Quante volte, da studentessa di filosofia, ho sentito parlare dell’inganno dei sensi – come se le orecchie e gli occhi e la lingua e le punte delle dita e persino il naso potessero mai ingannare qualcuno! E quante volte, anziché prendere sul serio quest’espressione cosí buffa, ne ho sorriso, convinta che fosse vero il contrario; solo dei sensi ci si può fidare, mi dicevo, e guardavo tramonti in cui il sole sembrava cadere sotto il disegno della linea del mare, annusavo fiori nei giardini per provare a indovinare i loro nomi, e nei reparti cosmetici dei grandi magazzini di nascosto provavo i profumi che mi parevano evocare qualcuno che un giorno avevo riconosciuto da quelle fragranze indelebili nel mio ricordo. Per abitudine e per convinzione mi sono sempre ripetuta che la sfiducia nei sensi è solo una vecchia superstizione, nient’altro che un antico pregiudizio da bacchettoni, senza nessun rapporto con lo scalpitare della vita – della vita che continua anche quando non ci facciamo attenzione, che cresce e si trasforma, lanciata in avanti come una freccia, e punta lontanissimo; e intanto il sole scompare dove non lo vediamo.
Continuo a pensarlo? Sí, tutto sommato sí. Nell’antica diatriba fra sensi e ragione, rimango una partigiana dei primi. Come tutti, immagino, a parte forse i neoparmenidei – esistono, sí: c’è gente, nel mondo, che ama fare scelte radicali.
Però devo ammettere, riflettendoci ora che è finita, che la settimana eleatica ha messo a dura prova questa fiducia che mi pareva ovvia, scontata, l’inscalfibile sottinteso della mia stessa esistenza. Cos’è successo, per scuotere una credenza tanto incrollabile? Ma soprattutto: come mi è saltato in mente di iscrivermi proprio a questa scuola, forse la piú misteriosa, la piú difficile, la piú inaccessibile di tutte, persino piú di quella pitagorica – che, quantomeno, offriva delle regole? È quel che mi domando ancora, sfinita da un’esperienza teoretica tanto radicale da mettere in dubbio quasi tutto quel che credevo di sapere. Curioso effetto collaterale, per l’eleatismo, quello di lasciarmi in preda ai dubbi. E dire che Parmenide, il quale fu pure allievo di un pitagorico, tale Aminia (almeno secondo alcune fonti citate da Diogene Laerzio, come Sozione), a prima vista sembrava cosí burbero e sbrigativo nell’escludere tutto quel che non fosse granitica certezza non solo dal campo dell’esistenza, ma addirittura dal novero delle cose di cui sia possibile parlare.
La principale tesi eleatica è di Parmenide, ed è piuttosto tautologica: l’ente è qualcosa che è e che non può non essere. È l’unica cosa che ricordo con certezza di questa enigmatica scuola, quando prendo in mano il Diels-Kranz per rimettermi a studiare.
Parmenide scrisse un grande poema in esametri, intitolato Sulla natura, come molti altri testi di filosofi antichi (evidentemente nessuno puntava sull’originalità dei titoli per distinguersi dai colleghi). Tanto è lapalissiana, almeno di primo acchito, la tesi fondamentale degli eleatici, quanto appaiono visionari i pochi frammenti che restano del poema di Parmenide. È il racconto in prima persona di un viaggio compiuto dal filosofo sotto la guida di alcune misteriose dee sulla cui identità gli studiosi dibattono da tempo. Scopro con una certa sorpresa che ancora ho in mente dai tempi del liceo i primi, bizzarri versi del proemio, riportati da Sesto Empirico che ne abbozza anche un’interpretazione:
Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare
Mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata
Che per ogni regione guida l’uomo che sa.
Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi corsieri
Che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino…
La dea mi accolse benevolmente, con la mano
La mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole:
«O giovane, che insieme ad immortali guidatrici
giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano,
salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto
per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini),
ma un divino comando e la Giustizia. Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa,
sia il cuore inconcusso della ben rotonda Verità
sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità».
Secondo Sesto Empirico le cavalle rappresenterebbero gli impulsi e le brame irrazionali dell’anima; la via «molto celebrata» che «guida l’uomo che sa» dovrebbe essere invece la speculazione fondata sul ragionamento filosofico. Le fanciulle sarebbero le sensazioni, che però, sia ben chiaro, mostrano il cammino solo a chi è già portato a superare le vie battute dagli uomini. E, sempre nell’interpretazione di Sesto Empirico, ad accogliere il filosofo è la Giustizia, dalla quale l’eletto apprenderà i due capisaldi della sua futura dottrina: primo, che il cuore inconcusso della ben rotonda verità è il saldo edificio della scienza, secondo, che le opinioni dei mortali non sono invece salde per niente.
A dire il vero, l’interpretazione regge bene, tranne per un dettaglio: sull’identità di questa misteriosa dea che accoglie il viaggiatore si accumulano secoli di discussioni, e non è affatto pacifico che si tratti della Giustizia. Secondo qualcuno sarebbe Mnemosine, la Memoria; per qualcun altro una divinità notturna, che potrebbe anche coincidere con Persefone, in piedi sulle porte della Notte, cioè dell’Ade. C’è chi dice che si tratti invece della Necessità (Ἀνάγκη, Ananke); Martin Heidegger sostenne che fosse la Verità in persona. Io, da adepta volontaria ma non propriamente iniziata ai misteri dell’eleatismo, mi accontento di pensare che forse il nome della dea rimane oscuro per imperscrutabile volere di Parmenide, e che devo fare attenzione alle parole, non alle generalità della signora.
Purtroppo le parole della dea fin dal proemio non sembrano meno sibilline della sua identità; e la faccenda si aggrava nel secondo frammento del poema. La dea difatti parla ancora, e noi passiamo dalla padella alla brace:
«Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole,
quali vie di ricerca sono le sole pensabili:
l’una <che dice> che è e che non è possibile che non sia,
è il sentiero della Persuasione (giacché questa tien dietro alla verità);
l’altra <che dice> che non è e che non è possibile che sia,
questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile:
perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),
né lo puoi esprimere».
Ritrovo con tenerezza le mie linee a matita, troppo calcate, forse un poco impazienti, sotto i passaggi che a lezione non capivo – e continuo a non capire. Ma ne avevo ben donde: il problema principale di questo frammento, secondo gli studiosi, è che Parmenide non rende esplicito il soggetto grammaticale di «è» e «non è»: non sappiamo neppure se si tratti di due soggetti diversi o se sia sempre lo stesso. Per qualcuno è implicito che si parli dell’oggetto della ricerca, invece secondo altri il poeta-filosofo avrebbe volutamente lasciato questo alone di vaghezza. Ma l’interpretazione piú accreditata è che a essere sottintesi siano ben due soggetti: rispettivamente, l’essere e il non essere – cosí le due frasi sarebbero proprio tautologie. Che l’essere sia e il non-essere non sia, insomma, è un po’ l’uovo di Colombo: ma un uovo molto sodo, senza vuoti e senza incrinature sul guscio, liscio e rotondo come la verità. Le due tautologie sono entrambe vere, ma la seconda non sarebbe percorribile, perché secondo Parmenide il non-essere non è pensabile né dicibile. La prima, invece, è percorribile eccome, anzi il frammento 6, affermando che «dire e pensare sono l’essere», attua una fusione del piano ontologico con quello logico e linguistico. Dire che qualcosa è significherebbe dire non solo che esiste, ma anche che è vero. Ci sarebbe insomma, per Parmenide, una perfetta coincidenza fra il pensare e il dire (da una parte) e il loro oggetto (dall’altra).
Bertrand Russell scrive che la scuola eleatica ci ha consegnato il primo esempio, in filosofia, di un ragionamento esteso dal pensiero e dal linguaggio al mondo intero. Si può forse costruire un’ontologia piú lapidaria di cosí? Forse, mi dico, è persino troppo lapidaria.
Ho la testa che scoppia, a questo punto, ma cerco di tirare le somme. Devo ricordarmi che la vera via di ricerca, per una parmenidea quale vorrei essere questa settimana, si fonda sull’unico assunto dell’incompatibilità fra essere e non essere, e sulle conseguenze che (anche in contrasto con il mondo delle apparenze sensibili), se ne possono trarre tramite il ragionamento. In altre parole, l’effetto paradossale dell’affermazione di un Essere immutabile, ingenerato, immobile ed eterno, è che il divenire è abolito, e di nulla si può dire che scompaia. Devo considerare illusori tutti i mutamenti del mondo fisico. E se questo mi pare strano, non ho certo tutti i torti, perché la dottrina di Parmenide porta dritti dritti a delle conseguenze che contraddicono il comune modo di pensare: paradossali, appunto dal greco παρά (parà), cioè «contro», e δόξα (doxa), «opinione». Tant’è vero che il suo discepolo Zenone si industrierà a dimostrare la tesi del maestro per assurdo, cioè cercando di provare che se si fa quel che Parmenide vieta (se, cioè, si attribuisce l’essere al movimento e alla molteplicità), si finisce per impigliarsi in conseguenze insostenibili. Ed è questo che mi interessa, da aspirante eleatica: voglio provare a vedere l’assurdo nelle esperienze di tutti i giorni, nei pensieri che sono fin troppo abituata a formulare. Voglio allontanarmi da quello che mi appare ovvio, e provare a guardarlo in prospettiva, come se fossi trascinata nello spazio infinito da un carro guidato da cavalle alate.
Non è facile cominciare, con queste premesse, la mia settimana: potrei persino chiedermi chi me lo fa fare. Ma sento che ad attrarmi è la difficoltà dell’impresa, insieme all’inconsistenza degli appigli. Per quanto rimugini i frammenti del poema Sulla natura, mi sembra di ruminare una lingua straniera. Cerco altri testi che mi possano aiutare, e mi rivolgo a Platone, che teneva Parmenide in gran considerazione. La lettura del suo dialogo Parmenide l’avevo preparata per l’esame di filosofia antica, in un tempo in cui gli esami parevano questioni di vita o di morte, e andavano passati per poterti schiudere le sterminate possibilità di un’estate libera come possono esserlo le estati da studente. Era il testo che ci incuteva il terrore piú grande: non solo era l’argomento su cui interrogava l’assistente noto come Il Perfido, ma era anche difficile parlarne, si rischiava a ogni passo di inciampare. Provo ora, riaprendolo, la vergogna inconfessabile e anche piuttosto inutile di scoprire una lacuna nella mia memoria, in un punto in cui mi aspettavo che tutto fosse pieno, levigato, sotto controllo. E non so ancora che sarà anche questo il premio della mia settimana: accettare il fatto di non dominare il tempo né i ricordi, di non poterli addomesticare come vorrei. Ma questo non me lo immagino nemmeno, quando inizio.
Il Parmenide di Platone, riletto ora non per un esame, ma per capirlo e per tentare di iscrivermi una buona volta alla scuola eleatica, mi risulta sempre difficile, oscuro a tratti. Eppure ci vedo qualcosa che all’epoca non mi colpiva; uno scandaloso parricidio. Perché è il dialogo in cui Platone enuncia i fondamenti della sua teoria delle idee: e lo fa a partire da parole che mette in bocca a Parmenide, e che nascono da quelle teorie di Parmenide di cui a noi rimangono solo i frammenti che le intessono in un bizzarro poema.
Ma proprio nello stesso dialogo, per bocca di Socrate Platone confuta le teorie del Parmenide filosofo: come chi, arrivato in cima a un albero, dia un calcio alla scala che l’ha portato fin lassú e rimanga seduto fra i rami fronzuti a godersi dall’alto il panorama, sicuro in cuor suo di non avere piú bisogno di scendere. Di questa faccenda del parricidio avevo un ricordo vago: forse scarabocchiato fra i miei appunti dell’epoca, annotato su un quaderno come una cosa da dire all’esame per fare buona impressione sul professore che a lezione sembrava tenerci molto; ma solo adesso la capisco, la sento, e non è piú una lezione da ripetere a memoria, né una nota di colore biografico, ma qualcosa che ha a che vedere con il dolore profondo di abbandonare i propri maestri.
E io, quanti ne ho abbandonati, negli anni? Fin troppi ne ho cercati, per non lasciare a nessuno la possibilità di insegnarmi nulla, come non mi ha insegnato nulla Parmenide – se non a ridosso dell’esame, solo per permettermi di barattarlo con un bel voto, passaporto per un’estate spensierata. Non sospettavo, all’inizio, che nella settimana parmenidea mi sarebbe toccato riflettere anche su questo, e cercare di vincere la mia avarizia – di tempo, di esperienze, di fatica – per provare finalmente a essere generosa. Ma non è il caso di correre tanto, di mettere il carro davanti ai buoi in questa maniera precipitosa; bisogna che proceda con dolcezza e con ordine.
Perché ho scelto la scuola eleatica? Questa sí che è una buona domanda. È stato per via del trasloco. Lo so che alla fine della settimana pitagorica mi avevate lasciata per strada, armi e bagagli caricati su un furgone: mancava ancora qualche giorno al momento di lasciare la casa, ma nel frattempo, fiera di essermi organizzata tanto bene – grazie anche al pitagorismo, grande alleato nello sgominare la mia antica nemica interiore, l’accidia –, spedivo i miei averi nel mio futuro appartamento.
Al vecchio indirizzo non rimaneva nulla, mi dicevo; quasi nulla. Guardavo le librerie vuote, la polvere sottile che già cadeva sugli scaffali, su tutti tranne uno: quello della filosofia antica era ancora occupato, qualche libro dovevo pur tenerlo con me. Rimanere in casa per giorni senza nemmeno l’ombra di un libro sarebbe stato rischioso. Me ne sarei pentita, una notte, sveglia di soprassalto dopo un incubo nell’ora del lupo: come avrei fatto, allora, senza un libro che mi aiutasse a ritrovare il sonno sospeso? In cucina non c’era piú nulla, solo due o tre carabattole – un piatto, un bicchiere, una pentola piccola, le posate. E poi i vasetti delle spezie, le ampolline dell’olio e dell’aceto. Le mensole del bagno erano nude della selva di flaconi, tubetti e cremine che per molto tempo ci si erano affollati. Rimanevano ancora fard e rimmel, spazzolino e dentifricio, e il bagnoschiuma, lo shampoo, una spazzola rotonda e una normale, un pettine e un migliaio di forcine. E c’erano le lenzuola sul letto, una coperta leggera, qualche vestito, un paio di scarpe di riserva, l’abat-jour e un’altra piccola lampada, che avevo tenuto solo per paura che i traslocatori spezzassero il suo stelo sottile, che la faceva somigliare a un fiore.
Tutto questo, anche se non sembra, ha molto a che fare con Parmenide e con la mia iscrizione alla scuola eleatica. È stato quando il trasbordo era ormai quasi finito, e il camioncino era già partito, quando mi pareva che in casa non ci fosse quasi piú niente… È stato allora che ho scoperto che in certe circostanze particolari, come quelle di un trasloco, un numero finito di oggetti si può suddividere in una quantità pressoché infinita di contenitori, scatoloni, valigie e – soprattutto – viaggi alla casa nuova. Non avevo mai guardato cosí da vicino una dicotomia all’infinito; mai mi era sembrato piú reale, piú tragico e piú assurdo, il famoso paradosso di Achille e della tartaruga.
In quel paradosso c’è qualcosa di incomprensibile e persecutorio, e io me ne dovevo accorgere stipando ciò che rest...