pioggia. Una nebbia spessa nascondeva un’altra volta il sole. Erano sparite le moli boscose del Temetiu e del Feani. Gli amici tacquero, fino a che un nuovo interludio nella tormenta consentisse di poter udire le loro voci.
– A me l’ha cambiata, me l’ha fottuta, – affermò Paul, con brusca furia. – Mi ha sconvolto, mi ha procurato incubi. A un tratto, non mi sono sentito piú sicuro di niente, nemmeno del suolo che calpestavo. Non avete visto la foto di Olympia, qui nel mio studio? Ve la mostro.
Attraversò l’infangato giardino sguazzando e salí al primo piano della Casa del Piacere. Il vento scuoteva la scaletta esterna come se stesse per strapparla. La foto giallastra e un po’ sfocata di Olympia presiedeva la serie di stampe e cliché della sua vecchia collezione: Holbein, Dürer, Rembrandt, Puvis de Chavannes, Degas, alcune stampe giapponesi, la riproduzione di un bassorilievo del tempio giavanese di Borobudur. All’inizio dell’acquazzone, sette giorni prima, aveva staccato le foto pornografiche e le aveva messe sotto il materasso, per salvarle dalla pioggia, che aveva attraversato il bambú e intriso tutta la stanza. Molte di quelle foto, inzuppate, adesso avrebbero perduto del tutto il loro già scialbo colore. Quella di Olympia era la piú vecchia. L’avevi cercata con bramosia, dopo quella mostra in rue Vivienne e da allora non te n’eri separato mai.
I suoi amici la esaminarono passandosela di mano in mano, e, certamente, nello scoprire il corpo nudo, luminoso, di Victorine Meuret (Koke raccontò loro che l’aveva conosciuta e che la modella non era nemmeno l’ombra della sua immagine, che Manet aveva trasfigurato) che sfidava il mondo intero con il suo sguardo di donna libera e superiore, mentre la domestica nera le porgeva un mazzo di fiori, il pastore Vernier arrossí fino alle orecchie. Temendo senza dubbio che quel nudo potesse essere l’inizio di qualcosa di peggio, addusse un pretesto per andarsene:
– Da un momento all’altro il cielo ricomincerà a scaricarsi, – disse, indicando le formazioni minacciose di nubi oscure che avanzavano su Atuona. – Non voglio arrivare alla missione nuotando, abbiamo la funzione questo pomeriggio. Anche se con questo temporale, temo, non verrà nessuno. Non dev’essere rimasta nemmeno una pianta in piedi nel mio giardino. Addio a tutti. Deliziosa la frittata, Paul.
Si allontanò, dimenandosi nel fango, ed evitando di guardare passandoci vicino i grotteschi pupazzoni Padre Lussuria e Teresa. Tioka aveva lo sguardo inchiodato sulla foto, e, dopo un bel pezzo, sempre accarezzandosi la barba bianca come la neve, domandò, nel suo lento francese:
– Una dea? Una puttana? Chi è lei, Koke?
– Le due cose e molte altre ancora, – disse Paul, senza ridere come i suoi compagni. – È la straordinarietà di quell’immagine. Essere mille donne insieme, in una sola. Per tutti i desideri, per tutti i sogni. L’unica donna che non mi abbia mai stancato, amici. Per quanto, adesso, riesco appena a vederla. Ma ce l’ho qui, e qui, e qui.
Lo diceva mentre si toccava la testa, il cuore e il fallo. I suoi amici l’applaudirono con nuove risate.
Come aveva preannunciato Vernier, il cielo continuava a oscurarsi molto velocemente. Non si vedeva neppure la collina del cimitero, ma si sentiva ruggire il fiume Make Make, in gran piena. Quando la pioggia si scatenò, con i bicchieri in mano corsero a rifugiarsi nell’atelier di scultura, piú asciutto che il resto della Casa del Piacere. Erano inzuppati. Si rannicchiarono sull’unica panca e sullo sventrato divano. Paul riempí loro di nuovo i bicchieri. Mentre lo faceva notò che l’acquazzone aveva spezzato i girasoli nel giardino e provò pena per loro e per l’Olandese Pazzo. Ky Dong si meravigliò di non aver visto Vaeoho per tutto il giorno: dove andava, con un temporale simile?
– Se n’è andata dalla sua famiglia, al villaggio di Hanaupe. È incinta e preferisce partorire lí. In realtà, approfitta di questo pretesto per liberarsi di me. Non credo che ritornerà. È ormai stanca di tutto questo e forse ha ragione.
I suoi amici si guardarono, a disagio. Stanca di te e delle tue piaghe, Paul. La tua vahine non poteva nascondere il suo disgusto e non avevi bisogno di vederla per rendertene conto. Il viso le si alterava ogni volta che desideravi toccarla. Bah, povera ragazza. Eri trasformato in una porcheria, in una rovina vivente, Koke. Ma, in quel momento, con il calore dell’assenzio in corpo e chiacchierando con quegli amici, nonostante la furia del cielo volevi sentirti bene. Qualche girasole schiacciato non ti avrebbe fottuto la vita piú di quanto già lo fosse, Koke.
– Negli anni che ho trascorso qui, non ho mai visto piovere in questo modo, – disse Ky Dong, indicando il cielo: le trombe d’acqua scuotevano il tetto di bambú e foglie di palma intrecciate e sembravano sul punto di strapparlo via. I lampi illuminavano l’orizzonte per dei secondi e dopo tutte le montagne di Hiva Oa che li circondavano sparivano, cancellate da qualche nube nera e rumorosa. Non si vedeva neppure l’emporio di Ben Varney che era tanto vicino. Il mare, alle sue spalle, sembrava rabbioso. La fine del mondo, Koke?
– Io non sono neppure mai uscito da quest’isola e mai ho visto piovere cosí prima, – disse Tioka. – Sta per succedere qualcosa di brutto.
– Qualcosa di peggio di questo diluvio? – scherzò Ben Varney, con la lingua mezzo impastoiata. E, volgendosi verso Paul, riprese la conversazione: – Cioè hai visto quel quadro e ti sei sbarazzato di tutto per dedicarti alla pittura? Tu non sei un selvaggio ma un pazzo, Paul.
Era molto comico il commerciante, con i suoi capelli rossicci schiacciati che gli coprivano la fronte come una corona. Rideva, divertito e incredulo.
– Magari fosse stato tanto facile, – disse Paul. – Io ero sposato. E molto seriamente. Avevo una casa molto borghese, una moglie che mi riempiva di figli. Come sbarazzarsi di tutto dalla mattina alla sera? E le responsabilità? E la morale? E il che diranno? Io credevo in quelle cosa, allora.
– Tu, sposato? – si sorprese Ky Dong. – Con tutto in regola, Koke?
Con tutto in regola e molto di piú. Ti eri innamorato tanto, Paul, di Mette Gad, quella giovane danese colta, snella, vichinga dai lunghi capelli biondi venuta a svagarsi a Parigi, in quell’inverno 1872? Non lo ricordavi, in assoluto. Ma senza dubbio, sí, ti eri innamorato della Vichinga. Infatti l’avevi invitata, corteggiata, le avevi dichiarato il tuo amore e chiesta formalmente in matrimonio, qualcosa cui la orribile famiglia di Mette, borghese, borghesissima, di Copenhagen, dopo aver esitato molto e dopo puntigliose verifiche sul pretendente, alla fine acconsentí. Era stato un matrimonio come si deve, nel municipio del quartiere IX, e nella chiesa luterana di Parigi, per soddisfare quegli schizzinosi scandinavi. Con champagne, orch...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- I. Flora a Auxerre. Aprile 1844
- II. Un demonio vigila sulla bambina. Mataiea, aprile 1892
- III. Bastarda e profuga. Digione, aprile 1844
- IV. Acque misteriose. Mataiea, febbraio 1893
- V. L’ombra di Charles Fourier. Lione, maggio e giugno 1844
- VI. Annah, la Giavanese. Parigi, ottobre 1893
- VII. Notizie dal Perú. Roanne e Saint-Étienne, giugno 1844
- VIII. Ritratto di Aline Gauguin. Punaauia, maggio 1897
- IX. La traversata. Avignone, luglio 1844
- X. Nevermore. Punaauia, maggio 1897
- XI. Arequipa. Marsiglia, luglio 1844
- XII. Chi siamo?. Punaauia, maggio 1898
- XIII. La monaca Gutiérrez. Tolone, agosto 1844
- XIV. La lotta con l’angelo. Papeete, settembre 1901
- XV. La battaglia di Cangallo. Nîmes, agosto 1844
- XVI. La Casa del Piacere. Atuona (Hiva Oa), luglio 1902
- XVII. Parole per cambiare il mondo. Montpellier, agosto 1844
- XVIII. Il vizio tardivo. Atuona, dicembre 1902
- XIX. La città-mostro. Béziers e Carcassonne, agosto-settembre 1844
- XX. Il mago di Hiva Oa. Atuona, Hiva Oa, marzo 1903
- XXI. L’ultima battaglia. Bordeaux, novembre 1844
- XXII. Cavalli rosa. Atuona, Hiva Oa, maggio 1903
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright