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Alla ricerca della morale perduta
Informazioni su questo libro
Alcuni credono che la morale sia sorta con la paura del tuono, quando gli esseri umani intimoriti s'inventarono leggi e comandamenti ai quali obbedire per tenerlo buono. Altri fanno coincidere la sua nascita con quella della società, con la necessità di darsi dei limiti individuali per favorire la felicità collettiva. Le persone colte poi la morale hanno iniziato a trovarla noiosa, preferendole lo stile. Perché perdere tempo a occuparsi del giusto e dell'ingiusto se possiamo pensare al bello, si dicevano. Leggendo le pagine di questo dialogo a distanza tra Scalfari e Voltaire, comprendiamo però quanto senza morale sia impossibile, per quel misero animale che è l'uomo, abitare il mondo rendendo giustizia alla sofferenza degli altri.
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Informazioni
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9788806240578eBook ISBN
9788858431719Dove si pone il tema del fondamento della morale
Jean-Jacques camminava di buon passo sulla strada che porta da Parigi al torrione di Vincennes. Strada polverosa e assolata, appena ombreggiata da vecchi platani e giovani quercioli disposti a caso sul ciglio dei fossi che raccoglievano l’acqua piovana e crescevano qua e là siepi di rovi, eriche ed erbe selvatiche.
Al di là dei fossi il verde dei campi punteggiati di piccoli fiori gialli, branchi di pecore e qualche mucca alla pastura. Faceva caldo. Nel cielo l’azzurro si alternava a nuvole bianche e grigie e ad un sole affocato.
Jean-Jacques aveva a tracolla una specie di sacco semivuoto; dentro c’era qualche frutto, un cannocchiale, una fetta di pane, un fazzoletto, una manciata di soldi di rame e una copia del «Mercure de France» con su stampato un bando di concorso emesso dall’Accademia delle scienze di Digione. Il titolo del concorso era formulato con una domanda: «Il progresso delle scienze e dell’arte ha contribuito al miglioramento del costume?»
Andava a trovare e a confortare l’amico Denis, arrestato qualche giorno prima per alcuni scritti che alla polizia del re erano parsi sediziosi contro la morale e l’autorità regia. Ma pensava ad altro che all’amico mentre camminava nella polvere assolata della strada. Pensava all’uomo naturale, del quale voleva parlare nella tesi con cui avrebbe risposto al bando dell’Accademia di Digione; pensava alla purezza e alla mansuetudine innate in quell’uomo prima che la società lo vincolasse alle sue convenienze e lo corrompesse con le sue ipocrite convenzioni.
Il suo corpo era accaldato, sentiva desiderio di acqua, frescura e ristoro. Le pecore al pascolo che vedeva a poca distanza gli sembravano in quel momento assai piú beate di lui. Poiché era stanco decise di fermarsi all’ombra d’una quercia, sul margine del campo. Si sedette con la schiena appoggiata al tronco, si tolse il cappello di paglia, si terse il sudore, guardò il prato, il cielo, le fronde dell’albero che lo sovrastavano, un’ondata di benessere lo invase, s’appoggiò su un braccio, poi si mise il sacco dietro la testa, si sdraiò continuando a pensare.
Si lasciò invadere da quei colori, dallo spettacolo di quelle fronde attraversate da fremiti di brezza, di quegli animali quieti, di quelle nuvole trasvolanti, s’identificò con ciascuno e col tutto che ne risultava, sentí che anche lui ne faceva parte, anche lui era natura, natura docile, natura materna, uomo dentro la natura, armonia e identità di uomo e natura.
Ora i pensieri cedevano lentamente al sopore, l’efflorescenza della mente chiudeva i suoi petali multicolori, il corpo si rilassava. Jean-Jacques dormí a lungo e felicemente. Poi raccontò che sotto quell’albero era nata la sua filosofia.
«Conoscevo l’episodio, signore. Avvenne nel 1749, il mese di luglio credo. Il buon Jean-Jacques l’ha raccontato un’infinità di volte e sempre con particolari diversi».
«Lo descrisse in una lettera a Malesherbes del ’59».
«Questo non lo sapevo, ma c’è una tradizione orale. Sapete, per Jean-Jacques ogni cosa che capitava a lui era della piú alta importanza e andava adeguatamente celebrata. Ma quella storia delle pecore, dell’erba fresca e dell’arsura è roba vostra, non l’avevo mai sentita prima. Che volete dire?»
«Oh, niente del tutto, soltanto qualche tocco verosimile che arricchisce il racconto».
«No, no, mio caro, voi non arricchite un bel niente e come racconto il vostro non vale un soldo. Ma voi volete dire qualche cosa e del resto lo dite chiaramente».
«Sarebbe?»
«Il pensiero è soltanto una funzione anzi una produzione del corpo, ne subisce e ne elabora le sensazioni, le associa, le decifra, le generalizza, le collega con la memoria, ne ricava concetti generali e metodi logici. E questo è ciò che chiamiamo pensiero».
«Esattamente questo volevo dire, grazie signor de Voltaire, siete bravissimo».
«Il mestiere, mio caro, il mestiere. Ma visto che ormai siamo in confidenza lasciatemi dire che voi aggiungete al mio nome un predicato che non mi appartiene».
«Non era il vostro modo di firmarvi?»
«È vero, qualche volta avevo questa civetteria. Ma continuate pure a chiamarmi cosí, a me non dispiace affatto, mi sembra un modo cortese. Ora ascoltate mio caro, la vostra filosofia mi sembra piuttosto usuale: il pensiero non è che il prodotto del corpo, non ci sono due sostanze distinte ma una soltanto: è una controversia vecchia quanto il mondo. Ai miei tempi il sostenitore piú sciocco di questa vostra tesi era d’Holbach e il piú intelligente…»
«Diderot».
«Diderot, naturalmente. Lui era il piú intelligente in tutto, il piú attraente, il piú appassionato, il piú materialista, il piú idealista, il piú generoso, il piú concreto, il piú il piú il piú fino a quando, un bel momento, del signor Diderot non ne potemmo piú».
«Questo è noto».
«È noto? Credevo d’avervi fatto una confidenza per arricchire il vostro “scoop”, come dite voi».
«Ma via, signor de Voltaire, si sa benissimo che l’avete sempre detestato».
«Questo non è vero, anzi è assolutamente falso. L’ho sinceramente apprezzato per la sua intelligenza, ho lavorato per lui, l’ho difeso in tutti i modi. Sentite, gli ho anche voluto bene. Non so se ne ho avuto un contraccambio ma in fondo non me ne importa granché».
«Mi pareva che prima aveste detto che c’è una ferita che vi duole ancora. Non pensavate a Diderot? Via, siate sincero».
«Solo gli imbecilli sono sinceri. E poi, che cos’è la sincerità?»
«Credo sia dire la verità».
«Ma no, mio caro, no. Dovrei allora chiedervi che cos’è la verità e non la finiremmo piú. Esser sinceri è al massimo dire ciò che si pensa, che non è quasi mai la verità. E quel che si pensa varia da momento a momento, anche sullo stesso argomento e nella stessa persona. Non sostenevate poco fa che il pensiero è un prodotto del corpo? Non avete raccontato che il povero Rousseau scrisse il discorso sulle arti perché aveva caldo e sudava sulla strada di Vincennes? E pretendete che io sia sincero? Siccome non sudo, nego d’aver mai odiato Diderot, ma forse se sudassi direi il contrario».
«Touché, signor de Voltaire. Con voi non c’è gara. Mi permettete di stuzzicarvi un po’? Ecco che cosa scriveva di voi: “On ne saurait arracher un cheveu à cet homme sans lui faire jeter de hauts cris. À soixante ans passés il est auteur célèbre et il n’est pas encore fait à la peine. Il ne s’y fera jamais. L’avenir ne le corrigera point. Il espérera le bonheur jusqu’au moment ou la vie lui échappera”. Che ne dite?»
«Da dove prendete questa cattiva prosa?»
«Una sua lettera a Sophie Volland del novembre ’60».
«È impertinente ma non mi irrita affatto. Ho sempre saputo che non mi amava. Ma del resto è perspicace: io ho sempre cercato d’esser felice e, se possibile, di veder felici quelli coi quali ho vissuto. Non ho mai fatto parte dei dannati per vocazione. Ho ammirato Montaigne e la sua lezione. Non mi piace Pascal e quel suo appiccicoso fanatismo. Non mi piace Rousseau e quel suo tormentarsi continuo. Voi dite “romantici” è vero? Ebbene, io non sono un romantico».
«Questo è sempre stato chiarissimo. Ma, Diderot?»
«Voglio parlarne con voi in assoluta onestà; d’altronde le incomprensioni d’un tempo ormai sono scritte in chiaro e le gelosie non hanno piú senso alcuno. Diderot è stato tra noi tutti il vero cervello filosofico. Non gli faccio un complimento, è una constatazione. Ha scritto qualche buon libro e un paio di ottimi dialoghi. Ha creato l’Enciclopedia scrivendo lui stesso moltissime delle voci piú importanti ma soprattutto organizzando il lavoro degli altri. Vedete, gli altri, tra i quali mi metto anch’io, sapevano lavorare soltanto per sé, siamo stati degli artigiani di noi stessi, l’Enciclopedia c’importava soprattutto come un luogo che avrebbe ospitato i nostri lavori e un mezzo per diffonderli. Per Denis era un’altra cosa, era l’opera sua. Perciò lui guardava ad ognuno di noi come alle dita della sua mano, indipendentemente dalle differenze di età e di condizione. Aveva un gran rispetto per tutti, ma soltanto perché lavoravamo all’opera sua. Quello che scrivevamo altrove, i nostri libri, il nostro teatro, i nostri romanzi, li considerava con gelosia, una perdita di tempo, un distrarsi inutile rispetto al lavoro principale. E quando le nostre opere o addirittura le nostre persone potevano, per qualche ragione, dare ombra alla sua creatura, non esitava un istante a espellerci, allontanarci, denigrarci e se necessario combatterci. Per lui l’Enciclopedia era tutto, il resto era niente. Perfino i suoi sentimenti erano guidati da quell’interesse assorbente al quale lui sacrificò ogni altra cosa pretendendo che anche noi facessimo altrettanto».
«Aggiungete però che senza di lui il vostro gruppo non sarebbe neppure esistito in quanto tale; aggiungete che pur di tenervi insieme fece miracoli di pazienza, blandí le vostre vanità, sopportò le vostre bizze, coordinò le vostre ambizioni. Infine: se l’Enciclopedia non ci fosse stata, la nuova filosofia non avrebbe avuto la forza d’urto che cambiò il secolo, i costumi e la visione del mondo».
«La penso esattamente come voi. Prima mi chiedevate chi era il capo del partito – ammesso che di partito si possa parlare. Ebbene, ora lo sapete: è stato Denis il capo partito. E l’opera collegiale, l’Enciclopedia, è quanto è rimasto di lui. Il resto è caduto nell’oblio».
«Su quest’ultimo punto non credo che abbiate ragione. Al di là dell’Enciclopedia, Diderot è vivo non meno di Rousseau ed anche di voi, l’Émile e la Nouvelle Éloise sono illeggibili e, lasciatemelo dire, il vostro teatro era morto già dalla nascita. I suoi dialoghi reggono benissimo il confronto con i vostri migliori».
«Non voglio entrare in questa discussione e trovo piuttosto scorretto che vogliate portarmici. Diciamo che ciascuno ha avuto i suoi meriti e ha fatto la sua parte. Che peso volete che abbiano ormai dispute di questo genere? La verità, mio caro, è che ora siamo tutti definitivamente morti, il vostro secolo ci ha messo a dormire, i nostri lumi sono stati spenti da molte palate di terra. Non c’è Montesquieu, non c’è Diderot, non c’è Rousseau, non c’è Voltaire. Di tutte quelle migliaia di pagine, di tutto quel pensiero che era sembrato aprire la porta della cultura moderna forse il solo sopravvissuto è Candide. Se è cosí ne sarei felice, ma è poco, molto poco».
«Signor de Voltaire, non sarei qui se quanto dite fosse vero».
«Forse voi siete fuori del vostro tempo e siete venuto da me a cercar conferme che non posso darvi. Posso solo testimoniare su ciò che ho fatto e ciò che ho visto. Il resto riguarda soltanto voi. Voi siete i miei posteri, non dimenticatelo, in attesa d’esser morti come noi».
«Poi vi chiederò, se me lo permettete, quali sono stati i tratti rilevanti e piú duraturi del vostro movimento e la vostra posizione all’interno di esso. Ma intanto c’è un’altra questione che è rimasta in sospeso e sulla quale attendo una vostra risposta: riguarda il rapporto di cui abbiamo già parlato tra il corpo e il pensiero».
«Vi sembra una questione importante? A me no. È pura metafisica e la metafisica m’interessa pochissimo».
«Ma il vostro trattato…»
«Lasciate stare il trattato e credetemi sulla parola. E poi, che differenza fa se corpo e pensiero sono entità distinte oppure una cosa sola? Voi continuerete a mangiare, dormire, copulare e pensare in ogni caso e quale che sia la risposta al quesito».
«Vi sbagliate oppure non dite tutto. Non dite che dietro a quella risposta si pone il problema della morale».
«Ah, ah, ah. La questione si fa seria. Come vedete sono in veste da camera e in pantofole, ma se dobbiamo discutere di morale mi permetterete d’andarmi a vestire come si conviene ed anche d’incipriarmi un po’».
La morale! Che austera e bella parola è mai la morale, il sentimento morale, il giudizio morale, la legge morale. Ma da dove ci arriva la morale? Da quale parte del corpo è prodotta, quale linfa ne è l’alimento, chi ha mai alitato la morale dentro di noi?
La morale entrò molto presto nella storia degli uomini ma il quando il come e il perché sono assai controversi tuttora.
Qualcuno pensa che sia stata la paura del tuono a farvela entrare: tuonava nei cieli e l’uomo derelitto non sapeva darsene ragione; immaginava occulte presenze latrici di arcani comandi ai quali bisognava piegarsi e obbedire. Cosí nacquero la legge e la morale.
Altri fanno coincidere la nascita della morale con il formarsi della società e con la necessità che ciascun individuo, nel tentativo di procurarsi felicità, garantisse di non impedire la felicità altrui e quindi ponesse qualche limite alla propria. Strada facendo la questione andò sempre piú complicandosi poiché la società divenne sempre piú complessa. Nacquero il diritto e le istituzioni necessarie per codificarlo e amministrarlo. Erano esse espressione della morale? Quale? Quella discesa dall’alto dei cieli? Quella piú utile allo sviluppo e alla prosperità del cosiddetto consorzio civile? E chi giudicava di quella utilità che ciascuna delle persone consorziate vedeva a modo suo?
Questa disputa è tuttora in corso e durerà probabilmente tanto a lungo che non se ne vedrà la fine.
Altri ancora fanno cominciare da Socrate la riflessione sulla morale, almeno per quanto riguarda l’uomo occidentale e la sua cultura.
Socrate, ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Alla ricerca della morale perduta
- Quando le parole diventarono mute e ingombrarono il cielo
- Come l’autore incontrò Voltaire nella villa di Ferney
- L’autore si abbandona ad alcune riflessioni filosofiche e racconta uno strano sogno
- Dove si pone il tema del fondamento della morale
- Voltaire sostiene che Dio ha dato agli uomini il sentimento morale ma l’autore non è d’accordo con lui
- L’autore sostiene la tesi che la morale sia fondata sull’istinto di sopravvivenza della specie umana
- Dove non è questione di morale ma di sepoltura
- Quel miserabile animale che noi siamo
- Un giorno le strade cominciarono a camminare e gli uomini arrivarono alla fine della storia
- Epilogo. Dove l’autore disserta sul crollo dei valori
- Il libro
- L’autrice
- Dello stesso autore
- Copyright