Conversazione nella «Catedral»
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Conversazione nella «Catedral»

  1. 742 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Conversazione nella «Catedral»

Informazioni su questo libro

Santiago Zavala - giovane giornalista della «Crónica» che tutti chiamano Zavalita - torna a casa dal lavoro e trova la moglie in lacrime: le hanno strappato di mano il cagnolino Batuque. Zavala lo va a riprendere al canile e il destino gli fa trovare, fra i dipendenti di quel luogo che sembra piuttosto un macello, Ambrosio, per molti anni autista di famiglia. Insieme vanno a bere una birra a «La Catedral», sordido locale di periferia, e dal loro dialogo viene fuori un'immagine globale della società di Lima - ma anche peruviana, e latinoamericana - negli anni Cinquanta e Sessanta. Pubblicato nel 1969, Conversazione nella «Catedral» è un romanzo dalla costruzione articolata e travolgente, in cui le inquadrature sono «montate» in successione martellante, come in un film d'azione: un vero e proprio affresco storico.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806195762

Libro primo

I.

Dalla porta de «La Crónica» Santiago guarda l’avenida Tacna, senza amore: automobili, edifici disuguali e scoloriti, scheletri di pubblicità luminosa che ondeggiano nella nebbiolina, il mezzogiorno grigio. In che momento si era fottuto il Perú? Gli strilloni, infilandosi tra i veicoli fermi al semaforo della calle Wilson, gridano i titoli dei giornali del pomeriggio, e lui comincia a camminare, piano, verso la Colmena.
Le mani in tasca, la testa bassa, cammina scortato da passanti che avanzano, anche loro, verso la plaza San Martín. Lui era come il Perú, Zavalita, a un certo punto si era fottuto. Pensa: in quale? Davanti all’hotel Crillón un cane viene a leccargli i piedi: mica sarai rabbioso, pussa via. Il Perú fottuto, pensa, Carlitos fottuto, tutti fottuti. Pensa: non c’è soluzione. Vede una lunga coda alla fermata dei taxi collettivi diretti a Miraflores, attraversa la plaza ed ecco lí Norwin, salve fratello, a un tavolo del bar Zela, siediti Zavalita, ha in mano un chilcano1 mentre si fa lucidare le scarpe, gli offre da bere. Non sembra ancora sbronzo e Santiago si siede, fa un cenno al lustrascarpe che le lucidi anche a lui. Subito capo, agli ordini capo, brilleranno come specchi capo.
– Secoli che non ti si vede, signor editorialista, – dice Norwin. – Sei piú contento adesso con l’editoriale o prima con la cronaca?
– C’è meno da lavorare, – alza le spalle, magari era stato quel giorno quando il direttore lo aveva chiamato, ordina una Cristal gelata, voleva prendere il posto di Orgambide, Zavalita? Lui era stato all’università, avrebbe potuto scrivere editoriali, vero Zavalita? Pensa: è lí che mi sono fottuto. – Arrivo presto, mi dànno il mio tema, mi tappo il naso e in due o tre ore, pronto, tiro la catena ed ecco fatto.
– Io non farei editoriali nemmeno per tutto l’oro del mondo,– dice Norwin. – Vivi separato dalla notizia e il giornalismo è notizia, Zavalita, credimi. Io morirò nella cronaca nera e basta. A proposito, Carlitos è poi morto?
– È ancora in clinica, ma presto lo dimetteranno, – dice Santiago. – Giura che questa volta smetterà di bere.
– È vero che una notte mentre stava per infilarsi nel letto ha visto scarafaggi e ragni? – dice Norwin.
– Ha sollevato il lenzuolo e gli sono piombati addosso migliaia di tarantole, di topi, – dice Santiago. – È scappato in strada tutto nudo, urlando come un matto.
Norwin si mette a ridere e Santiago chiude gli occhi: le case di Chorrillos sono cubi con inferriate, caverne screpolate da terremoti, l’interno brulica di cianfrusaglie e di vecchiette polverose e putride, in ciabatte, con le varici. Una sagoma corre tra i cubi, le sue urla fanno fremere l’alba oleosa e aizzano le formiche, i ragni e gli scorpioni che la inseguono. Il rifugio nell’alcol, pensa, contro la morte lenta i diavoli azzurri2. Ben fatto, Carlitos, ci si difende dal Perú come si può.
– Quando meno me l’aspetto vedrò anch’io le bestioline –. Norwin osserva con curiosità il suo chilcano, fa un mezzo sorriso. – Ma non esistono giornalisti astemi, Zavalita. La bottiglia ispira, credimi.
Il lustrascarpe ha finito di pulire le scarpe di Norwin e ora passa a lucidare quelle di Santiago, fischiettando. Come andavano le cose a «Ultima Hora», cosa si raccontavano quei bricconi? Si lamentavano della tua ingratitudine, Zavalita, mai che venisse a trovarli qualche volta, come prima. Adesso poi che avevi un mucchio di tempo libero, Zavalita, o ti eri preso dell’altro lavoro fuori?
– Leggo, faccio il sonnellino pomeridiano, – dice Santiago. – Forse m’iscriverò di nuovo a Giurisprudenza.
– Ti separi dalla notizia e vuoi già una laurea, – Norwin lo guarda con compassione. – La prima pagina è la fine, Zavalita. Diventerai avvocato, abbandonerai il giornalismo. Ti sto già vedendo completamente imborghesito.
– Ho trent’anni suonati, – dice Santiago. – Tardi per imborghesirmi.
– Solo trenta? – Norwin rimane assorto. – Io trentasei e sembro tuo padre. La cronaca nera ti massacra, credimi.
Facce maschili, occhi opachi e sconfitti ai tavoli del bar Zela, mani che si allungano verso posaceneri e bicchieri di birra. Brutta la gente di qui, Carlitos aveva ragione. Pensa: cosa mi succede oggi? Il lustrascarpe scaccia a manate due cani che ansimano tra i tavoli.
– Fino a quando tirerà avanti la campagna de «La Crónica» contro la rabbia? – dice Norwin. – Ormai stanno scocciando, anche questa mattina le hanno dedicato un’altra pagina.
– Tutti gli editoriali contro la rabbia li ho fatti io, – dice Santiago. – Bah, per me è meno fastidioso che scrivere su Cuba o sul Vietnam. Bene, ormai non c’è piú coda, vado a prendere il taxi.
– Vieni a pranzo con me, offro io, – dice Norwin. – Dimenticati di tua moglie, Zavalita. Facciamo risuscitare i bei tempi.
Porcellini d’India a scottadito e birra gelata, il «Rinconcito Cajamarquino» di Bajo el Puente e lo spettacolo delle acque pigre del Rímac che scorrono tra rocce color moccio, il caffè terroso dell’Haiti, la partitina in casa di Milton, i chilcanos e la doccia in casa di Norwin, l’apoteosi di mezzanotte nel casino con Becerrita che riusciva a farsi fare lo sconto, il sonno acido e le nausee e i dubbi del risveglio. I bei tempi, può darsi allora.
– Ana ha preparato il chupe3 di gamberi e non voglio perdermelo, – dice Santiago. – Sarà per un altro giorno, fratello.
– Hai paura di tua moglie, – dice Norwin. – Uh, come sei fottuto, Zavalita.
Non per quello che credevi tu, fratello. Norwin si ostina a voler pagare la birra, la lucidatura, e si dànno la mano. Santiago torna alla fermata dei taxi collettivi, il primo libero è una Chevrolet e ha la radio accesa, Inca Cola dissetava meglio, e poi un valzer, fiumi, dirupi, la voce veterana di Jesús Vásquez, era il mio Perú. In centro c’è ancora qualche ingorgo, ma República e Arequipa sono sgombre e l’auto può filare, un altro valzer, le donne limane hanno il tradimento nel sangue. Perché mai tutti i valzer creoli dovevano essere per forza tanto, ma tanto cretini? Pensa: cosa mi sta succedendo oggi? Ha il mento sul petto e gli occhi semichiusi, sta lí come se si osservasse la pancia: caspita, Zavalita, ti siedi e ti vien fuori quel gonfiore nella giacca. Forse fin dalla prima volta che aveva bevuto birra? Quindici, vent’anni prima? Quattro settimane senza andare a trovare la mamma, Teté. Chi avrebbe detto che Popeye si sarebbe laureato architetto, Zavalita, che ti saresti ridotto a scrivere editoriali contro i cani di Lima? Pensa: tra poco sarò un ciccione. Sarebbe andato al bagno turco, avrebbe giocato a tennis al Terrazas, in sei mesi avrebbe bruciato il grasso e di nuovo un ventre piatto come a quindici. Spicciarsi, rompere l’inerzia, scuotersi. Pensa: sport, quella è la soluzione. Il parco di Miraflores, sí, la Quebrada, il Malecón, all’angolo con la Benavides, capo. Scende, si avvia verso calle Porta, con le mani in tasca, a testa bassa, cosa mi succede oggi? Il cielo continua a essere nuvoloso, l’atmosfera è ancora piú grigia ed è cominciata a cadere la pioggerella: zampette di zanzare sulla pelle, carezze di ragnatele. Nemmeno quello, una sensazione ancora piú furtiva e svogliata. Perfino la pioggia era fottuta in questo paese. Pensa: se perlomeno piovesse a catinelle. Chissà cosa davano al Colina, al Montecarlo, al Marsano? Avrebbe pranzato, un capitolo di Punto contro punto che si sarebbe andato illanguidendo e che lo avrebbe portato in braccio fino al sonno viscoso della siesta, se avessero dato un giallo come Rififí, un western come Rio Grande. Ma Ana doveva aver già segnato il suo drammone sul giornale, cosa mi succede oggi. Pensa: se la censura proibisse le messicanate litigherei meno con Ana. E dopo il cinema? Avrebbero fatto un giro lungo il Malecón, avrebbero fumato sotto i parasole di cemento del parco Necochea, ascoltando il ruggito del mare nel buio, sarebbero tornati tenendosi per mano verso la Quinta de los Duendes4, litighiamo molto amore, discutiamo molto amore, e tra uno sbadiglio e l’altro Huxley. Le due stanze si sarebbero riempite di fumo e di odore di fritto, avevi tanta fame, amore? La sveglia all’alba, l’acqua fredda della doccia, il taxi collettivo, la camminata tra gli impiegati lungo la Colmena, la voce del direttore, cosa preferiva, Zavalita, lo sciopero dei bancari, la crisi della pesca, o Israele? Forse sarebbe valsa la pena sforzarsi un po’ e tirare fuori il titolo. Pensa: fare marcia indietro. Vede i muri aspri color arancione, le tegole rosse, le finestrine con le inferriate nere delle casette della Quinta. La porta dell’appartamento è aperta, ma non compare Batuque, vispo, tutto salti, chiassoso ed espansivo. Perché lasci aperta la porta quando vai a fare la spesa, amore? Ma no, ecco lí Ana, cosa ti succede, viene avanti con gli occhi gonfi e piangenti, spettinata: Batuque se l’erano portato via, amore.
– Me l’hanno strappato di mano, – singhiozza Ana. – Dei negri schifosi, amore. L’hanno infilato nel camion. Ce l’hanno rubato, ce l’hanno rubato.
La bacia sulla tempia, calmati amore, le accarezza il viso, com’è successo, l’abbraccia spingendola verso casa, non piangere sciocchina.
– Ti ho telefonato a «La Crónica» e non c’eri, – Ana fa il broncio. – Dei banditi, dei negri con la faccia da galeotti. E io lo tenevo per la catena e tutto. Me l’hanno strappato, l’hanno infilato nel camion, ce l’hanno rubato.
– Mangio e vado al canile a cercarlo, – Santiago la bacia di nuovo. – Non gli succederà nulla, non essere sciocca.
– Si è messo a zampettare, a muovere la codina, – si asciuga gli occhi con il grembiule, sospira. – Sembrava che capisse, amore. Poverino, poverino.
– Te l’hanno strappato di mano? – dice Santiago. – Razza di mascalzoni. Farò uno scandalo tale!
Afferra la giacca che ha gettato su una sedia e muove un passo verso la porta, ma Ana gli impedisce di uscire: prima doveva mangiare qualcosina, amore. Ha la voce dolce, fossette nelle guance, gli occhi tristi, è pallida.
– Ormai il chupe si sarà raffreddato, – sorride, le tremano le labbra. – Con quello che è successo, mi sono dimenticata di tutto, tesoro. Povero il mio Batuquito.
Pranzano senza parlare, sul tavolino accostato alla finestra che dà sul cortile della Quinta: terra color mattone, come i campi da tennis del Terrazas, un sentierino di ghiaia, sinuoso, e ciuffi di gerani ai lati. Il chupe si è raffreddato, una pellicola di grasso orla il bordo del piatto, i gamberi sanno di latta. Stava andando a San Martín a comprare una bottiglia d’aceto, tesoro, e all’improvviso un camion ha frenato accanto a lei e sono scesi due negri con la faccia da banditi, da galeotti della peggior specie, uno le ha dato uno spintone e l’altro le ha strappato la catena e prima ancora di rendersene conto lo avevano già buttato nella gabbia, se n’erano già andati. Poverino, povera bestiola. Santiago si alza: gli autori di quegli abusi lo avrebbero sentito. Come si permettevano di commettere simili arbitrî, gliele avrebbe cantate chiare. Ecco, ecco, Ana si rimette a singhiozzare; anche lui aveva paura che lo ammazzassero, amore.
– Non gli faranno nulla, tesoro, – bacia Ana sulla guancia, un sapore istantaneo di carne viva e di sale. – Te lo riporterò immediatamente, vedrai.
Corre verso la farmacia tra calle Porta e San Martín, chiede di poter fare una telefonata e chiama «La Crónica». Risponde Solórzano, il tizio della cronaca giudiziaria; come cazzo poteva sapere dove si trovava il canile, Zavalita.
– Si sono portati via il suo cane? – il farmacista atteggia un’espressione premurosa. – Il canile si trova dalle parti del Puente del Ejército. Vada subito, a mio cognato hanno ammazzato un chihuahua, una bestiola carissima.
Corre verso calle Larco, sale su un taxi collettivo, quanto costa la corsa da paseo Colón al Puente del Ejército? Conta nel portafoglio centottanta soles. La domenica sarebbero rimasti senza un centesimo, era un peccato che Ana avesse lasciato la clinica, meglio non andare al cinema quella sera, povero Batuque, mai piú un editoriale sulla rabbia. Scende sul paseo Colón, trova un taxi nella plaza Bolognesi, l’autista non sapeva del canile, signore. Un gelataio della plaza Dos de Mayo li indirizza: piú avanti, una targa piccola vicino al fiume, Canile Municipale, era lí. Una grande spianata con attorno un muro malconcio di mattoni crudi color cacca, «il colore di Lima, – pensa, – il colore del Perú», fiancheggiato da capanne che, da lontano, si vanno mescolando e infittendo fino a trasformarsi in un labirinto di stuoie, canne, tegole, lamiere. Un ringhiare soffocato, remoto. Vicino all’entrata c’è un edificio squallido, su una targhetta si legge Amministrazione. In maniche di camicia, con occhiali, calvo, un uomo sonnecchia dietro una scrivania piena di carte e Santiago sbatte un pugno sul tavolo: avevano rubato il suo cane, lo avevano strappato di mano a sua moglie, l’uomo sussulta spaventato, sacramento, la cosa non sarebbe passata liscia.
– Che modo è questo di entrare sacramentando in un ufficio, – il calvo si stropiccia gli occhi stupefatti e fa una smorfia. – Piú rispetto, che diamine.
– Se è successo qualcosa al mio cane la cosa non finisce lí, – tira fuori la sua tessera di giornalista, picchia di nuovo il pugno sul tavolo. – E i tipi che hanno aggredito mia moglie se ne pentiranno, glielo assicuro io.
– Cerchi di calmarsi, – controlla la tessera, sbadigli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La Catedral: trent’anni dopo di Glauco Felici
  4. Conversazione nella «Catedral»
  5. Libro primo
  6. Libro secondo
  7. Libro terzo
  8. Libro quarto
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright