L’equinozio d’autunno si stava avvicinando e la Gran Bretagna orientale era battuta da un vento settentrionale proveniente dalla Scandinavia, foriero di basse temperature e uccelli migratori. Attraverso i cieli azzurri stavano arrivando viscacce, tordelle, tordi sasselli, storni, corvi e pavoncelle, in fuga comune da delta siberiani e boschi finnici. Con l’Artico impigliato tra le piume atterravano a raffiche sui campi appena arati o passavano in alto a gruppi, ciarlando amichevolmente. Non mancavano i rapaci, da soli o in coppia: sparvieri e falchi pellegrini che lasciavano i loro covi boreali e si spostavano a sud, perché le coste artiche diventavano troppo fredde e il mare polare cominciava a rivestirsi di una scorza di ghiaccio. Un giorno, mentre tornavo a casa, uno sparviero mi superò a volo radente e con un’impennata si posò sul ramo di un lucido alloro di là dalla strada. Rimase appollaiato forse mezzo minuto – petto tigrato, casco da aviatore di piume grigio-azzurre, occhi giallo bruciato – prima di staccarsi dal ramo e sparire con un colpo d’ali, e un tremito dell’alloro.
A migrazione in corso, decisi di partire verso sud-est per una puntata sulle coste argillose dell’Essex, dove boschi e campi si sfaldano in paludi salate e le paludi si arrendono a chilometri luccicanti di piane di marea. Su quelle sponde avrei potuto osservare i passaggi degli uccelli e speravo che il viaggio mi aiutasse in qualche modo a far passare la tristezza per la morte di Roger, che mi sembrava impossibile da allontanare o anche solo alleviare. Pensai anche che il fango avrebbe completato la dissoluzione minerale dei miei viaggi: iniziati sulla dura roccia, avrebbero raggiunto nell’Essex la sostanza piú molle e cedevole del nostro arcipelago, i fanghi di marea.
Partii da casa in un luminoso mattino di metà settembre. Soffiava nuovo vento dal Nord. Basso nel cielo, un sole limone pallido mi batteva in viso, inaspettatamente caldo. Le mele cadute dagli alberi del mio giardino spandevano nell’aria un odore di aceto. Negli stagni dei parchi affioravano qua e là delle castagne, come piccole mine galleggianti. Attraversai in auto il paesaggio dell’Essex – il povero Essex di cui tutti in Inghilterra parlano male – superando file di case con facciate finto-Tudor e aree commerciali «riconvertite»: colonie di capannoni di acciaio ondulato, ancora da ultimare. Contai dieci concessionarie di auto usate: showroom di vetro e metallo, Bmw e Mercedes con la targa in bianco parcheggiate in file ordinate davanti agli ingressi, e bandierine bianche e rosse legate tra le sovrastanti lampade ad arco. Dappertutto si vedevano croci di san Giorgio, agitate dal vento su pennoni domestici, o appese negli abitacoli agli specchietti retrovisori, a mo’ di deodoranti. Un poco piú a sud, lo sapevo bene, c’era la costa industriale di Dagenham, e anche le raffinerie di petrolio di Coryton, che di notte rilasciavano dalle ciminiere improvvise fiammate e lingue di fuoco, come bruciatori di mongolfiera. Passai davanti a un negozio di arredi per giardino. Il piazzale era gremito di nanetti e di Bambi accovacciati in posizione di riposo, le zampe raccolte sotto il corpo. Al posto d’onore, davanti al resto dell’esposizione, troneggiava un falco di gesso di specie indeterminata, posato su un fungo a pois due volte piú grande di lui.
Tuttavia, man mano che mi spingevo a est, nel cuore della regione e lontano dalle grandi arterie e dalle città , i segni di questo nuovo Essex consumistico si diradavano e restavano indietro. I terreni agricoli cominciarono a orlare le strade. Da una montagna di concime, alta il doppio della scavatrice che vi sonnecchiava sopra, si levavano vapori nell’aria mattutina. Campi di decine di ettari dormivano altri sonni, cullati da trattori. Tralci di vitalba si arrampicavano a profusione tra le maglie di una rete metallica lungo la strada. Un gruppo di gazze giocava in un folto di faggi. Una fila di salici si sporgeva sulla carreggiata, sfiorando con la punta delle dita i tettucci delle auto di passaggio. I tratti di bosco si infoltirono fino a rendersi visibili per tutto l’orizzonte.
Vicino a Wood Walton feci una sosta, attirato da un cartello imbullonato su un grosso cancello di zinco. «Falconer’s Lodge», c’era scritto, «Casa del falconiere». Scesi dall’auto e, quasi ad attestare la propria residenza, un piccolo sparviero sgusciò da una quercia a pochi metri da me e planò sull’albero accanto. Si fermò su un ramo in basso a osservarmi. Mi sembrò che avesse gli occhi arancioni e ne dedussi che fosse in là con gli anni. L’iride degli sparvieri, infatti, cambia colore con l’età : giallo chiaro nei pulcini, con il tempo scurisce in arancione fino a diventare, negli esemplari piú vecchi, di un rosso incandescente.
Falchi, sparvieri e altri rapaci si erano intrufolati e dileguati in ogni mio viaggio e adesso ero giunto nell’Essex per dare la caccia a questi cacciatori, e per vedere se ci fosse mai del selvaggio in questo angolo sudorientale del paese. Ero giunto fin lÃ, inoltre, seguendo le orme di un predecessore che come me aveva sviluppato con gli uccelli una relazione ossessiva.
Tra il 1953 e il 1963, tutti gli autunni e tutti gli inverni, un uomo di nome John Baker seguà gli spostamenti dei falchi pellegrini della costa dell’Essex. «I pellegrini raggiungono la costa orientale dalla metà di agosto a novembre, – scriveva Baker. – Possono venire dal mare con qualsiasi tempo, ma l’ipotesi piú verosimile è che lo facciano in una serena giornata di sole con un fresco vento di nord-ovest»1. Ogni autunno, dopo l’arrivo dei falchi, Baker li seguiva – all’alba e al tramonto, e spesso per intere giornate morse dal freddo – attraverso quell’intrico di boschi, campi, argini, piane di marea e paludi costiere, su cui passavano in volo. Non sapeva spiegare bene la sua fissazione per gli uccelli: sapeva solo di essere impegnato in una ricerca di cui gli sfuggiva il significato, ma di cui sentiva, inconfutabile, la necessità . L’impegno era cosà assoluto che nei mesi di quell’annuale inseguimento Baker inselvatichiva quasi completamente, evitando al massimo ogni contatto umano e tenendosi nascosto dovunque poteva.
Per dieci anni, sotto Orione splendente nel cielo, i falchi cacciarono le prede e Baker cacciò i falchi. Rincorrendoli per chilometri e chilometri, imparò a conoscere il paesaggio dell’Essex in ogni intimo particolare: le argille scagliose e le ghiaie fluviali, i salici bianchi e i boschetti di noccioli. Passato l’autunno, si spostava lungo «il corallo bianco osso delle siepi gelate» e tra «duri e neri boschi invernali». Osservava i piccoli trampolieri – piovanelli, pivieri, voltapietre – riunirsi nel cielo sulle piane di marea in stormi palpitanti come meduse. Individuava gli usignoli seguendone il canto. Raccoglieva piume dai disegni splendidi, di pernice e di sterna, di picchio e di falco pellegrino.
In quegli anni di caccia Baker divenne un esploratore di quello che chiamava il «mondo piú in là »: il mondo selvaggio degli uccelli e delle piccole creature che popolavano le siepi, i boschi, i cieli e i bordi litoranei delle piane di marea e delle paludi salate. Mescolato al nostro mondo di asfalto, automobili, pesticidi e trattori, questo «mondo piú in là » continuava a essere raggiungibile, situato com’era a una distanza quasi sempre colmabile girando semplicemente la testa o svoltando una curva. Se per quasi tutti gli altri questo universo era completamente invisibile, Baker sapeva invece vederlo ovunque volgesse lo sguardo. Ai suoi occhi il paesaggio dell’Essex – sempre al di sotto dei cinquanta metri sul livello del mare, a soli settanta chilometri da Londra e oggetto di un pesante sfruttamento agricolo – era altrettanto suggestivo e primordiale del Pamir o dell’Artico.
Il mio interesse per Baker era nato dall’incontro con Il falco pellegrino, il libro in cui raccontava dei suoi dieci anni di caccia al falco, acclamato come capolavoro fin dalla sua uscita nel 1967. L’avevo letto e riletto molte volte, per la bellezza fiera e selvaggia racchiusa nelle sue pagine. Faceva volare in alto la mia immaginazione, e la teneva lassú.
Tra le ragioni che spinsero Baker sulle tracce dei falchi pellegrini c’era la paura che si estinguessero. Negli anni Cinquanta il tremendo impatto dei pesticidi sulla popolazione avicola della Gran Bretagna si manifestò in tutta la sua evidenza. Nel 1939 vivevano nel paese settecento coppie di falchi pellegrini; uno studio del 1962 mostrò che si erano ridotte della metà e che solo sessantotto sembravano aver cresciuto con successo la prole. Anche gli sparvieri erano quasi scomparsi. Baker doveva essersi convinto che falchi e sparvieri si sarebbero estinti a causa di quello che chiamava «il polline sordido e insidioso dei prodotti chimici per l’agricoltura». «Ricordo quelle giornate d’inverno, – scriveva a proposito degli anni prima della guerra, – quei campi gelati rossi di falchi guerrieri [...]. È triste che non debba essere piú cosÃ. [...] Le antiche nidiate stanno morendo»2.
In quegli anni incombeva la rovina anche sull’organizzazione medievale delle zone rurali dell’Essex, drasticamente rimodellato sulla base delle esigenze del settore agroindustriale. Per ampliare i campi aperti si era proceduto allo sradicamento delle siepi. Migliaia di boschetti e folti d’alberi erano stati rasi al suolo e molti degli antichi sentieri erano stati reinterrati a fini agricoli, al pari delle vie cave meno profonde. Fiumi e torrenti schiumavano di tensioattivi ed erano ostruiti dalle alghe, che nell’azoto rilasciato dai fertilizzanti proliferavano rigogliose.
Per Baker la diminuzione dei rapaci e i guasti inferti all’ambiente erano quasi insopportabili. Unica sua consolazione era seguire i falchi pellegrini. La passione si fece ossessione. In mezzo ai campi abbracciava la natura selvaggia: poteva attraversare lo specchio e inoltrarsi nel mondo piú in là . E dimenticare in quel mondo che anche lui era malato. Baker soffriva di una grave forma di artrite deformante, soprattutto alle braccia e alle gambe. Gli era sempre piú difficile tenere in mano la penna o stringere il binocolo, con quelle dita ritorte, serrate su se stesse. Con quelle mani che diventavano artigli.
Mezzo secolo dopo ero approdato al territorio di caccia di Baker. Volevo seguire alcune piste che aveva calcato, esplorare quella contea sulle orme dei suoi passi, attraverso i suoi occhi. E vedere se in quel mese di migrazioni sarei riuscito a trovare la mia strada in quel mondo piú in là che era stato il suo. Avevo pensato di partire dall’interno boscoso della regione e di dirigermi verso la costa, dove migliaia di uccelli migratori – pettegole, piovanelli pancianera, gabbiani di vario genere – sarebbero calati sulle piane di marea.
Prima della partenza avevo tirato fuori alcune copie delle mappe dell’Essex pubblicate nel 1950 dall’Ordnance Survey – l’istituto cartografico nazionale britannico – per confrontarle con le edizioni attuali e valutare i cambiamenti avvenuti. Il raffronto parlava chiaro: le aree boschive si erano ritirate, le città si erano dilatate, i campi si erano estesi. Ciò nonostante esistevano ancora centinaia di ettari di foresta autoctona: boschi di frassini, aceri e noccioli nel Nordovest, di tigli e piccoli olmi nel Centronord, di carpini bianchi nel Sud. Questa distribuzione risaliva per la maggior parte al Medioevo. Esaminando le mappe recenti, un nome su tutti aveva attirato la mia attenzione: «The Wilderness», un’area di bosco a latifoglie che come un groviglio allungato e sottile si estendeva a est dell’antico villaggio di Woodham Walter. Sapevo che nella sua caccia ai falchi pellegrini Baker era passato di lÃ.
Lasciai l’auto vicino al cancello di Falconer’s Lodge e mi incamminai verso The Wilderness lungo sentieri che costeggiavano campi arati di fresco e si infilavano tra piccoli boschetti. Le siepi erano ancora cariche di frutti: paffute more di rovo e dure bacche di biancospino, di un arancione che volgeva al rosso. Il profumo di frutta matura e zolle smosse riempiva l’aria. Mangiai qualche manciata di more. Sul palo di un recinto una vanessa atalanta dischiuse le ali come un libro aperto. Le siepi erano imbracate di ragnatele, che mi rammentarono gli angoli della casa di Roger. Al centro delle tele stavano i grossi ragni femmina: enormi creature di un colore fulvo brunito, ricordo inatteso di Rannoch Moor.
The Wilderness si trovava a neanche un chilometro dalla strada. Dopo pochi minuti, svoltato l’angolo di una siepe, imboccai una pista appena visibile all’ombra di una galleria di vecchi sambuchi, che conduceva al bosco come un passaggio segreto.
Sul ciglio della selva vidi ai miei piedi una preda morta: un colombaccio riverso sul dorso, le due ali spiegate a ventaglio, sul petto un cuscino scoppiato di piume. Diverse penne caudali avevano i rachidi recisi a metà : l’aveva ucciso una volpe, non un rapace. Un falco pellegrino o uno sparviero avrebbero lacerato il petto; il pellegrino avrebbe spezzato lo sterno, lo sparviero l’avrebbe estratto a beccate.
Passai oltre e mi addentrai nel bosco, superando altri gruppi di sambuchi e antichi tronchi ceduati di sicomori e noccioli. Liberi da ogni freno, questi alberi avevano dato vita a boschetti di pali verticali alti una decina di metri, che tremavano fin sulla punta quando passando ne urtavo la base. Il rozzo sentiero si dissolse dopo pochi metri lasciandomi in una selva fitta. Stracciai altre ragnatele con il dorso della mano e proseguii scavalcando tronchi caduti e rami dispersi.
Nel giro di pochi minuti mi trovai cosà immerso nel bosco da orientarmi a stento. Tra i rami filtrava una pallida luce. I bubolii felpati delle colombelle riempivano l’aria. Camminavo il piú adagio possibile, per non far scrocchiare i rametti secchi, ma i colombacci continuavano a sbatacchiare le ali fuggendo tra le cime degli alberi. Da piú lontano mi giunse un gracchiare di corvi, intenti probabilmente a becchettare in uno dei campi dissodati che orlavano The Wilderness. Sui rialzi del terreno e tra le radici degli alberi c’erano centinaia di tane e in alcuni punti il suolo argilloso era stato levigato dal passaggio di zampe animali: tassi, conigli, volpi. Dappertutto c’erano cadaveri di uccelli – ne contai una dozzina, prima di lasciar perdere.
Arrivai a un avvallamento, una sorta di canalone o di fossato dalle sponde scoscese che si allungava curvandosi verso destra, profondo grosso modo cinque metri e largo dieci. E lÃ, inaspettatamente, semisepolto nel marrone del suolo, vidi un muro di mattoni rossi sporgere dall’argine. Scesi per il ripido pendio di una sponda e risalii da quella opposta fino alla parte visibile della costruzione: non piú di un centinaio di mattoni piatti e sottili, ma era evidente che avevano fatto parte di una struttura di dimensioni considerevoli. I mattoni si stavano sgretolando, tornando cosà al terreno argilloso con cui in origine erano stati fabbricati. Mi misi in tasca un coccio piatto a forma di romboide.
Quel luogo racchiudeva un mistero che non sapevo sciogliere: il suo nome, i mattoni nel cuore del bosco selvaggio, gli alberi ceduati. Pensai di dare un’occhiata dall’alto. Trovai un gruppo di robusti sicomori cedui: sei tronchi privi di rami laterali, ma vicini quanto bastava per arrampicarmi su uno appoggiandomi agli altri. Erano privi di foglie tranne che in cima, dove si aprivano lateralmente in una tremula chioma verde; mentre salivo mi sembrava di scalare la colonna di uno spruzzo di balena.
Per due anni io e Roger avevamo avuto lunghe discussioni sulle virtú di scalabilità delle diverse specie di alberi. I voti di Roger andavano al carpino bianco, «il piú robusto di tutti, e che con meno probabilità di ogni altro ti fa cadere per un ramo marcio», e alla quercia, «non fosse per la sua recente tendenza al disseccamento della chioma». «In fondo alla lista, – aveva detto, – metto il salice fragile». I miei campioni, naturalmente, erano il faggio e la betulla, mentre uno sfortunato incidente provocato da un ramo spezzato mi aveva reso inviso il pioppo. Concordavamo ammirati, invece, con la valutazione degli alberi proposta nel Barone rampante da Italo Calvino, che evidentemente sull’argomento aveva condotto in prima persona serie ricerche empiriche. A Cosimo, scriveva Calvino, piaceva scalare soprattutto i lecci e gli olivi, «piante pazienti e amiche, nella ruvida scorza, per passarci e per fermarvisi», e il fico, che «ti fa suo, t’impregna del suo umore gommoso, dei ronzii dei calabroni», a tal punto che «a Cosimo pareva di stare diventando fico lui stesso», e anche il noce, con il suo ramificarsi sterminato, come «un palazzo di molti piani e innumerevoli stanze [...]; tant’è la forza e la certezza che quell’albero mette a essere albero, l’ostinazione a esser pesante e duro, che gli s’esprime persino nelle foglie». Non si fidava, invece, di olmi e pioppi, «perché i rami vanno in su, esili e folti, lasciando poco varco», e neppure dei pini, che con le loro «impalcate vicinissime, non forti e tutte fitte d’aghi, non lasciano spazio né appiglio». Andavamo tutt’e due matti per la descrizione delle notti passate da Cosimo tra le fronde,
ad ascoltare come il legno stipa delle sue cellule i giri che segnano gli anni nell’interno dei tronchi, e le muffe allargano la chiazza al vento tramontano, e in un brivido gli uccelli addormentati dentro il nido ricantucciano il capo là dove piú morbida è la piuma dell’ala, e si sveglia il bruco, e si schiude l’uovo dell’averla3.
In piú di un’occasione avevamo parlato di tentare la traversata aerea di un bosco. Roger si era anche documentato sulla brachiazione e in una lettera mi aveva informato delle sue scoperte. La brachiazione, spiegava, è il particolare adattamento evolutivo che permette alle articolazioni delle braccia di oranghi, gibboni e scimpanzé di ruotare in ogni direzione e sostenere il dondolamento del corpo appeso. È questa capacità che distingue le scimmie antropomorfe dal resto dei primati. Oscillando e muovendosi rapid...