Annidate talvolta su rupi quasi inaccessibili o affondate nelle sabbie che hanno una consistenza molto problematica, i naviganti che attraversano gli oceani salutano, con una certa commozione, certe torri, spesso informi, che additano loro i pericoli d’un gruppo di scogli traditori o l’entrata d’un porto, dove potranno riposare con piena sicurezza, al riparo dai furori delle onde.
Quelle torri, che si trovano scaglionate lungo le coste dei continenti, sono fari. Di notte una lampada, con riflessi di specchi, che gira ininterrottamente, addita ai poveri naviganti, sbattuti forse dalla tempesta, l’imboccatura d’un fiume, di un porto o di una baia.
Di giorno, invece, è una grande antenna, visibile a distanze considerevoli, o semplicemente la torre che, essendo molto elevata, si può scorgere benissimo.
Su quelle torri vivono alcuni uomini, incaricati di accendere la sera la grossa lampada o di segnalare alle navi i pericoli a cui possono esporsi.
Essi sono gli ammonitori delle perfidie dell’onda, gli esploratori delle nebbie, le vedette delle tempeste, le sentinelle avanzate degli oceani.
Relegati per settimane e settimane e talvolta per mesi e mesi nelle loro torri pendenti sugli abissi del mare, esiliati sovente all’estremità di scogliere remote, prigionieri in quei cupi rifugi eternamente assediati dalle maree, i guardiani dei fari conducono una delle piú rudi esistenze che si possa immaginare. Lontani da ogni società , sospesi continuamente fra i vortici delle nuvole e i vortici dei flutti, soggetti a una disciplina di ferro e con nessun’altra voce, nessun’altra canzone che il sibilo delle raffiche e il lamento o la minaccia dei marosi, essi non sono certo da invidiarsi.
La loro vita, le loro abitudini, le loro funzioni sono per lo piú ignorate. Si conoscono le ardue fatiche dei marinai, si conoscono tutte le vicende e tutti gli eroismi dei gabbieri, dei piloti, dei mozzi, le imprese dei lavoratori del mare in genere; ma i guardiani dei fari sfuggono a tutti quelli che non appartengono alla grande famiglia marinaresca. Eppure essi sono per eccellenza i solitari del mare, e la loro abnegazione, i loro sacrifici, le loro avventure a ben pochi sono noti.
I fari, anzitutto, hanno per se stessi alcunché di misterioso e di desolato, e assumono spesso, anzi molto spesso, l’aspetto di rovine dimenticate ai confini degli oceani, di ultime vestigia di castelli disabitati, di rifugi eretti da corsari per seppellirvi prede e bottini, di ruderi di torri non piú frequentati che da fantasmi.
Ognuno di essi, poi, è circondato da una leggenda e ha i suoi fasti e la sua storia, che hanno alcunché di solenne e di severo.
La Lanterna di Genova, per esempio, ha pure la sua leggenda. Narrano infatti le antiche cronache che nel 1318 i Ghibellini, venuti alle prese coi Guelfi, scavarono parte dello scoglio su cui sorge il famoso faro, vi entrarono per di sotto e, mettendo la torre sopra puntelli, la minacciarono di rovina se gli assediati, rinchiusi in città , non si arrendevano.
Altra leggenda gode la Cordouan, la famosa torre che sorge alla foce della Gironda, in Francia, la cui luce, di sera, si scorge alla distanza di cento chilometri. Essa s’innalza sopra una scogliera e serve di guardia alle navi che provengono dall’Atlantico, e che cercano rifugio nell’estuario bordolese per sfuggire alle terribili tempeste del mare di Biscaglia. La leggenda, anzi, dice che se l’architetto volle compiere l’opera sua, dovette fare un patto col diavolo. Pare che il diavolo abitasse quei paraggi e mantenesse incessantemente le onde agitate. Louis de Foix, l’architetto, promise a Belzebú che, se avesse smesso di molestarlo nel suo lavoro, gli avrebbe donato un’anima: quella del primo essere che sarebbe giunto nel faro. Si dice che il diavolo acconsentisse, e infatti il mare stette calmo finché il difficile lavoro non fu condotto a termine. L’architetto, allora, sempre secondo la leggenda, trovò il modo di burlare Belzebú, gettando, prima d’entrare nella costruzione terminata, un grosso rospo, e il diavolo dovette contentarsi dell’anima di questo.
I guardiani di quel faro, pertanto, asseriscono con tutta serietà di vedere ancora nelle notti di tempesta un mostruoso corpo fosforescente, piú grosso d’una botte, spiccar salti fra le onde, e dileguarsi rapidamente fra le tenebre, appena si fanno il segno della croce!…
Il famoso faro di Eddystone, invece, che si erge su uno scoglio all’entrata del porto di Plymouth, in Inghilterra, non è circondato di paurose leggende accumulate dagli anni, ma la sua storia – che è quella stessa dell’energia e della volontà umana vittoriosa di tutti gli ostacoli – non è perciò meno interessante.
Intorno e sopra quello scoglio il mare infuria orribilmente durante le tempeste, e molte grosse e solide navi vi si sono infrante come noci.
Da lungo tempo era stata riconosciuta la necessità di costruire un faro su quello scoglio, ma, considerando le immense difficoltà dell’impresa, i piú animosi non avevano mai potuto risolversi a eseguirlo. Lo scoglio dista da terra oltre dieci miglia e bisognava portare colà con barche, su un mare sempre agitato, tutto il materiale necessario. Naturalmente non si poteva lavorare che durante i giorni, relativamente scarsi, di bonaccia, e v’era da temere che la notte disfacesse e portasse via quanto vi si era edificato durante il giorno.
Uno dei piú ricchi cittadini di Plymouth, certo Winstanley, fu il primo che osò tentare, nonostante tutti gli ostacoli, la costruzione del faro. Egli si era proposto di pagarne le spese, purché si facesse secondo i suoi piani.
La base fu piantata con massi ciclopici e sopra di essa furono erette alte colonne, che sorreggevano la lanterna assieme all’abitazione del guardiano. Erano state scelte le colonne per lasciar sfogare le onde sugli intercolunni e per conseguenza evitare l’impeto dei cavalloni.
L’esito non corrispose all’aspettativa e in una di quelle notti terribilmente tempestose, che sono assai frequenti sulle coste inglesi, il faro fu portato via assieme al suo sfortunato costruttore, che aveva avuto l’infelice idea di pernottarvi.
Ne fu eretto un secondo, tondo come una colonna gigantesca e, per rintuzzare l’assalto dei cavalloni, fu cinto tutt’intorno da robustissimi tavoloni di quercia. Il faro resistette per piú di quarant’anni; finché, nel 1755, colpito da un fulmine, non fu completamente diroccato.
Ma piú drammatica è la storia del faro di Dhoriol che voglio, miei piccoli lettori, narrarvi oggi.
L’erezione della lanterna di Dhoriol aveva incontrato difficoltà pari, se non maggiori, di quella di Plymouth.
Essa sorgeva all’estremità d’una scogliera, sulle coste del Portogallo, e doveva guidare le navi all’entrata del Tago, il fiume piú importante del regno, sulle cui rive si trova la bella e opulenta Lisbona.
Quindici anni erano stati impiegati nella sua costruzione, terminata solamente nel 1877.
Essa sorgeva in forma di torre, all’estremità di una rupe che le onde dell’Atlantico percuotevano con furore incredibile e quasi senza posa.
Piú che una torre era una colonna immensa, formata di massi enormi, cementati con traverse di ferro e con ramponi d’una robustezza eccezionale.
Intorno vi era legata una catena gigantesca di ferro battuto rovente, affinché nel raffreddarsi si stringesse meglio alle pietre. Sulla cima, a un’altezza di trenta metri, erano stati costruiti gli alloggi per il guardiano e la sua famiglia: quattro minuscole stanzette appena sufficienti a contenere un letto e qualche altro mobile indispensabile. Piú in alto sorgeva la lanterna, la cui fiamma doveva essere veduta dai naviganti a grandissima distanza.
Terminata la costruzione, dopo spese enormi e fatiche immense, fu affidato il servizio della lanterna a un vecchio marinaio della flotta portoghese; ma quindici giorni dopo quell’uomo faceva ritorno a Lisbona, dicendo che gli mancava il coraggio di rimanere là , e che non aveva in quelle due settimane quasi mai dormito.
Egli assicurava di aver sentito piú volte la torre ondulare sotto l’assalto delle onde, e perciò non voleva esporsi al pericolo di farsi seppellire vivo sotto le macerie o di venire trascinato nell’oceano.
Fu offerto il posto a parecchi piloti e non se ne trovò neppur uno che avesse il coraggio di accettare.
Già il governo disperava di poter trovare un fanalista tanto coraggioso, quando un giorno si presentò un uomo, offrendosi di diventare il guardiano di quel faro pericoloso.
Era costui un mastro della flotta, João Magael, un bell’uomo sui quarant’anni, ammogliato con una vezzosa andalusa, figlia di pescatori.
Accettata la sua offerta, Magael partà per il faro di Dhoriol, su una torpediniera dello Stato, conducendo con sé la moglie e il fratello di costei, un robusto giovane di ventidue o ventiquattro anni, che aveva già molto navigato.
Essendo l’oceano in bonaccia – caso abbastanza raro in quei paraggi cosparsi di scogliere orrende, tagliate a picco, e di banchi di sabbia, sui quali si vedevano ancora le carene di vecchie navi colà naufragate – il fanalista, sua moglie e il cognato presero tranquillamente possesso della torre, punto spaventati della vita da Robinson che dovevano condurre.
Disposero con un certo gusto i mobili che avevano portato, misero al sicuro i viveri sbarcati dalla torpediniera e che non dovevano venire rinnovati che una volta al mese, e la sera stessa cominciarono il servizio notturno.
Per parecchi giorni tutto andò benissimo. La signora Magael preparava i pasti e si occupava della pulizia: il marito o il fratello di giorno cacciavano fra le scogliere gli uccelli marini, che erano molto numerosi in quei paraggi e che servivano a variare la minuta del desinare o della cena.
Venne però ben presto la cattiva stagione. L’autunno s’avanzava rapido, le belle giornate si guastavano e l’oceano ingrossava quasi ogni notte sotto i venti dell’ovest, avventando formidabili ondate contro il faro.
Una notte, mentre infuriava nell’Atlantico una tempesta orribile, e João e suo cognato Henrique vegliavano presso la lanterna, temendo che le onde, che talvolta si slanciavano fino sulla cupoletta della torre, la spegnessero, sentirono un leggero ondeggiamento.
João, credendo dapprima che fosse il fragore delle onde che gli producessero quell’effetto, non vi fece caso; ma pochi minuti dopo vide il cognato balzare bruscamente in piedi, col terrore negli occhi e pallidissimo.
– João, – gli chiese, – hai sentito?
– Una leggera ondulazione? – chiese il mastro, che si era pure fatto livido.
– SÃ, la torre oscilla sotto l’urto delle onde.
– Va’ ad avvertire Carmen.
– Che questa notte l’oceano porti via il faro?
Il vecchio marinaio aveva ragione quando affermava che la torre, durante il temporale, oscillava.
Mentre Henrique scendeva a svegliare la sorella, João, molto turbato, aveva sporto il capo fra le colonnine per osservare l’oceano.
Era una notte orribile. L’Oceano Atlantico, tutto nero, muggiva spaventosamente e sui suoi cavalloni non si scorgeva alcun punto luminoso che indicasse la presenza di qualche nave.
Onde immense balzavano sulla scogliera e salivano fino alle finestre dell’alloggio, avventando nembi di spuma fino sulla cupola della lanterna.
– Si direbbe che io abbia paura e che una terribile disgrazia ci stia vicina, – mormorò il mastro.
Vedendo salire Carmen assieme al fratello, cercò di mostrarsi tranquillo per non spaventarli di piú.
– João, – disse la donna, – è impossibile dormire questa notte. Il rombo delle onde si propaga entro la torre con tale violenza da svegliare anche un morto, e ho sentito le pareti tremare a piú riprese. Che la lanterna si sfasci?
– Non vi è pericolo, – rispose il marito, sforzandosi di sorridere. – I massi sono legati dalla catena e le fondamenta della torre posano profondissime sullo scoglio. Ti ho fatta salire perché, rimanendo sola, potevi spaventarti delle scosse che subisce la torre e non già per paura che io tema una catastrofe.
La fece sedere presso la lanterna, le riparò le spalle con una grossa coperta per proteggerla dagli spruzzi di spuma e si mise in vedetta sul balconcino, assieme al cognato.
Sotto, l’oceano muggiva sempre piú tremendamente. Pareva che quella notte volesse spazzar via la scogliera, che da tanti secoli faceva ostacolo alle sue rabbie, e insieme con quella la torr...