Questo accadeva dodici anni fa. Avevamo diciassette anni, io e Diane, e negli otto o nove mesi del nostro ultimo anno di liceo avevamo anche un’energia, una determinazione, una specie di fame addosso, che ci guidava.
Poi una notte andò tutto in pezzi.
Eravamo a casa mia, anzi a casa di mia madre. Era piccola, strapiena di roba e di animali raccolti per strada, con un perenne puzzo di disinfettante e nessuna possibilità di avere un po’ di privacy. Non c’era una porta che si chiudesse bene, il legno si era gonfiato nelle cornici scadenti e quelle scorrevoli non volevano saperne di stare nei loro binari. Lei però volle dirmelo lo stesso.
Quando avvenne eravamo sedute ai due capi del mio letto e compilavamo un questionario su Amleto. Diane scriveva nella sua grafia meticolosa, con le sue unghie impeccabili e uno di quei maglioncini morbidi come agnelli che sembrava possedere a dozzine. Era una ragazza raffinata, che non avrebbe avuto difficoltà a ottenere un part time come commessa al reparto profumi di un negozio di lusso. Veniva spesso a studiare da me anche se la casa di suo nonno, dove abitava, era grande almeno tre volte la nostra.
Ce ne stavamo là a fare i compiti e a sentire mia madre che ciabattava in camera sua prima d’infilarsi a letto.
Quel giorno Diane era strana già appena arrivata. Ogni volta che leggevo una domanda («Qual è il nucleo profondo della crisi di Amleto?»), mi guardava come se non mi avesse sentita. Aveva l’aria distratta e non faceva che rigirarsi fra le dita il ciondolo che portava appeso al collo, come fosse la lampada di Aladino.
– Diane, – dissi incrociando le gambe e provocando un sommovimento nella montagna di roba che stava ammucchiata sul materasso sottile: cuscini stropicciati, quaderni a spirale tintinnanti, le nostre giacche sportive con l’iniziale della scuola e le sciarpe ruvide che ci eravamo sistemate sulle gambe. – È per quello che è successo in classe stamattina?
Perché qualcosa era successo: Ms Cameron aveva chiesto a Diane di leggere a voce alta il discorso di Claudio, il culmine di tutto il dramma, ma Diane, pallida come il fantasma di Amleto, si era rifiutata di aprire il libro e aveva tenuto lo sguardo fisso di fronte a sé. Quando finalmente si era decisa, le parole le erano uscite di bocca lente come la resina dalla corteccia di un pino o come quello sciroppo per la tosse che mi dava un tempo mia madre e che aveva il sapore di un albero morente. – Diane, Diane, stai bene?
– Non è successo proprio niente, – controbatté voltandosi dall’altra parte e facendo oscillare la lunga frangia bionda come un lampadario dorato sul suo viso da reginetta. – Lo sai che non sono personaggi reali.
Un’affermazione difficile da confutare, e pensai che fosse meglio lasciar perdere. Ma c’era qualcosa nello sguardo di Diane: non mi aveva mai confidato nulla che fosse piú personale della sua opinione sulle borse di studio per il college o sui quesiti piú o meno corretti all’ultimo compito di chimica sui composti ionici.
Lo ammetto: ero curiosa.
– Kit, – disse lei afferrando con piú forza il suo Amleto in edizione tascabile e facendo brillare l’anello d’oro con la scritta JESUS che le aveva regalato suo nonno. – Pensi davvero quello che hai detto oggi a lezione, che Claudio non ha una coscienza?
In quel momento avvertii come qualcosa di pesante che gravava sulla camera, provocando un brivido di calore in Diane stessa. Aveva il collo arrossato e costellato di macchioline scarlatte.
– Certo, – le risposi. – Uccide suo fratello per ottenere ciò che vuole. Non ha morale.
Nel silenzio che seguÃ, l’aria diventò spessa come dita premute sulle nostre facce. E quel ronzio, cos’era? La lampadina alogena? O il lavorio del vecchio computer portatile, di quelli che l’Associazione genitori insegnanti donava ai ragazzini che non potevano permettersene uno? A me venne in mente la volta in cui trovai Sadie, la nostra vecchia gatta arruffata, immobile sotto il portico e circondata da un nugolo di mosche.
– Ma tu pensi che una cosa del genere possa succedere anche nella vita reale?
– Cosa?
– Che uno non abbia coscienza.
– SÃ, – risposi con una prontezza di cui poi mi stupii. Ne ero profondamente convinta.
Diane non disse nulla. Aveva afferrato con la mano il piccolo ciondolo e ora lo tirava, scavando un solco rosso sul lungo collo candido.
– Diane, che c’è?
Il silenzio si prolungò per altri istanti, cosà come quel ronzio tenace. Avevo i piedi intorpiditi per essere stata a lungo nella stessa posizione.
– Qualcuno ti ha fatto qualcosa? – le domandai. – Qualcuno ti ha fatto del male?
Me lo era chiesto piú di una volta. La conoscevo solo da pochi mesi e Diane era cosà silenziosa, cosà riservata, cosà diversa dal resto di noi. Era anche molto pudica: si toglieva la maglietta solo dietro l’anta aperta dell’armadietto. E quel modo di vestirsi, come una specie di principessa vergine.
Ma forse ero io che tendevo a vedere retroscena torbidi dappertutto. Mi sembrava che tutti avessero qualche storia triste da raccontare, se solo ci si prendeva la briga di scavare abbastanza a fondo.
– Nessuno mi ha fatto niente, – replicò lei tenendo gli occhi bassi. – Sto parlando di me. Di una cosa che ho fatto io.
– Che cosa hai fatto? – Faticavo a immaginare Diane fare qualcosa che non fosse corretto e impeccabile.
– Non posso dirlo. Non l’ho mai detto a nessuno.
Con un’altra persona, una qualsiasi, avrei pensato a un milione di possibilità : rubare un maglione in un negozio, copiare un compito, passare un’intera giornata a scuola strafatta di ecstasy, bere qualche Baileys di troppo a una festa e fare un pompino a tre ragazzi di seguito. Ma con Diane no.
– Sei andata a sbattere col furgone di tuo nonno?
– No.
Provai la sensazione di quando si sprofonda o di quando ci si avvicina, girandoci intorno, a qualcosa di oscuro.
– Sei incinta? – Lo domandai anche se mi sembrava impossibile.
– No, – disse lei. La sentii deglutire con fatica. O forse ero io.
Mi guardò: le ciglia dorate battevano nervosamente, ma la voce era perfettamente calma. – È molto, molto peggio.
Prima di incontrarti non ci tenevo particolarmente a essere la migliore, Diane.
Buoni voti ne avevo sempre presi, forse abbastanza buoni da garantirmi una borsa di studio al City Tech. Ma non ci pensavo, mi sembravano ancora cose lontane. Non ero come te.
Tu avevi un piano ben preciso, sapevi cosa volevi diventare e di certo non eri il tipo che si affida al caso. Non avevi limiti. Ogni cosa doveva essere perfetta, come le mezzelune bianche delle tue unghie e come quelle matite gialle portamine che usavi, con la gomma per cancellare mai usata. Le tue risposte erano sempre esatte, sempre. Gli insegnanti usavano il tuo compito per correggere quelli degli altri.
Quel che allora non sapevo è che tutta questa ricerca di perfezione serviva a costruire una barriera, per tenere qualcosa fuori. Oppure dentro, ben nascosta.
La tua stessa ambizione, che è stata un dono per me come per te, era anche la prova di un lato oscuro.
– È cosÃ, seria, mamma… lavora sempre! Si alza alle cinque per andare a correre e fare un’ora di compiti prima della scuola.
– Buon per lei.
– Mentre corre, studia il tedesco con le cuffiette. Dice che diventerà una scienziata e lavorerà per il governo.
Nel mio mondo, la gente reale non faceva queste cose.
– Ai miei tempi quelli cosà si chiamavano secchioni, – replicò mia madre sorridendo. – Ma buon per lei.
– È che io… mamma, non lo so –. Una fame, dentro, che non sapevo spiegarmi, una voglia di sapere di piú, di crescere di piú, di avere di piú. Prima di conoscere Diane non l’avevo mai provata. E mia madre parve accorgersene, mi osservava intensamente mentre mi torcevo le mani in cerca delle parole giuste.
– Be’, per me la migliore sei tu.
Dopo che mi hai detto il tuo segreto, Diane, sono rimasta sveglia tutta la notte fissando lo schermo luminoso del telefono.
Ti ho pensata a lungo. Ti ho immaginata mentre chiudevi i libri a tarda ora, ti scrollavi di dosso i residui della gomma per cancellare (perché ogni tanto avevi anche tu qualcosa da cancellare, non è vero, Diane?) e li buttavi nel cestino, ti lavavi la faccia, ti spazzolavi i capelli finché non splendevano come raggi di luna.
Chissà se anche tu pensavi a quello che avevi fatto. Io non riuscivo a pensare ad altro.
Quando finalmente chiudevi gli occhi, riposavi davvero?
Ma forse invece la sera era il momento peggiore, quello in cui non potevi sfuggire al pensiero di ciò che avevi fatto e soprattutto al pensiero di averla passata liscia. Quando fai qualcosa di brutto e la passi liscia, dopo quella cosa è solo tua, per sempre. Ingombrante e irrimediabile.
A volte mi chiedo perché hai scelto me. Perché ti sei attaccata proprio a me quel giorno, il tuo primo giorno nella nostra scuola. Ero forse la piú carina? La piú simpatica? Ero la piú a portata di mano, oppure la piú intelligente? Dopo di te, naturalmente.
Magari è stato un semplice caso: ci siamo ritrovate una accanto all’altra alla linea di partenza di una corsa, oppure vicine di banco in laboratorio di chimica o in classe nell’ora di matematica.
O forse sono io che ho scelto te.
Nei corridoi regna una piacevole calma.
Se posso, cerco sempre di arrivare un’ora prima degli altri. Certe volte rinuncio a prendere l’ascensore, che è lento e qualche volta si blocca. Salgo le scale due gradini alla volta, versandomi spesso il caffè sui polsini, in eterna gara con le lancette dell’orologio e con l’ambizione sfrenata degli altri postdoc o aspiranti tali.
Probabilmente la dottoressa Severin non arriverà che fra diverse ore, la sua agenda è misteriosa e imperscrutabile, ma noi entriamo coi nostri badge personali, perciò lei verrà a sapere che io sono già qui a quest’ora. E in qualche modo credo che lo saprebbe comunque. I miei consulenti scolastici mi hanno sempre definita una indefessa lavoratrice. Voglio che anche lei lo sappia, e il badge ne è la prova.
Nei quattordici mesi che ho lavorato al Severin Lab sono arrivata sempre per prima tranne due volte: quella in cui per poco non sono stata investita da un furgone per strada e un’altra in cui sono rimasta bloccata in ascensore e il tecnico di laboratorio, il tizio con le braccia grosse come sequoie, ha dovuto aprirmi la porta col palanchino.
Oggi però ci tengo in modo particolare a essere la prima.
Nel grosso secchio a rotelle dell’addetto alle pulizie vedo i bicchieri di plastica di ieri, con la schiuma dello champagne che seccandosi è diventata una polvere fine.
Il ricordo mi strappa un sorriso. Un sorriso nervoso.
Alle cinque del pomeriggio siamo stati convocati per ricevere l’annuncio che tutti attendevamo con ansia. È stata la dottoressa Severin in persona a comunicarcelo, col consueto tono privo di qualunque emozione.
– Ci sono novità , – ha detto mentre col dorso della mano si ravviava il ciuffo biondo chiaro in forte contras...