Il cuore non si vede
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Il cuore non si vede

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il cuore non si vede

Informazioni su questo libro

Una mattina, dopo sogni inquieti, Andrea Dileva si sveglia senza cuore. Non è morto, certo, ma forse non è vivo. Semplicemente sta scomparendo sotto gli occhi severi e distratti delle (troppe?) donne che gli stanno intorno. Perché siamo fatti di legami oltre che di tendini, muscoli e ossa. Di allegrie immotivate, mancanze, ferite, amori imperfetti.Andrea Dileva, quarantenne, studioso, curioso, professore di greco, si sveglia un giorno senza il cuore. Laura vive con lui, è abituata alle sue mancanze, ma questa proprio non se l'aspettava. Carla in teoria sarebbe la sua amante, ma a casa ha un cane, un bimbo, un marito, e poi con il corpo di Andrea ha sempre avuto un rapporto difficile, in fin dei conti le va bene anche cosí. Forse Simone avrebbe la fantasia per capire com'è che l'amico di mamma sta perdendo i pezzi, d'altronde è stato proprio lui a raccontargli storie di leviatani giganti e donne con la coda di pesce. Ma Simone ha otto anni e nessuno ha chiesto il suo parere. Andrea cerca dappertutto una storia che assomigli alla sua, senza trovarla: eppure era convinto che la mitologia fosse l'archetipo di ogni cosa. Certo, se l'umanità intera ha il terrore di morire, deve prendere atto che per lui è diventato impossibile. Come può smettere di battere un cuore che non c'è piú? Chiara Valerio racconta con una leggerezza rara le metamorfosi delle relazioni e la loro meccanica involontaria. Se la storia di un uomo che scompare scintilla di ironia e passione, questa è l'occasione della letteratura.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806242220

Il cuore non si vede

Io godo di ottima salute.
Ho tirato fuori il fegato,
ho estratto i polmoni,
ho estirpato il cuore
e non mi fa piú male nulla.
Tramutarsi in fantasma
è una soluzione
che vi raccomando freddamente.
NINA CASSIAN, Infestazione
Vorrebbe piangere. Invece la brevità,
il dissolversi lo rallegrano.
FLEUR JAEGGY, Sono il fratello di XX
Una mattina, dopo sogni inquieti, Andrea Dileva si era svegliato nel suo letto, senza il cuore.
La sveglia suonava, la luce del giorno cresceva, i muri crepitavano di altri risvegli, su altri piani, sopra e sotto, ma lui e Laura continuavano a tenere gli occhi chiusi. Con le magliette di Harvard e senza mutande, si godevano la nudità sí ma con le spalle coperte dei loro quarant’anni. Non erano mai andati a Harvard peraltro. Nonostante entrambi avessero fatto ottimi studi.
Ma tutto questo, come altre mattine, non sarebbe stato detto e nemmeno pensato se Laura, i cui capelli gli solleticavano il naso inducendogli un sorriso, non fosse scattata a sedere con le gambe incrociate, come punta da un insetto. Andrea aveva inclinato la testa per seguire la carne bianca delle cosce correre verso l’oscurità umida e riccia, ondeggiante, che lo riportava ora sugli scogli assolati dove saltava da bambino. E tra i quali si aprivano fessure bordate di alghe e concrezioni oltre cui si sentiva il rumore del mare. In quei pomeriggi di corse avvertiva i compagni meno esperti di stare attenti, perché piú di qualcuno ci rimaneva incastrato con tutta la gamba. Gridava apprensivo No, fermatevi, chissà cosa c’è dentro. A distanza di anni sapeva che quando non sai cosa c’è dentro, c’è acqua.
Senza chiederle la ragione dello scatto, aveva allungato la mano, e Laura, con un altro scatto, anzi un salto, era scesa dal letto e si era messa spalle al muro. Ma non come i ragazzi, con aria spavalda, la pianta di un piede appoggiata in verticale e l’altra a terra, o le ragazze seduttrici, con le mani incrociate dietro la schiena all’altezza delle reni. Laura si era messa con le spalle al muro rivolgendo i palmi ben aperti alla parete, le braccia spalancate come le zampe di un geco. I gechi le facevano paura, e anche questo gli piaceva di lei. Qualcuno gli aveva raccontato che i gechi, che paiono appiccicati ai soffitti e alle pareti come figurine adesive – quante volte lo aveva fatto sulle porte dei bagni della scuola, anche con quegli adesivi spugnosi, spessi, che regalavano col sapone liquido a metà degli anni Ottanta e che lui spesso rubava, mentre la madre faceva la spesa –, i gechi, insomma, che paiono attaccati, in realtà vibrano velocissimi. Sono le vibrazioni che li tengono accosti come ventose a pareti, angoli e soffitti. Fermi e vibranti, come in effetti pareva Laura. Forse la storia delle vibrazioni era vera. Sul volto di Laura, intanto, uno sguardo sconcertato e interrogativo aveva trasfigurato l’allegria del risveglio, e la confidenza della seminudità aveva sottolineato quanto fosse spaventoso – per quello che aveva rilevato – il peso della testa sul torace. Sul volto di Laura, Andrea leggeva paura. E disappunto. La seminudità è terribile, è impossibile da condividere, ognuno è seminudo a modo proprio.
Cosí prima aveva sorriso, e poi sbuffato. Non amava svegliarsi e dover sbattere contro l’evidenza che qualsiasi relazione umana è, per la maggior parte del tempo, un improponibile baratto tra il terrore di restare soli e la gioia della condivisione, uno scambio iniquo tra il proprio tempo, che è il proprio modo di essere, e la natura umana, che è dividerlo con gli altri. Perché a Laura piaceva tanto discutere appena sveglia? Aveva ancora sbuffato, ma piú discretamente, per non inasprire la situazione. Glielo aveva insegnato il padre, uno dei pochi suggerimenti da maschio a maschio nei quali si era arrischiato. Quando una donna vuole discutere, lascia perdere, avrà sempre piú fiato di te, è costituzionale, sono piú tenaci.
La nonna, la madre, nessuna delle due, quale donna gli aveva detto Uno è quello che è la maggior parte del tempo?
Perciò, quando Laura aveva sottolineato con un singhiozzo la postura del terrore, Andrea aveva voltato le spalle e infilato la testa sotto al cuscino. E grazie a quella semplice efficace magia appresa nell’infanzia – piú forte, perché precedente ai consigli del padre, intuitiva per giunta –, grazie a quella semplice magia, Laura era sparita e con lei la luce del giorno, i vicini nei muri, il trillo della sveglia, dunque le urgenze, dunque la giornata, dunque le persone con le quali avrebbe dovuto parlare, a partire dalla donna verso le cui gambe aveva allungato una mano cosí da avere, per pochi secondi, l’impressione di riportare indietro il tempo, alla sera prima, quando avevano fatto l’amore. Perché e quando avevano deciso di dipingere quell’unica parete grigio canna di fucile? Il cuscino sulla testa sconfiggeva i mostri, chiudeva le discussioni, eliminava le responsabilità.
Poi, rinvigorito, era saltato in piedi urlando Cucú, allegro, nonostante i suoi genitali dondolassero, sfiorando una volta una coscia una volta l’altra e costringendo la sua attenzione da lei a loro. Ma lei e loro non erano poi cosí distanti, non lo erano da anni, e dunque guardare il suo cazzo invece che lei non era una disattenzione vera e propria. Laura però non aveva smesso di fissarlo, restava appiccicata al muro vibrando come un geco, non aveva cambiato espressione. Giocava forse a Un-due-tre-stella? Il problema era che lui giocava a Cucú-settete e lei a Un-due-tre-stella e dunque nessuno avrebbe vinto, nessuno avrebbe perso e sarebbero rimasti cosí per sempre? Avere una relazione significa giocare allo stesso gioco?
A quel punto Laura aveva sussultato Andrea non ti batte il cuore, e lui, quasi fosse stato pugnalato, si era portato una mano al torace, dove prima c’era stata, come molte altre mattine, la testa di lei, pensando, con tutto il cuore – espressione che a quel punto della giornata aveva ancora un senso proprio e lato, e da quel punto in poi non l’avrebbe avuto piú –, pensando, insomma, con tutto il cuore, di risponderle Perché sei lontana, non mi batte il cuore perché sei lontana. Sperando forse, con tutto il corpo, che lei saltasse sul letto e poi su di lui, o lui su di lei. Si era portato una mano al torace e raddrizzando le spalle aveva piegato la testa da un lato per tendere l’orecchio ma l’unico suono registrato era stato il fischio delle pupille che si dilatavano, come in una visita oculistica, e aveva sussurrato – una confessione, incredula, un allarme, incerto – Non mi batte piú il cuore.
E Bum! Laura era svenuta. Era scivolata a terra, seguendo il muro, un burattino cui qualcuno avesse tagliato i fili. Andrea aveva aspettato che si fermasse, poi invece di correre da lei era corso ad aprire l’anta dell’armadio, entrambe le ante, su ciascuna delle quali era fissato uno specchio a figura intera, e aveva cominciato a guardarsi di fronte e alle spalle, e si era sentito stupido con la maglietta e senza mutande. Odiava essere seminudo. Si era sfilato la maglietta, l’aveva lanciata lontano ed era rimasto nudo in mezzo a un numero indefinito di copie di sé, una spiaggia di nudisti tutti uguali, senza riuscire a stupirsi della moltitudine, come faceva da bambino, e fino a ieri a dirla tutta. Guardando sé stesso e le sue repliche ripeteva Impossibile essere tutti senza cuore, come se la quantità infondesse certezza e forza, e d’altronde in attesa di vedere lui o una delle repliche afflosciarsi. Qualcuno, in quella galleria, doveva essere coerente e smettere di respirare, camminare, parlare senza il cuore. E di fare sesso anche. Se Laura non si fosse spaventata, avrebbero fatto l’amore? Come la sera prima, come altre mattine, nonostante fossero in ritardo e senza baciarsi perché il sonno soffia odore di fiori marci anche tra i denti sani? Non avere piú il cuore era un motivo sufficiente per annullare un appuntamento lo stesso giorno dell’appuntamento? Senza cuore, avrebbe potuto andare dal dentista, per la carie sul terzo molare? Sollevato al pensiero che, chissà per quale olistico motivo, fosse scomparsa pure la carie sul terzo molare, aveva spalancato la bocca come un cavallo in una fiera. Ma la carie stava lí, nera come un’assenza.
Che cosa mi sta succedendo, ripeteva e si guardava e riguardava, e scrutava le repliche davanti e alle spalle e scorgeva altre infinite spalle sempre piú piccole e aguzzava la vista come se una di quelle figure, laggiú, grandi quanto il cuore di un uomo, potesse rivelargli che fine avesse fatto il suo, semplicemente per una faccenda di proporzioni. Poi si era ricordato di Laura svenuta e aveva smesso di interrogarsi, l’aveva presa in braccio e l’aveva sistemata sul letto con la testa su due cuscini. Era andato in cucina a prenderle un bicchiere d’acqua. Con la testa tra due guanciali era il modo in cui il nonno gli faceva notare che gli era capitata un’infanzia comoda. Andrea immaginava le infanzie come magazzini di cuscini.
Laura, come molte quarantenni, cominciava la giornata con un bicchiere di acqua tiepida e limone, ma Andrea poteva sopportarlo, prima che passasse all’acqua d’argilla filtrata, poteva tollerarlo, o a quella di curcuma (che comunque senza il pepe nero non serve a niente). Era naturalmente contrario a tutto ciò che diventava moda. Disprezzava il servilismo logico e scaramantico alle ipotesi di vita sana. Non aveva voluto lo zaino Invicta quando tutti lo avevano (eppure gli piaceva molto), non aveva voluto il Barbour quando tutti l’avevano (eppure gli piaceva e infatti, quando tutti avevano smesso di portarlo, ne aveva comprati due, uno verde e uno blu), non aveva nemmeno voluto prendere la patente quando la prendevano tutti, col foglio rosa in tasca sei mesi prima di compiere diciotto anni e l’esame il giorno del compleanno, quindi, nei confronti dell’acqua e limone (gli piaceva moltissimo), manteneva la stessa posizione. Tutto questo, ne era conscio, lo sospingeva verso il conformismo dell’anticonformismo, ma non era il momento per preoccuparsene visto che si era svegliato senza il cuore. Forse, rifletteva, l’acqua e limone è una di quelle cose di cui non mi preoccuperò mai piú. Seduto nudo sul letto, osservava uno a uno i peli pubici di Laura senza avere intenzione di contarli ma in realtà facendolo – era arrivato a quarantatre, per continuare avrebbe dovuto allungare le dita e separarli, ma teneva in mano il bicchiere di acqua e limone –, seduto sul letto, si era ricordato di Indiana Jones. Indiana Jones alle prese con un gruppo di indiani indiani che sono in grado di strappare il cuore lasciando in vita la vittima. Ricordava tutti i passaggi. Formula magica incomprensibile. Mano all’altezza del cuore. Cuore nella mano. Pelle richiusa come plastilina. Terrore negli occhi della vittima, soddisfazione sadica negli occhi di quello col cuore in mano. La vittima rimaneva in vita per un tempo assai breve, un tempo che, per quanto lo riguardava, era già trascorso. Ascoltava il respiro pesante di Laura. Con cautela, si era portato il bicchiere davanti alla bocca e aveva alitato. Il bicchiere si era appannato, dunque respirava ancora. Si era sentito sollevato. Laura, l’aveva chiamata, prima in un sussurro, poi piú forte, Laura, Laura, e lei aveva aperto gli occhi e si era messa sui gomiti e quel movimento le aveva fatto tendere gli addominali. Andrea aveva seguito la maglietta incresparsi come il marmo nel Cristo velato a Napoli e si era ricordato delle cose di cui poteva parlare con lei – il conformismo dell’anticonformismo no, per esempio –, Laura, ti ricordi il film di Indiana Jones dove gli indiani indiani estirpano il cuore dei malcapitati che però rimangono in vita?, Non è il mio film di Indiana Jones preferito, Perché?, Non lo so ma non è il mio preferito, Dài pensaci, Ora?, Forse no, comunque, ti ricordi per quanto tempo rimanevano in vita, senza cuore?, Penso poco, Anche secondo me.
Quanto è poco?
Andrea le aveva allungato il bicchiere e lei aveva bevuto e poi chiesto Che facciamo? Come se il fatto che lui non avesse il cuore riguardasse entrambi, e invece non era un problema loro, era un problema suo. Come quando si era innamorato di Carla e Laura aveva chiesto Che facciamo? E lui si era ingelosito perché la sua passione, il suo essere stato sedotto, Carla stessa, riguardavano lui, non loro. Quella volta le aveva risposto Non è una cosa che ci riguarda, cosí Laura aveva accettato di credere che non ci fosse niente da fare perché ciò che era successo era successo ma sarebbe passato e insomma poteva capitare, e lui aveva detto la verità. Per Andrea era importante la coscienza di aver detto la verità piú della verità stessa. Le parole sono come il gatto di Schrödinger – di che razza è il gatto? –, che sia vivo o morto dipende dal momento, dunque dall’intenzione di chi guarda. Cosí le parole, che dicano una cosa o l’altra, dipendono dall’intenzione di chi ascolta. Senza considerare che le parole – quelle di tutti, mica solo le sue, mica solo le parole degli ossessionati dalle parole –, le parole nascono e crescono nel vizio della sincerità, averla o non averla. Esserlo o non esserlo. Riesserlo, difficilissimo. Come se dire tutto fosse sempre abbastanza, poveri noi. Noi due. Tu e io.
Però, riguardo a che facciamo col cuore, non sapeva che rispondere, cosí aveva compiuto alcune azioni. Si era guardato ancora allo specchio (in uno solo) e si era trovato normale, niente di diverso dal giorno prima o dal mese prima – smettiamo di crescere anche se continuiamo a invecchiare –, niente di diverso nemmeno dall’anno prima. Laura si era massaggiata le tempie, aveva appoggiato il bicchiere sul comodino, si era sfilata la maglietta, l’aveva piegata – dov’era finita la sua? – e aveva detto Passami il reggiseno, con voce nuovamente arrochita dal sonno. Cosí lui era stato riportato al loro quotidiano, a lei che si allacciava il reggiseno nuda con le gambe incrociate sul letto, come gli indiani americani, e che lo guardava un po’ incazzata perché finalmente aveva realizzato che, con o senza un cuore, la giornata doveva cominciare. Andrea aveva capito che la domanda Che facciamo col cuore? era una delle domande che, insieme al colore del muro, sarebbero rimaste senza risposta. Non ho nessuna intenzione di farmi la doccia, aveva chiarito Laura brusca, concentrando sulla doccia tutte le cose che, nel frattempo, quel giorno, le sarebbe stato impossibile non fare. Io sí, io sí, aveva cantilenato Andrea, ma senza convinzione, si era infilato in bagno, aveva aperto il rubinetto e si era incantato sull’acqua che scendeva, sempre un po’ piú calda. La vita era molto migliorata da quando avevano abbandonato lo scaldabagno per la caldaia. Era stata una spesa e poi il buco nel muro e i lavori in una casa in affitto. Però, tutto sommato, l’idea di non dover programmare anche la doccia li aveva alleggeriti. Erano stati giorni felici quelli successivi all’installazione della caldaia. Col cilindro di tufo estratto dal muro avevano fatto un fermacarte, che però si sgretolava lasciando sui fogli un alone di polvere. Laura era entrata in bagno e l’aveva spedito in doccia – ancora solo col reggiseno indosso – Vai cosí faccio pipí, e lui aveva obbedito. Dal centro del bulbo, i getti d’acqua partivano e si allargavano come, alle scuole medie, le linee dei disegni in prospettiva che solo dopo diventavano strade e profili di palazzi. La prospettiva, aveva realizzato, nasceva come forma architettonica in ogni studente delle medie, non solo nei grandi pittori del Quattrocento. Ma non voleva pensarci, adesso. A cosa può o deve pensare uno che ha perso il cuore? Qual è il pensiero giusto, necessario, quello che se non guarisce cura e se non cura consola? Il non poter dire e addirittura pensare la formula «problemi di cuore», a quali semplificazioni o scelte lo avrebbe condotto?
La porta a vetri che si apriva e lasciava entrare Laura nuda – perché aveva cambiato idea? – l’aveva distolto dalla prospettiva, o forse l’aveva cambiata. Lei lo aveva baciato un po’, ma a bocca chiusa. Le labbra di Laura sapevano di limone e Andrea aveva avuto voglia di baciarla di piú, ma lei aveva abbassato la testa e l’aveva appoggiata sul petto, lui aveva sussultato anticipando il sussulto di lei che però non era arrivato. Cosí lei, pensando che lui avesse freddo, lo aveva abbracciato, stretto. Lo scroscio dell’acqua copriva il battito, anzi la sua assenza. Anche lui aveva abbassato la testa e sembrava la pioggia li avesse sorpresi dopo un litigio ma si fossero riappacificati. Invece erano sotto la doccia e lui non aveva piú il cuore.
Sul piatto poi erano rimasti due peli ricci di Laura, Andrea si era chiesto se fossero tra i quarantatre che aveva contato, o no. Lei non gli aveva passato l’asciugamano, come invece faceva sempre, ed era tornata in camera lasciandolo solo a gocciare sul tappetino multicolore che non gli era mai piaciuto ma ormai ci si era abituato. Il reggiseno era rimasto nel bidet. Delle cose che gli piacevano o non gli piacevano, avrebbe dovuto ancora occuparsi? Che percentuale di invalidità viene attribuita a una persona che, in un incidente, probabilmente domestico, ha perso il cuore?
Una questione oscura. La figura buia acquattata di solito sotto al letto, o stesa nel mezzo del salone, che lanciava agguati o gracchiava, immobile come un gargoyle, ai piccioni che gli volavano davanti, il gatto tanto nero da contenere la propria ombra, con occhi gialli e concentrici di civetta, nonostante il trambusto, non si era manifestato. Sinuoso, silenzioso, quasi camminasse sulle pattine ma senza l’aria molle della pantera da salotto, strisciante piuttosto come certe qualità di rosmarino, era sceso dal soppalco, incuriosito dal tintinnio delle chiavi nella toppa. Ci vediamo stasera, aveva avvertito Laura, prima il gatto, poi lui, guardandolo però con piú incertezza del solito, o forse era speranza. Andrea si era chiesto se, nella scala delle insicurezze di lei – anche quelle rimpiccolivano nella galleria del tempo come i suoi replicanti negli specchi? –, si era chiesto se nella scala delle insicurezze di lei fosse piú grande la colpa di aver perso il cuore o quella, commessa anni prima, di aver perso la testa per Carla. Non aveva mai smesso di vedere Carla, anche se le cose erano cambiate. Non posso significa non voglio, gli aveva detto sua nonna quando continuava a fare no con la testa davanti al piatto di riso e scarola ripetendo Non posso mangiarlo non posso mangiarlo e dondolava le gambe magre sotto il tavolo sperando che, come in un cartone animato di Willy il Coyote, il movimento lo sollevasse dalla sedia, e lo facesse volare via oltre la finestra e poi oltre e basta senza mai piú essere costretto a mangiare riso e scarola, o altre cose verdi e bianche. Non voglio smettere di vederla si ripeteva, mentre con i boxer a righe verdi e bianche – boxer che aveva anche lei perché i boxer usati come pantaloncini le piacevano, e a lui piaceva che a lei piacessero e a lui piaceva lei che li indossava, e a lei che a lui piacesse –, mentre con i boxer a righe verdi, cercava il cellulare per avvertirla che aveva perso il cuore, ma certo che Carla gli avrebbe detto, un po’ canzonandolo, un po’ no, Che dici?, è impossibile!, e se avessi perso il cuore come potresti essere al telefono? Quasi che il telefono fosse una prova ontologica. Ci aveva pensato prima di chiamare Carla, già cominciando a irritarsi per il tono della conversazione a venire. Perché Carla avrebbe risposto esattamente cosí. Carla riusciva a immaginarla, Laura, invece, che rimaneva zitta fino al mutismo, restava imprevedibile. D’altro canto, se Laura era preoccupata che lui non avesse piú il cuore, perché era andata al lavoro? Se Laura si fosse davvero preoccupata della sbandata per Carla, perché gli aveva creduto quando le aveva risposto Non ci riguarda? Quando era nervoso, si calmava attribuendo a Laura una mancanza di cura che aveva l’aspetto recriminatorio della proiezione. Sei tu che te ne vai, non attribuirmi anche questa lontananza. Lo aveva detto davvero Laura o avrebbe voluto che lo dicesse? Però bisogna pur cominciare la giornata e cosí si era infilato la camicia, i pantaloni, i calzini, il gilet – un regalo di Carla – e le scarpe, si era seduto sul letto per allacciarle e aveva poggiato le mani aperte sulle ginocchia e cominciato a guardarsi intorno per capire dove fosse finito il telefono. La maglietta di Harvard non era sotto il letto, aveva approfittato dei lacci delle scarpe per controllare e poi, nonostante non fosse piú un bambino, lo rallegrava mettere il mondo sottosopra. Il gatto nero lo guardava, con gli occhi fissi, senza miagolii o fusa. Senza speranza, gli veniva da dire e non sapeva perché. Gli aveva teso la mano di modo che si avvicinasse e si facesse accarezzare, ma Corteccia aveva soffiato e in un attimo la coda era diventata quella di un procione, aveva inarcato la schiena e soffiato ancora. Non c’era la maglietta, non c’era il telefono, non c’era il cuore e non c’era nemmeno il suo gatto perché la bestia selvaggia che aveva davanti non era Corteccia. Anche sottosopra, la parete rimaneva grigio canna di fucile e sempre tornava la domanda Chi lo ha scelto?, e se non sapeva rispondere a quella semplice, semplicissima domanda, come avrebbe potuto rispondere alla scomparsa del suo cuore? Irritato, aveva pestato un piede sul parquet e il gatto era scappato nella sua cesta. Mentre si voltava a destra e a sinistra in cerca del telefono, quello aveva squillato, cosí trovandolo e prendendolo aveva letto Carla. E subito se l’era figurata sorridente. I capelli raccolti, il passo slanciato, gli occhi chiari oltre gli occhiali rossi, i pantaloni corti sulla caviglia, la camicia coi polsini aperti, la borsa di pelle lisa con dentro un piccolo quaderno a righe, i soldi nelle tasche e le scarpe basse, che lo aspettava al di là della strada, un po’ impaziente, e sotto tutti gli abiti e i modi e la voce, si era immaginato Carla nuda. La vita sottile cinta dall’elastico, la pancia piatta – non aveva gli addominali che increspavano i vestiti come Laura – e i seni liberi, perché Carla non sopportava costrizioni e odiava il pizzo. E poi aveva immaginato ancora i seni che un po’ le si appoggiavano sul costato e cosí, paralleli e intensi, parevano occhi che lo guardavano, e lo invitavano, e l’ombelico un naso e poi sotto. Sotto c’era sotto. Altra acqua, a questo aveva pensato vedendo il nome di Carla sul telefono, prima di rispondere Ehi, e lei Ciao. E con o senza cuore, nemmeno quel tono allegro e quella attesa erano cambiati. E quindi, a che serviva il cuore?
A ricordare. Il giorno che l’aveva incontrata, Carla portava i capelli legati in una piccola coda. Una coda da bambina. Di quelle che le madri legano in fretta perché non bisogna sudare e comunque è importante essere in ordine. Le madri italiane, a partire dalla sua, hanno l’ansia dell’ordine. O il mito, o l’orizzonte. La madre voleva, per Cristina sua sorella, i capelli sí lunghi ma legati in una coda di cavallo quando era in classe. A scuola devi andare in ordine, o devi essere in ordine, utilizzo dei verbi che gli aveva procurato fin dai primi anni un errore di sinonimia tra essere e andare e dunque tra stare e andare, dubbio che, ancora, persisteva nella sua vita sentimentale. Tra stare con Laura e andare con Carla, che differenza c’era? Per l’episodio dei capelli, forse per una voglia di rivoluzione che riguardava sempre questioni prive di interesse e che ormai non si vergognava piú ad assimilare al capriccio, per quell’episodio insomma, la coda di Cristina, Andrea aveva sempre guardato le donne con i capelli sciolti come la prima, forse inevitabile, sentina di di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il cuore non si vede
  4. In memoria
  5. Il libro
  6. L’autrice
  7. Della stessa autrice
  8. Copyright