Ma come si fa a viaggiare in treno? Da quando ho letto che le pupille si strappano, si scollano, si sfilacciano, a forza di guardare troppo dal finestrino, per me è diventato un inferno. Non è che si stacchino proprio: diciamo che si smuovono dal centro della retina, perché devono fare avanti e indietro ininterrottamente e alla massima velocità. Prima lessi l’articolo, poi mi capitò di guardare negli occhi il passeggero seduto nel sedile di fronte. Fu in questo modo che mi apparve l’orribile fenomeno delle pupille impazzite, in un andirivieni rapidissimo e incontrollato e automatico: un folle metronomo ottico!
Il treno, ha scritto il poeta, è una chiusura lampo che fila sui binari. Giusto. Ma gli occhi, allora, gli fanno da dentini, dentini della zip. Questi occhietti frenetici, che imbastiscono il filo del viaggiare, a zig-zag.
Ora, mi chiedo, era davvero indispensabile prevedere l’azione di un segnale acustico per avvertire i viaggiatori che la tavoletta del water sta lentamente ruotando su se stessa, cosí da procedere alla pulizia della superficie superiore mediante apposito apparato idraulico? È mai possibile ricorrere al rumore per qualsiasi pretesto? È realmente necessario avvisare l’estraneo di tutto quanto accade, molestandolo vuoi per l’uso della retromarcia in mezzo alla strada, vuoi per il ricorso allo sciacquone in treno?
Quella dei rumori è una fra le piú dure prove cui viene sottoposto il passeggero ferroviario. Conversazioni ad alta voce, squilli di cellulari, cuffiette da cui tracima un triturarne di note, una pula sonora finissima e fastidiosa – tutto questo evidentemente non bastava. È venuto il momento del cesso musicale, un richiamo insistente, un vero e proprio bip da cardiogramma, solo che al posto del cuore, sta un bagno chimico. Invece dell’antica glassarmonica (un elegante bicchiere di cristallo che emette suoni se sfregato sull’orlo), sta il bordo della tazza di ceramica, nettato per il prossimo avventore.
Ma c’è di peggio: un bel giorno, sembrò improvvisamente necessario imporre nei vagoni musica commerciale e programmi radio. Era l’alba dell’alta velocità, e venne spontaneo (viene sempre spontaneo) tradurre lo sviluppo tecnologico in prevaricazione. Provavo a leggere o dormire: niente. Allora protestai col capotreno. Si trattava di una persona sensata, comprensiva. Mi diede ragione, tuttavia dovette confessare di non conoscere bene i meccanismi per disattivare il nuovo sistema acustico. Perciò mi propose di accompagnarlo al quadro comandi.
Mentre il convoglio sfrecciava, inclinato, raggiante, l’addetto inizia a toccare qualche tasto. Luci che si accendono, luci che si spengono, riscaldamento, aria condizionata, insomma tutto quanto meno la musica, che continua imperterrita. Fino a che, giunti all’ultimo bottone, terrore!, tutte le porte del treno si spalancarono in corsa, simultaneamente...
Fu un attimo, un brivido, un vento. Il fuori entrò dentro ruggendo, rabbioso, rapinoso, con un urlo, col freddo. L’apprendista stregone impallidí; io lo pregai vivamente di desistere. Richiudemmo quel vaso di Pandora. Meglio la musica, allora. E tornai a sedere.
Pendolari, la mattina d’inverno. Alle otto arriva un treno strapieno di sospiri. Scendono, e lasciano uno scompartimento caldo, nutrito di fiato. Sembra l’interno di un materassino da spiaggia, gonfio d’alito umano. Loro si avviano, noi li sostituiamo, in un mesto commercio di respiri.
Spesso il cartellone annuncia che il treno in partenza non è collocato in testa al binario, ma molto piú in là, oltre un convoglio in sosta. In quel caso, si devono superare i suoi vagoni morti, erronei e simbolici, per arrivare a quelli propriamente vivi. Si deve oltrepassare quel troncone avariato e spento, per lasciare davvero la stazione. Un giorno o l’altro, però, capita a tutti di confondersi, e di sedersi in attesa del nulla.
Magari si sfoglia il giornale, in una perfetta sospensione d’animo. E intanto non sale nessuno. Quando va bene, c’è un sussulto, un’inquietudine che afferra d’improvviso il viaggiatore e lo spinge prima al dubbio, poi alla scoperta, alla fuga trafelata per recuperare il tempo perduto.
Ebbene, quel momento, l’istante della rivelazione, ha qualcosa di nauseante. C’è panico, piccolo panico inoculato a tradimento, la cieca reazione della bestia da macello che improvvisamente capisce che cosa sia il macello. Per cosí poco? Sempre per cosí poco. Sono i nostri vaccini del terrore, i richiami periodici, semestrali.
Simmetrico a questo, il fenomeno della fermata sbagliata. Troppo presto o troppo tardi, non cambia: rimane il fatto che non siamo scesi al momento giusto, e ora ci ritroviamo altrove, semplicemente altrove.
In genere è una stazioncina silenziosa, senza un’anima viva, fatta soltanto per accogliere chi si confonde. O forse è sempre la stessa stazione, la stazione che non ci aspettavamo, ma che aspettava noi.
Il treno sottomarino Parigi-Londra, poi. Conosco gente che c’è già stata. Io no. Non ci penso nemmeno. Quell’apnea... quasi due ore trattenendo il fiato... Pare sia bello dopo, quando esci, quando alla fine sbuchi su uno spiazzo enorme e luminoso, come il subacqueo che sbotta in superficie, in un mare di schizzi. Ma prima d’arrivarci... No no, non mi convince... Sarò libero di scegliere!
Dopo nove anni di pendolarismo, su tutti i cartelloni elettronici della stazione, la mia destinazione resta l’unica a non avere mai l’indicazione del binario. Ho chiesto, ho chiesto, ma sempre inutilmente. Per questo è tanto facile individuare i viaggiatori interessati: lo si vede dall’ansia, dall’irrequietudine con cui sostano sotto i tabelloni, pronti a precipitarsi sul convoglio quando l’avviso, all’ultimo momento, viene finalmente comunicato. È un supplemento d’angoscia sull’angoscia del viaggio, un’ulteriore tassa di incertezza, se è vero che, proprio all’alba del Moderno, l’incidente ferroviario costituí il modello stesso di ogni esperienza traumatica.
Eppure solamente in un’occasione ho ascoltato il racconto diretto di una sciagura in treno. Avvenne su una linea che conoscevo bene, lungo la quale mi era capitato di viaggiare spesso. L’amico mi raccontò dell’accaduto con parole tremanti, il giorno dopo. Ricordava perfettamente le tre persone sedute insieme a lui, nel sedile di fronte.
Due chiacchieravano, l’altro mangiava un panino. Quando d’un tratto si era sentito un boato, accompagnato da una rivoluzione dello spazio. Rumore e movimento furono quasi istantanei: sentire il botto e ritrovarsi capovolti, mentre l’abitacolo si torce e si ribalta. Sbalzato via dal suono, in qualche modo. Ancora non riusciva a capacitarsi della propria salvezza, né della morte altrui.
Il suo vagone si era conficcato dentro quello che lo precedeva, finendo verticale, con tutti i passeggeri che scivolavano giú, o pencolavano aggrappandosi ai sedili. Titanic. Lo avevano estratto dalle lamiere assieme ai feriti, e assieme al morto, quello del panino. Erano ormai passate ventiquattr’ore, ma lui appariva ancora terrorizzato. «Capisci», mi diceva, «è come se in un attimo il mondo diventasse uno strofinaccio, strizzato da una mano invisibile. Il sopra e il sotto attorcigliati e stretti. Io non mi fido piú», continuava a ripetere, «io non mi fido piú».
Caffè e ristoranti delle stazioni hanno una lunga tradizione di fascino, malinconia o squallore. In genere, chi torna ha sempre fretta di rientrare a casa: ecco perché la loro clientela è composta esclusivamente da gente in partenza. Sono acceleratori di particelle, luoghi in cui si sperimenta la fisica del sentimento, spingendo la scissione fino al limite. Altrimenti detto, funzionano da divaricatori, strumenti per favorire il distacco dei tessuti organici. Potremmo anche chiamarli «macchine da congedo».
Mi sono ripromesso di non parlare della sterminata letteratura dedicata al treno, ma un nome almeno dovrò pure farlo, ed è quello di Valery Larbaud. Bisogna dire subito che era ricco, ricchissimo, e se ne vergognava. Prima finge il cinismo («Laggiú, i miei operai sono nel guano fino al collo, i luridi, / Per procurarmi quel denaro / Rutilante, che io spendo, quanto a me, con mani ben pulite. / Mio Dio, come sono disgustosi! Basta dunque»), poi inscena un pentimento («Ahimè, sono troppo ricco»). Viaggiava su treni extra-lusso, tra ristoranti e vagoni-letto che brillavano opulenti sul finire della Belle Époque. Eppure i suoi resoconti e le sue poesie toccano il cuore di tutti i lettori, anche di quelli abituati solo ai regionali o agli accelerati. È l’epopea cosmopolita e ferroviaria cantata nella luce del suo tramonto:
Ode
Prestami il tuo gran fragore, la tua grande andatura cosí dolce,
Il tuo scivolare notturno attraverso l’Europa illuminata,
Oh treno di lusso! e l’angosciante musica
Che risuona lungo i tuoi corridoi di cuoio dorato,
Mentre dietro le porte laccate, dalle maniglie di ottone pesante,
Dormono i milionari.
Percorro canticchiando i tuoi corridoi
E seguo la tua corsa verso Vienna e Budapest,
Mescolando la mia voce alle tue centomila,
Oh Harmonika-Zug!
Ho sentito per la prima volta tutta la dolcezza di vivere
In una cabina del Nord-Express, tra Wirballen e Pskow.
Scivolavamo attraverso praterie dove i pastori,
Sotto gruppi di grandi alberi simili a colline,
Erano vestiti di pelli di montone grezze e sporche...
(Le otto del mattino d’autunno, e la bella cantante
Dagli occhi viola cantava nella cabina a fianco).
E voi, grandi vetri attraverso i quali ho visto passare la Siberia e i monti del Sannio,
La Castiglia asp...