Filologia dell'anfibio
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Filologia dell'anfibio

  1. 296 pagine
  2. Italian
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Filologia dell'anfibio

Informazioni su questo libro

Come affrontare quell'esperienza, infima piú che infernale, che è stato il C.A.R. (Centro Addestramento Reclute)? Come raccontare il microcosmo dell'esercito, in cui si riproducevano gli stessi difetti, gli stessi vizi della nazione italiana nel suo complesso? Mari lo ha fatto con le armi dello scrittore fantastico che si avvicina a una realtà aliena, e con quelle del filologo, che usa analisi e spirito critico per evidenziare tutte le assurdità di un apparato tanto obsoleto e cristallizzato quanto, proprio per questo, paradossalmente affascinante. E, descrivendo in modo classificatorio e maniacale ogni momento di quei mesi, trasforma la dilapidazione e la noia in spettacolo letterario. Il volume, apparso in prima edizione nel 1995, è corredato dalle illustrazioni dell'autore.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806241100
eBook ISBN
9788858432198

XLIX. Destinazioni (1).

Da alcuni anni, quando un soldato è inviato al C.A.R., il Centro Meccanografico Militare ha già stabilito la sua successiva destinazione: ma il segreto in cui questa è tenuta, e piú ancora la possibilità che in qualche punto della catena gerarchica un ufficiale intervenga “manualmente” apportando modifiche, mantengono il soldato nell’ansia fino a pochissimi giorni dalla partenza per il «Corpo». Accresce quest’ansia il fatto che all’immaginazione del soldato non si offre una nebulosa di possibilità, un vuoto indiscreto, bensí una gamma relativamente limitata di eventualità precise e ben pregustabili, disponibili in una scala di gradimento da percorrere ripetutamente, chi fosse nevrotico, in giú e in sú, in sú e in giú. Ma cos’è che rende appetita o incubosa una destinazione al profecturo? Piú fattori, diversamente incidenti e variamente combinantisi a seconda delle teste e dei bisogni individuali, quali la distanza da casa, il tipo di caserma (in disgusto crescente: Distretti; Depositi e Magazzini; Ospedali; Caserme operative urbane; Caserme operative extraurbane; Caserme operative in zone di confine; Carceri Militari), l’incarico da ricoprire.
Postilla. Sulla cartolina che chiama alle armi c’è anche, semi-indipendentemente dalla destinazione futura, la sigla corrispondente al proprio incarico, ma l’incompetenza della recluta e la dispersione di quella sigla in mezzo ad altre lettere e cifre fan sí che quasi nessuno se ne accorga (quando verrà informato da piú eruditi compagni non avrà piú la cartolina, né se ne ricorderà le stampigliature). Io sulla mia, scrutatala a lungo a casa e in treno, avevo notato un 23 ricorrente in due zone distinte: appresi cosí, conferendo con il mio Caporale, che «Il ventitre è dattilografo»: gran gioia (appena velata di rimpianto alla notizia che «Il ventidue è scritturale»: non potevo immaginare che proprio di amanuense era invece il mio destino scaligero, e che i miei talenti calligrafici mi sarebbero valsi persino una licenza-premio), ma una gioia comunque precaria, essendo frequenti le rettifiche piú o meno abusive: sí che vedevi il decoratore alla guida di un cingolato e il marconista concuocere zuppe in cucina.
La caserma di Como aveva una decina di sbocchi tradizionali: le summentovate città dell’asse nordorientale (e dove un Ospedale, dove un Distretto, dove un’operativa Caserma), la sterminata autorimessa di Montorio Veronese, l’Artiglieria di Cremona, le spaventose Carceri Militari di Peschiera sul Garda e di Gaeta. Per quanto ogni soldato avesse i suoi criterî elettivi, non c’era dubbio che Gaeta e Peschiera, quella piú di questa, fossero universalmente temute come la soluzione peggiore: né si parlava, quando se ne parlava, d’altro: finirai a Gaeta, no a Gaeta sbatteranno te, tanto finisci a Gaeta. L’agitazione di questo fantasma, tanto parlottío, tanto rimuginío illustrano adeguatamente la virulenta tensione che precede e accompagna la cerimonia delle destinazioni.
Le dieci Squadre della II Compagnia furono riunite in cortile due giorni prima del Giuramento, subito dopo pranzo: in disordine, tutti mescolati, chi in piedi chi seduto per terra, a comporre un’enorme ciambella intorno al Capitano che, circondato da quattro Sottotenenti, stava in piedi dietro a un tavolino colmo di fogli e registri: da lí leggeva ad alta voce tutti i nostri nomi (in ordine alfabetico non di Squadra ma di Compagnia) abbinandoli alla destinazione (ma non all’incarico, che i piú ancora ignoravano e avrebbero continuato a ignorare fino all’arrivo al Corpo: taluni anche oltre). L’attimo di silenzio fra nome e destinazione era, per l’interessato, pura eternità concentrata in un intollerabile punto. «Abate Antonio» (si vedeva alzarsi una mano, o si sentiva un «Sí», un «Ci sono»: ché il contagio dell’accoramento sospendeva eccezionalmente l’obbligo del «Comandi!»: che pur molti dicevano, come se la correttezza di quell’interlocuzione potesse in extremis procurar loro una destinazione migliore): «Ospedale Militare di Udine» (invidia da parte di molti, che non sanno l’Abate essere àpulo, epperò dannato dal Friuli all’esilio). «Abbiate Santino». «Presente!». «Quinto Depotèr di Verona» (vicendevoli sguardi interrogativi dei soldati e torpida perplessità dello stesso Abbiate, che non sanno cosa sia un «Depotèr» [Deposito Territoriale]). E comunque, ogni volta, sollievo del destinato per non avere udito il terrifico flatus «Gaeta»: «Bistolfini Sergio», e Bistolfini pensa: è Gaeta è Gaeta, adesso dice Gaeta, oddio che non sia Gaeta, se non è Gaeta brucio mille lire, ma che mille, diecimila, cinquanta: e qualsiasi nome non incominci per G è autorizzazione al ruggito, all’esultanza blasfema (come se in quel momento Bistolfini fosse Capaneo, Giapeto, Briareo). Si sapeva, perché mese dopo mese era una quota fissa, che per Gaeta c’erano quarantatre destinazioni su cinquecento, e un’altra trentina per Peschiera: quindi un po’ piú dell’otto e mezzo per cento di tutta la Compagnia: per il che, ad ogni destinazione diversa, i destinandi vedevano aumentare le proprie possibilità di finir secondini: e come alla roulette una sequenza compatta di risultanze omogenee fa trattenere il fiato agli astanti, tanto piú increduli di tanta costanza quanto piú speranzosi, per eccitata ingordigia, di veder prolungarsi la serie, e contro la probabilità taluno vi gioca sopra un tesoro sprezzando in cuor suo lo scetticismo sensato delle puntate contrarie, cosí in quel cortile il chiamato di turno (non piú un soldato, ormai un ossimoro) viveva una sua disperata speranza: liberandolo dall’incubo, il suono d’ulterior destinazione benigna vi incatenava però, e con piú dure catene, il soldato seguente: e cosí in estenuante climax di angoscia, nel silenzio variamente atteggiato di tutti. Né la diluzione del noto ordine alfabetico per Squadra in quello generale per Compagnia consentiva molti calcoli (calcoli: esorcismi, scaramanzie apotropaiche): Carbonzio, a Udine: e Ciccolla, che nella VI Squadra viene subito dopo Carbonzio («carbonziociccolla», in sintagma ormai familiare), ignora adesso quante C vi siano interposte, e spera tante, tante da far cader finalmente la maladetta palla tencia di Gaeta: «Cazzaniga Alfredo» (dai, dai), «Cremona» (nooo); «Cazzaniga Gustavo» (cià cià, a Gaeta, sú), «Vicenza» (ma come, ormai saran venti di fila); «Cece Calogero» (Gaeta Gaeta Gaeta Gaeta...), «Trento», e via via con Cerretti, Cervi, Cestari, Cevolani, Ciavatta, Cibotti, Cicala... Cicala? Ma allora sta per toccare a me, Cicala a Padova? Culone... «CICCOLLA ANTONINO!». Come Ciccolla? Ma no, un momento... Ciccolla? Cicala-Ciccolla? Nessun altro Cic in mezzo? C’era mica un Ciccardi? «Ciccolla Antonino!». «... sí, eccomi...» (un secondo ed è finita, un secondo e sarò tranquillo, se sollevo il piede sinistro andrà tutto bene, un secondo ed è finita...). «Carcere Militare di Gaeta». Silenzio. Deglutimenti. Tutti guardano Ciccolla che immobile, un sorriso ebete, cerca su ogni faccia una smentita impossibile; per molto tempo ancora il suo cervello rattrappito si irretirà in questo assillo: c’è un errore, non è possibile, c’è un errore... Un dramma è consumato, altri si consumeranno fra poco che per ora giacciono occulti nell’alfabeto.
Paralegòmeno. Si davano casi in cui, dopo il cognome, il Capitano diceva: «A disposizione», formula che significava: la destinazione c’è ma non si dice, e non si dirà finché il Corpo non ci confermi la sua disponibilità. Io penso che quanti si sentirono dire «A disposizione» abbiano provato un senso d’ingiustizia, di defraudamento di un loro diritto: non tanto quello di sapere, quanto quello di soffrire nel rito solenne di quella cerimonia pubblica che improvvisamente, dopo averli convocati, li escludeva e quindi li dissacrava (in ogni caso è l’impressione che avrei avuta io, che vivevo quelle destinazioni come le sentenze di Minosse che manda secondo ch’avvinghia).
Il privilegio di aver potuto esprimere una preferenza direttamente al Capitano non mi rendeva meno ansioso degli altri, sia per la vaghezza delle promesse ricevute in quell’occasione, sia per l’abitudine (maturata in poche settimane di caserma, dove le smentite e i contrordini sono norma) a dubitare di qualsiasi cosa non si fosse ancora avverata, sia infine per un carattere costituzionalmente incline a questo tipo di macerazione, appo la quale i patemi del Ciccolla sbiadiscono. La destinazione all’Ospedale Militare di Verona mi colse impietrito; non sapevo, nel graduale scioglimento che mi riportava alla normalità (?), che la sorte mi riserbava un supplemento di quella pena.

L. Giuramento.

Tutta la nostra educazione militare era in realtà finalizzata, come si vide, alla cerimonia del Giuramento. Di norma si giura dopo ventidue-venticinque giorni di esercitazioni: noi dopo due sole settimane, per essere in grado, pochi giorni piú tardi, di prestare servizio armato presso i seggi delle elezioni politiche (giacché non sarà guardia armata nessun soldato che non abbia prima giurato fedeltà alla patria e al proprio Corpo).
Approssimandosi quel giorno il tono degli istruttori si faceva sempre piú concitato, come se da quegli ultimi ammaestramenti dipendesse la loro salute e la nostra; su chi ancora sbagliava gli improperî piovevano con aumentata violenza, in un impressionante crescendo dei tic nervosi (e linguistici) dei Sottotenenti. E con diversi giorni di anticipo, grandi pulizie ad imbellir la caserma per gli sguardi del pubblico che sarebbe stato ammesso alla cerimonia: quindi ritmi di servizio perlomen raddoppiati.
Ma si conti, orsú, di quel sabato mattina. Accuratamente vestiti nella tenuta che è di solito della ronda dovemmo ritirare fucile, cinturone e bajonetta molto per tempo (l’adunata era stata anticipata di un’ora, e la sveglia fissata alle cinque e mezza), e attendere in camerata cosí attrezzati: la grande novità era costituita dai guanti di filo bianco, che un soldato distribuiva a tutti pescandoli da un enorme scatolone di cartone: a chi due destri a chi due sinistri, a chi due guantoni, e avea manine, a chi due guantini, e avea manone, con rassegnazione di alcuni, zelanti baratti di altri. Ma tutti i guanti erano in egual misura maculati e strappati e mutili in piú punti: questo press’a poco il mio guanto destro:
Dalle finestre, verso le nove, vedemmo affluir nel cortile la massa dei parentia e degli amici, e occupare come un liquido tutto lo spazio delimitato loro dalle transenne:
Subito dopo venimmo condotti giú per Plotoni, sortendo dalle scalee già allineati: come i Cristiani nel circo per far piú bella l’impressione ai lioni. Avevamo l’ordine di guardare sempre fisso davanti a noi, ma tutti si occhieggiava in tralice verso i visitatori per scorgervi ognuno i cosiddetti suoi “cari”: incredibile dictu, al primo sguardo individuai mia sorella, preminente su siepe di mamme bassotte, e poco distanti mia madre e il mio amico Carlo (i tre sono adombrati dai puntini neri nel disegno). Ma sarebbe passato molto tempo prima che loro vedessero me: infatti all’inizio fummo schierati sul lato opposto del cortile, poi, dopo una orazion picciola del Tenente Colonnello, secato al mezzo da una fascia di raso azzurro come tutti gli ufficiali quel giorno (tenuta da parata), ci esibimmo nelle nostre marce e coreografiche conversioni, con Plotoni che si fondevano ad altri quindi si ridividevano per andare a riunirsi ad ulteriori Plotoni provenienti da analoghe scomposizioni... Piú fragorosi del solito, per lo zelo speciale dei Sottotenenti e la divertita partecipazione della truppa, vogliosa di impressionare (?) i “parenti”, i Ppsssóo... Trump! Ppsssóo... Trump! Qualche imprecisione si riscontrò nelle conversioni per curve di otto, perché assueti a marciare per quattro stentavamo a mantenere l’assialità dell’ottetto:
Quando sfilammo davanti alle transenne, il mio sguardo si incontrò con quelli della sorella, della genitrice e di Carlo, al quale destinai una sfumatura di ponderata vergogna.
Finite le evoluzioni, fummo disposti in un unico grande quadrato internamente solcato da corridoi paralleli; con studiata gravità il Capitano ci intimò un po’ di manovre statiche («Attenti!», «Riposo!», «Presentat’arm!», saluti), poi il Tenente Colonnello pronunziò una seconda orazione, meno generica e piú protreptica della prima, piú motiva di affetti: finalmente, dopo una sospensione retorica, recitò la formula del Giuramento, che confesso di non ricordare troppo bene: ricordo invece l’urlo «Oúro» che risuonò nel cortile e sicuramente anche fuori della caserma (immaginai piccioni prendere il volo). Questo «Oúro», a bene intendere, è l’esito della fusione di tanti effati diversi che vorrebbero sapidamente variare il «Lo giuro» di prammatica, dal diffusissimo «L’ho duro», fatto proprio direi dall’ottanta per cento dei soldati, convinti di essere arguti, ai piú fantasiosi «C’è un muro», «È maturo», «Bromuro», «Canguro» (escluderei tuttavia «Paguro»); alcuni, pochi, preferiscono aprire la bocca senza dir nulla, confondendosi nella fonía generale: io sarò forse stato l’unico, per purissimo spirito di contraddizione, a dire «Lo giuro». Ma unico non perché fossi il solo a non sentirsi vincolato da quel giuramento, quanto perché, senza nemmeno porsi il problema di cosa fosse un giuramento, quasi tutti erano portati dal demone di goliardía (id est conformismo) ad irridere e dissacrare qualsiasi cosa venisse dall’alto: grama o buona che fosse, luminosa od oscura (io stesso, a Verona, avrei visto fracassare con bavoso e gratuito furore, poche ore dopo la loro installazione nei bagni, gli specchi di cui piú volte era stata fatta richiesta da quegli stessi vandali: che non sapevano come radersi, avevano piatito, ma che al primo scintillío riflettente non seppero resistere alla tentazione dell’infrangimento, cioè di farsi una loro idea della morte). E l’ottusità dirutiva, la libido profanandi, l’arroganza di chi si afferma comodamente negando, l’incanaglimento di massa (altro è essere La Canaglia), l’incultura implicita in ogni supponente distorsione del Rito, tutto questo mi ha sempre indignato in profondo. Non altra è l’anima della Filologia, la ragione di chi, riluttando ad alterare ciò che sente come “originale” ed “autentico”, tende anche a interpretarlo, almeno formalmente, come “buono”. Il che non altro significa se non che, stante l’assiologica negatività del servizio militare cosí come viene prestato, l’unico riscatto gli può venire dal riconoscimento della sua araldica formalizzazione. Di quell’anno dilapidato le formule, gli arcaismi, i decorativi cavilli, le pompe esteriori, i rituali arcani sono l’unica luce, la sola passione.
a. Uso orrendo: un giorno che ve lo compresi, mio padre mi redarguí giustamente, sacrosantamente: «Tuo padre non è un “parente”: è tuo padre».

LI. Sedici colpi.

Ci aspettava, dopo quella cerimonia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Filologia dell’anfibio
  4. Giustificazione
  5. I. Presagi
  6. II. Tre giorni
  7. III. Chiamata, con una nota sulla scelta di essere soldato semplice
  8. IV. Preparativi
  9. V. Partenza
  10. VI. Arrivo
  11. VII. Caserma
  12. VIII. Camerata
  13. IX. Prima cena
  14. X. Contrappello
  15. XI. Prima notte (un capitolo preteritivo)
  16. XII. Sveglia (con reticenza finale sui cessi)
  17. XIII. Cubo
  18. XIV. Colazione
  19. XV. Adunata
  20. XVI. Infermeria
  21. XVII. Gerarchie
  22. XVIII. Vestizione (con una digressione sulle attese)
  23. XIX. Armadietto
  24. XX. Barbiere, con una divagazione sulla diversità e l’identità, il ritorno, l’esperienza, la morte
  25. XXI. Esercitazioni: marce
  26. XXII. Iniezione
  27. XXIII. Esercitazioni: saluti
  28. XXIV. Esercitazioni: armi
  29. XXV. Esercitazioni: ginnastica
  30. XXVI. Breve discorso sugli ordini
  31. XXVII. Superiori: Caporali, con un’appendice sul portachiavi
  32. XXVIII. Superiori: Sottotenenti
  33. XXIX. Superiori: tutti gli altri
  34. XXX. Quinta Squadra
  35. XXXI. Altre conoscenze, con una digressione sui giusti
  36. XXXII. Squadra Comando
  37. XXXIII. Mensa
  38. XXXIV. Cella di rigore
  39. XXXV. Servizî, o del climax
  40. XXXVI. Letture
  41. XXXVII. Calcio
  42. XXXVIII. Spaccio
  43. XXXIX. Libera uscita: divisa
  44. XL. Libera uscita: ronda
  45. XLI. Libera uscita: libera uscita
  46. XLII. Libera uscita: docce
  47. XLIII. Libera uscita: cene e pranzi
  48. XLIV. Libera uscita: cinema
  49. XLV. Libera uscita: Milano
  50. XLVI. Notti
  51. XLVII. Quot sint genera ludorum et quibus modis efficiantur
  52. XLVIII. Dal Capitano
  53. XLIX. Destinazioni (1)
  54. L. Giuramento
  55. LI. Sedici colpi
  56. LII. Elezioni
  57. LIII. Destinazioni (2)
  58. LIV. C.A.R. avanzato
  59. LV. Partenza altrui
  60. LVI. Soli nelle camerate deserte
  61. LVII. «Squadra Servizî»
  62. LXIX. Commiato
  63. Il libro
  64. L’autore
  65. Dello stesso autore
  66. Copyright