Lavoravo per una ditta che vendeva all’ingrosso ogni genere di consumo, ero appassionato di rock e vestivo quasi sempre di scuro. Da un paio di anni ero diventato responsabile del settore alimentare, una posizione in virtú della quale mi toccava sovente andare in giro. Era necessario per trovare nuovi clienti e concludere contratti vantaggiosi per la società e per me; in caso di successo mi spettava una percentuale. Non lo dico per vantarmi, ma me la cavavo abbastanza bene.
Ero entrato in azienda come semplice agente dopo una specie di concorso. Per prima cosa avevo compilato un questionario: che scuole avevo fatto, le mie ambizioni, gli sport che praticavo; avevo anche dovuto dichiarare le vaccinazioni. Poi avevo parlato con un tale, uno psicologo, forse. Ricordo che mi domandò quali fossero i miei autori preferiti. Quelli che non mi fanno perdere tempo per comprendere ciò che vogliono dire, risposi, quelli che non si sbrodolano addosso. L’incontro non durò piú di dieci minuti, venni assunto. La mia carriera cominciò cosÃ.
Un gradino dopo l’altro ero avanzato.
Riuscivo convincente e non tiravo mai fregature.
La mia casa aveva un pezzetto di giardino davanti, il garage su un lato. Ci abitavo con mia moglie e mio figlio. Una villetta fra le tante sorte, l’una accanto all’altra, su un terreno che una volta era periferia: una città satellite ormai, con sale cinematografiche, teatro, supermercati, campi di calcetto e tennis. Eravamo stati tra i primi a comprare in quella zona. Allora là sopra il cielo era ancora azzurro. Poi, giorno dopo giorno, acquisà un colore grigio e non lo perse piú.
Quando ci stabilimmo nel quartiere si potevano vedere le stelle e le luci intermittenti degli aerei che passavano; a un certo punto cominciammo a sentirne solo il rumore.
Mio figlio mi chiedeva dove fossero diretti, e io immaginavo le destinazioni. C’erano nomi di località esotiche che lo facevano ridere. Adesso non ricordo, ma forse qualcuno lo inventavo.
Stavo tornando a casa.
Stavo tornando a casa dopo una trasferta di lavoro che mi aveva tenuto lontano un paio di giorni. Non era certo una novità . Ormai passavo piú tempo in ufficio, in alberghi, in viaggio che non in famiglia.
Era notte. Ero in macchina. Ero con altri due colleghi: uno, quello al volante, si occupava del settore arredamenti, l’altro di cartoleria e di tutto ciò che riguardava la scuola. Io ero seduto dietro. Ogni tanto mi facevo prendere dal sonno e appoggiavo la testa al finestrino. Nei momenti di veglia guardavo le luci che sfilavano ai bordi dell’autostrada: lampioni di strade secondarie, qualche rara finestra illuminata e molte insegne, perlopiú fabbriche di mattoni, laterizi, mobili. Oppure ditte di trasporti. Un panorama consueto. La carreggiata correva diritta, senza nemmeno una curva, il cielo era buio, compatto, fuso con le montagne lontane là dove la pianura terminava.
Il buio dei boschi è misterioso. È antico.
Gli alberi parlano.
Chi li ascolta è morto.
Nessuno apriva bocca da un po’, dentro la macchina regnava la stanchezza.
Eravamo partiti allegri, addirittura entusiasti all’idea di lasciarci alle spalle due giorni di riunioni, chiacchiere, tira e molla su prezzi e sconti. Tutti avevamo concluso con soddisfazione. Via via che i chilometri si accumulavano le parole erano diminuite. Il tentativo di sentire la radio non aveva dato buoni frutti, non passavano che canzonette stupide. Terminato un radiogiornale che ci aveva fornito notizie vecchie e rassicurato sulla viabilità , decidemmo di spegnerla. Il guidatore ruppe il silenzio per dire che al primo autogrill si sarebbe fermato per fare scorta di sigarette e bere un caffè. Sarebbe servito per scacciare la stanchezza e allontanare il sonno per un po’.
Gli chiesi se volesse il cambio. Rifiutò. Disse che con un caffè in corpo sarebbe stato ben sveglio sino alla meta. L’altro, quello che stava seduto di fianco a lui, si scusò per non essersi proposto, ma era miope e di notte era meglio evitare.
Camion e autoarticolati sfrecciavano sicuri e padroni. Erano belli a vedersi, invincibili. Li guardavo venirci incontro sulla corsia opposta, oppure superarci, e non potevo fare a meno di pensare alle cuccette dietro i sedili, nelle quali i camionisti riposano o dormono durante le ore in cui, per legge, sono obbligati a rimanere fermi. Aveva qualcosa di consolatorio l’idea di un mondo circoscritto alla cabina di un camion. Chiudere la portiera sui rumori, ritirarsi in quell’ambiente raccolto. Una fantasia infantile. Mi piaceva.
Dal finestrino, abbassato di un paio di dita per cambiare l’aria, entrava odore di gomma bruciata. Ogni tanto c’erano sprazzi di nebbia, la terra che esalava il suo respiro. Vidi le luci di qualche trattore che lavorava nei campi. Per rimanere sveglio cominciai a contare le insegne monche, quelle a cui mancava una lettera. I camion, intanto, proseguivano a sfrecciarci accanto; il nostro autista manteneva una velocità moderata e costante. Mi addormentavo e mi ridestavo continuamente.
Il collega alla guida disse che all’autogrill mancava una decina di chilometri. Sulla destra sfilò uno stabilimento che produceva compressori. L’insegna, di un azzurro fantasmatico, recitava E LUS. La o di Eolus, il dio dei venti, era spenta. Otto chilometri, disse il nostro autista. Avevo gli occhi chiusi, ma non dormivo.
Pensavo a casa, al buio familiare che avrei trovato.
A quando tornavo di notte e prima di entrare facevo due passi nel giardino.
Da piccolo camminavo nei prati a piedi nudi, non riflettevo sul fatto che avrei potuto ferirmi. Rammento che mi narravano spesso una favola in cui un bambino veniva rapito dal sole nel momento in cui questo tramontava.
L’autogrill comparve in lontananza simile a una macchia d’oro nell’oscurità . Sfolgorava. Chissà se là avremmo ritrovato la voglia di parlare.
– Un paio di chilometri, – comunicò il nostro autista.
Imboccò la deviazione a una velocità troppo elevata, frenò, chiese scusa. Ci voleva proprio un bel caffè. Parcheggiammo nello spiazzo riservato ai disabili. Me ne avvidi, ma non dissi niente, c’erano un sacco di posti liberi a quell’ora. Scendemmo ed entrammo nel locale. La luce violenta dell’interno fece portare a tutti e tre una mano sulla fronte, come militari che salutano. Si avvertiva un intenso, quasi nauseante odore di brioche. C’erano due bariste. Una era ferma dietro la cassa, appoggiata alla macchina per il caffè, lo sguardo nel vuoto, l’altra sistemava dei panini. Entrambe vestivano la divisa della catena, bianca e azzurra; il berretto era a forma di bustina. Sembravano carine come tutte le donne a quell’ora di notte.
Donne pronte per qualunque tipo di uomo.
– Caffè per tutti? – chiese il miope.
Stavo guardando fuori mentre risposi sÃ. Scorsi la macchina entrare nell’area di sosta, parcheggiare dietro la nostra. Era nera e aveva fari alogeni. Fastidiosi come la luce dell’autogrill. Ne uscirono due uomini.
Erano due.
Continuavo a guardarli. Non mi sfuggà che uno scese da dietro, come le persone importanti.
Quello che probabilmente faceva l’autista era alto, in giacca e cravatta; il passeggero era piú piccolo, indossava un cappotto e portava una specie di coppola. Aveva le spalle cadenti, un fisico a bottiglia.
Il presunto autista aprà la porta mentre ci stavano servendo i caffè; il mio non sarei riuscito a consumarlo. Poi si scostò di lato, fece entrare il passeggero e restò all’esterno.
Fu allora che notai i baffetti, quando il labbro dell’uomo con la coppola si mosse per chiedere di chi fosse la macchina dietro la quale avevano parcheggiato.
Risposi io perché i miei colleghi stavano bevendo.
– Il disabile chi è? – domandò il baffetto.
La voce del baffetto ha un timbro ineffabile. Sono sicuro che parla con la stessa intonazione la mattina appena sveglio e nel cuore della notte. È un uomo che non patisce stanchezze, è sicuro di sé, anche se non ama darlo a vedere.
Lo sa lui, e tanto gli basta. Ha un aspetto comune, si sarebbe indotti a sottovalutarlo. Molti dei miei clienti erano cosÃ, ma non ho mai commesso l’errore di crederli fessi o ingenui. Anzi, erano persone che mi mettevano soggezione, talvolta paura.
La barista gli girava le spalle. Il mio caffè aspettava di essere bevuto. I pochi avventori ai tavolini, camionisti che attendevano la fine del turno di riposo obbligatorio, non fecero una piega, non girarono nemmeno il capo, sebbene la domanda del baffetto fosse stata pronunciata a voce alta. L’autista continuava a stare fuori della porta. Il baffetto invece, in attesa della risposta, avanzò di due passi all’interno e si fermò. Accanto a lui c’era lo scaffale dei libri, quelli del momento, scontati.
Fui ancora io a rispondere, a disagio.
– Nessuno, – dissi con un mezzo sorriso che suonava già come scusa.
Il baffetto lasciò trascorrere qualche secondo. Si passò una mano sul mento, chiuse e riaprà gli occhi.
Io ammisi che non era un comportamento corretto parcheggiare in quello spazio, ma vista l’ora, vista l’enorme disponibilità di posti, non ci avevamo fatto caso e comunque, conclusi, ce ne saremmo andati subito.
Il baffetto accennò di aver capito, sembrò accettare la mia spiegazione.
Il suo viso si rilassa, dalla sua bocca esce un soffio.
Mi viene la tentazione di chiedergli se posso offrirgli un caffè.
– Documenti, prego, – disse invece.
Mentre cercavo il documento di identità notai che la barista beveva il mio caffè. Senza zucchero. E che aveva un trucco pesante. La immaginai condannata a quei turni di notte, divorziata, con un appartamento sempre freddo e senza poltrone. La immaginai pronunciare parole inutili per rompere l’estenuante silenzio delle stanze, aprire le finestre per far uscire la nuvola di fumo stantio, nutrirsi di pizza o degli orribili panini dell’autogrill che ovviamente non pagava, rinunciare un giorno dopo l’altro a spolverare.
La immaginai ballare da sola nelle lunghe ore di un sabato sera.
La immaginai bambina che usciva dall’asilo, o che guardava il mondo da una finestra durante un pomeriggio estivo.
Intanto i miei due compagni di viaggio avevano esibito i loro documenti. Il ba...