In una grande, antica città viveva un tempo un commerciante. La sua casa si trovava in uno dei quartieri piú antichi della città , in un vicolo stretto e sporco. E in questo vicolo, dove tutte le case erano cosà antiche che non si reggevano piú da sole, ma si appoggiavano l’una all’altra, la casa del commerciante era la piú vecchia. Ma era anche la piú grande. Con il suo possente portale a volta e le alte finestre arcuate coi vetri a tondi ormai mezzi ciechi, con il suo tetto ripido sul quale si apriva un gran numero di finestrelle strette aveva un aspetto assai bizzarro – la casa del commerciante, l’ultima casa della Mariengasse. Era una città devota, e molte case sopra il portone o sul tetto sfoggiavano pregevoli opere d’intaglio raffiguranti la Vergine Maria o qualche altro santo. Anche nella Mariengasse ogni casa aveva il suo santo – solo quella del commerciante era grigia e spoglia, senza ornamenti. Nella grande casa non viveva nessuno all’infuori del commerciante e di una bambina di otto anni. La bimba non era figlia sua, ma viveva con lui, lui la allevava e lei aiutava in casa. Come fosse arrivata a casa del commerciante però nessuno lo sapeva di preciso. Il commerciante non era un rivendugliolo qualsiasi da cui la gente andasse per comprare vestiti o spezie – no! Neppure con i semplici e poveri abitanti di quel vicolo teneva alcun rapporto. Un giorno dopo l’altro sedeva nel suo grande ufficio di contabilità con i grandi armadi e le lunghe scaffalature, mettendo a libro e conteggiando. Il suo commercio infatti si estendeva fino oltremare, in paesi lontani e remoti. Qualche volta, succedeva una o due volte all’anno, lasciava la sua casa per periodi piú lunghi, quando i suoi affari lo chiamavano lontano. Allora la bambina restava a dirigere la casa. Un giorno il commerciante si ripresentò davanti alla bambina e le disse che avrebbe nuovamente dovuto lasciare la patria per qualche tempo. Disse: «Non so quando farò ritorno. Occupati ancora tu della casa come hai fatto sino ad ora. Ma, – si interruppe, – vedo che ora sei abbastanza grande, in mia assenza potrai fare in casa quel che vuoi. Eccoti le chiavi». La bambina, che fino a quel momento era stata di fronte a lui in silenzio, osservando con gli occhi spalancati i colorati fiori sconosciuti che erano ricamati sulla veste del padrone di casa, alzò lo sguardo e prese le chiavi. Ed ecco che improvvisamente il commerciante la guardò severo. Poi disse in tono tagliente: «Credo tu sappia che puoi usare soltanto le chiavi delle stanze di servizio. Non farti mai tentare a salire all’ultimo piano. Intendi?» La bimba annuà timidamente. Poi il commerciante si chinò su di lei e la baciò, la fissò ancora una volta con sguardo penetrante e poi scese le scale e lasciò la casa. Dietro di lui la porta si chiuse con fracasso. La bambina sognante sostava ancora sulla scala e osservava il grande mazzo di chiavi antiquate che teneva in mano.
1906 o anni di poco successivi.
La sera aveva stretto un luminoso nastro incantato di un pallido giallo su montagne innevate e basse cupole coperte di boschi. E di un pallido giallo riluceva la neve delle cime. Ma da tempo i boschi erano immersi nel buio. Lo scintillio delle vette svegliò un uomo seduto su una panchina nel bosco. Alzò gli occhi e godette della strana luce delle cime; guardò a lungo, finché non gli rimase negli occhi che il tremolio luminoso, non pensava piú a niente e vedeva soltanto. Allora si girò verso la panchina e afferrò il bastone che vi era appoggiato. Controvoglia, si disse che doveva tornare in albergo per la cena. E percorse lentamente l’ampio sentiero che portava a valle. Badava alla strada, perché il buio scendeva in fretta e dal terreno sporgevano le radici degli alberi. Neppure lui sapeva perché camminava con tanta lentezza. «Sei davvero ridicolo e patetico, con il tuo passo rigido su questo ampio sentiero»: sentà pronunciare queste parole distintamente; e con disappunto. Si fermò con aria di sfida e alzò gli occhi verso le cime innevate. Ora erano scure anche quelle. Mentre se ne rendeva conto, sentà di nuovo distintamente una voce dentro di sé, una voce affatto diversa, che diceva: «solo con me». Perché questo era il suo saluto all’oscurità . E cosà abbassò la testa e continuò a camminare: contro la sua volontà . Gli pareva di dover sentire ancora una voce, muta, che lottava per uscire. Ma era una cosa spregevole … Si vedeva la valle … Le luci dell’albergo si facevano strada verso l’alto. Mentre se ne stava là a guardare in quella grigia voragine, credette di vedere un’officina giú in basso, sentà una pressione sul suo stesso corpo, come se mani possenti ammassassero mucchi di nebbia, come se venisse edificata una torre, un duomo dell’oscurità . «Il duomo, dentro ci sei tu», sentà dire di nuovo dalla voce. E allora camminando si guardò attorno. Ma ciò che vide gli sembrò cosà prodigioso, cosà impressionante … sà (lo percepà in modo vago: cosà terribile) che si fermò. Vide la nebbia che si librava tra gli alberi, sentà il volo lento di un uccello. Solo gli alberi piú vicini erano ancora lÃ. Dove era appena passato, si espandeva già qualcos’altro, una cosa grigia che correva sui suoi passi come se non fossero mai stati fatti. Comprese: mentre camminava, anche qualcos’altro camminava nel bosco, c’era un incantesimo all’opera, faceva scomparire quello vecchio, e subito rendeva nuovi gli spazi noti e sconosciuti i suoni conosciuti. Da una canzone senza parole, la voce pronunciò piú chiaramente di prima il verso: «sogno e albero».
Quando lo sentÃ, cosà forte e improvviso, si riebbe. La vista divenne acuta, sÃ, voleva vedere bene: «razionalmente», ammonà la voce. Lui fissò lo sguardo sul sentiero, e ciò che era ancora possibile distinguere, lo distinse. Là l’orma di un piede, una radice, muschio e un ciuffo d’erba e al margine del sentiero una grande pietra. Ma un nuovo spavento lo colse – tanto acutamente vedeva – non era come sempre. E quanto piú raccoglieva ogni forza per vedere, tanto piú estraneo gli sembrava tutto. La pietra sul margine del sentiero cresceva, sembrava parlare. Tutti i rapporti mutavano. Ogni dettaglio diventava paesaggio, grande quadro. Fu preso dal desiderio disperato di sfuggire a tutto ciò, di veder chiaro in quell’orrore. Fece un respiro profondo, alzò deciso e composto gli occhi al cielo. Com’era stranamente fredda l’aria, com’erano luminose e vicine le stelle.
Qualcuno emise un grido? «Il bosco» echeggiò una voce stridula al suo orecchio. Vide il bosco … Vi corse dentro, sbatté contro tutti i tronchi, ma avanti, piú profondamente dentro la nebbia, dove doveva essere … dove c’era qualcuno che rendeva ogni cosa diversa, che creava nel bosco quella sera spaventosa. Un ceppo lo fece cadere.
Rimase a terra e pianse dal terrore, come un bambino che sente avvicinarsi uno sconosciuto nel sogno.
Dopo un poco tacque, giunse la luna e la luminosità dissolse i tronchi oscuri nella nebbia grigia. Allora si rialzò e andò a casa.
1911.
Il cielo aveva teso tra gli alberi una notte estiva squisitamente tedesca. Ma la luna spandeva una luce discreta eppure decisamente giallo chiaro, come in un appuntamento rococò. I brezel cadevano tremando dagli alberi sul muschio scuro come nastrini di carta gialli. Nel buio azzurro si ergevano i contorni giganteschi della grande piramide della letteratura. Era piacevolmente sinistra. E ora eccola lÃ, la punta si disegnava contro il cielo chiaro, sulla montagna nera ardevano colori di un verde delicatissimo, bianchi e spesso variopinti. E. T. A. Hoffmann brillava da una rupe dallo slancio barocco che emergeva mezzo rovesciata dal mucchio – la luna lo illuminava. In fondo si spalanca un portone nero; nel crepuscolo incontrollabile i suoi pilastri sembrano colonne doriche, ιλιας [sull’una e] ख़δυσσϵια sull’altra. Una scala di marmo bianca brillava a mezza altezza. Rapida come una scimmietta vi si muoveva la silhouette di un omino magro e con voce indicibilmente limpida continuava a gridare: «Gottsched, Gottsched…» cosà piano che si poteva udire solo in quel silenzio di fiaba. Nella profondità oscura emergeva come da un abisso una desolata massa pietrosa. Piste la solcavano, sozzura e neve riempivano le fessure. Dal fondo soffiava un vento tagliente. Ombre di re, donne tristi e su un angusto spiazzo erboso davanti a una caverna erano sedute in cerchio meravigliose silfidi di nebbia e ridevano di uno strano leone che nella sua pelliccia cascante gridava come un essere umano. Allora mi girai. Qualcosa mi faceva inorridire, in quella notte. E andai sulla collina della saggia civetta. E girai tre volte in tondo, finché sprizzai fuoco e gridai: «Saggissima civetta, Eulenberg, Eulenberg, saggissima civetta, saggissimo Eulenberg». Sulle prime regnò il silenzio. Poi si sentà un fruscio tra gli alberi; ma successivamente sentii una voce sottile, tagliente, venire dall’alto. «Aspetti!» Un signore con un bastoncino di canna scendeva dalla montagna. Gli allocchi strillavano e svolazzavano davanti ai suoi passi. Portava una finanziera marrone e un bel cilindro piantato un po’ sulla testa. Non ci scambiammo neppure una parola, mi precedeva. Iniziò la salita, sulle prime molto agevole. Larghi gradini di marmo salivano rasentando abissi dai quali emergevano alti templi in rovina, e ne prorompeva un triste mugghio di grandi fiumi. Un signore corpulento sedeva su una panchina accanto al parapetto. Si fregava piacevolmente le mani e sorrideva acido. Aveva davanti una tavoletta cerata e uno stilo. Quando ci vide iniziò a scrivere lentamente. «Orazio, il primo letterato», osservò la voce tagliente della mia guida. All’improvviso mi bloccai. Su una sporgenza vidi un uomo in piedi, avvolto in una toga ricca di pieghe. Si vedeva che stava parlando, parlava ininterrottamente, il suo debole corpo tremava nello sforzo, sembrava letteralmente gridare, ma non si sentiva alcun suono, intorno a lui c’era il vuoto. Fui colto dall’orrore. «Cicerone», sussurrò la mia guida. La comoda scala finÃ. Giunsero sentieri pietrosi, non spianati. Le rocce presero forme bizzarre, snelli fiori di pietra ne uscivano, mucchi di macerie, davanti ai quali emergevano muri con alte finestre aguzze, costeggiavano il sentiero. A volte un suono d’organo sembrava colpire l’orecchio. Di nuovo, dopo un certo tempo, incontrammo una strada maestra sgombra. Un omino con un cappuccio grigioverde sulla testa fuggà al nostro arrivo. La mia guida si tolse in fretta il cilindro e stava per rovesciarglielo sopra. Ma l’altro gli sfuggÃ. «Opitz», osservò dispiaciuta la mia guida. «Mi sarebbe piaciuto averlo nella mia collezione». Poi proseguimmo a lungo per la strada deserta. All’improvviso davanti a noi si levò una montagna. Sulla cima, contro il cielo, si vedeva la silhouette di un uomo che stava scrivendo. Aveva davanti un foglio enorme e la sua penna era cosà lunga che quando la muoveva sembrava scrivere nel cielo. «Si tolga il cappello», sentii dire qualcuno accanto a me. «È Lessing». Salutammo, ma la poderosa figura in cima alla montagna non si mosse. Ai piedi del monte cresceva un intrico fittissimo. Gli alberi erano leggiadramente potati, tra i sentieri si muovevano minuscoli esseri umani, come automi vestiti da pastorelle e cicisbei. Molti danzavano intorno a statue bianche disseminate tra il verde. Da quella compagnia di automi risuonava al chiaro di luna un esile pigolio. Tuttavia ogni tanto taceva e una voce profonda, straziata di dolore e gioia e nostalgia, saliva fino alle stelle. «Sente Klopstock?» sentii dire alla mia guida. Annuii. «Tra poco saremo lû, disse.
Girammo intorno alla montagna e davanti a noi si aprà una vasta pianura scura, vuota, dalla quale si alzavano luminosi due edifici simili a templi. Vidi con spavento che al nostro fianco si apriva di nuovo l’immenso abisso con i suoi templi in rovina e i suoi fiumi mugghianti. Sull’orlo dell’abisso una figura si muoveva barcollando, gli si avvicinava sempre piú e alla fine vi precipitò dentro davanti ai nostri occhi. «SÃ, siamo arrivati, – disse la mia guida. – Ha visto Hölderlin?» Di nuovo annuii, muto e dolorosamente spaventato. L’aria cristallina era piena di strane grida. Dagli abissi echeggiava forte il suono profondo eppure bello, armonioso dei fiumi tristi. Il canto dolente, limpido dell’uomo precipitato sembrava mescolarsi con quello. Sentimmo alle nostre spalle i canti fragorosi di Klopstock. Tuttavia, quanto piú ci avvicinavamo ai due alti edifici, tanto piú la luce aumentava e i rumori si spegnevano. Uno dei due si ergeva su un’alta rupe irregolare: solitario. Molta gente circondava l’altro. Uomini con timpani e grandi bandiere e gente con penne e fogli sedevano in cerchio e dalla folla salivano grida. C’erano molte cattedre tutt’intorno, dalle quali la gente parlava gesticolando con irruenza. Alcuni gridavano forte, rivolti al tempio: «Il nostro Schiller». Ma nessuno giungeva. Qui la mia guida deviò e presto ci trovammo davanti al tempio solitario. Un omino grinzoso con una finanziera nera e abbottonata fino al collo scese precipitosamente dalle scale alte e larghe. «Oh, oh, il nostro Eckermann», ridacchiò una voce accanto a me. Un’occhiata decisa e poco amichevole della mia guida lo fece sobbalzare e ci accompagnò su.
Sotto i nostri piedi sentivo un tremito lieve salire dall’edificio di pietra. Stupito, sentii contemporaneamente un rumore come di tuono lontano. Quanto piú ci lasciavamo alle spalle gli alti gradini di marmo, tanto piú forte tremava il terreno e tanto piú poderoso risuonava il tuono. Non ci lasciò piú. Entrammo e una fitta oscurità ci avvolse. I rumori violenti che non sembravano giungere soltanto dal fondo, ma anche dai lati, mi sconvolgevano. Al tempo stesso sentii un mutamento compiersi in me. Tutti i miei sensi sembravano esaltati e assorbivano dall’interno una forza decuplicata. Nella fitta oscurità vedevo, sentivo con gli occhi. Percepivo me stesso in un grande spazio vuoto. Da ogni parte c’erano porte, portoni e varchi di ogni forma e grandezza. Accanto a me c’era un massiccio portone rotondo. Era ermeticamente sbarrato con ceppi di legno tra i quali erano incastrate grosse sbarre di ferro. Dall’interno risonavano cupi rintocchi di campane a stormo. Piú avanti si apriva un portone gotico altrettanto grande. Dietro sembrava esserci una stanza in penombra. Risate sonore arrivavano dai corridoi che si aprivano sulla stanza. Di tanto in tanto in quella luce singolare compariva la figura di un profeta biblico, uomini in frac marrone con fogli e penne correvano avanti e indietro nella stanza, una voce adolescente, bella e profonda, declamò «essere o non essere». Per il resto, tutto taceva in quell’agitazione frenetica.
Forze magnetiche sembravano abitare le fondamenta del tempio. Procedere divenne difficile. Davanti a noi si apriva una fuga di ingressi piccoli e grandi, in pesante stile impero o barocco a svolazzi dorati. Erano chiusi ma, percepibile nel frastuono sotterraneo, ne filtrava una musica delicata. E di fronte a noi, a grande distanza, comparve nella luce una stanza aperta, dalla quale una grande quantità di statue di marmo diffondeva il suo splendore.
Accanto a noi c’era Mefistofele: ci precedeva lungo una scala ripida e stretta; saranno stati migliaia di gradini. LÃ, a una torre di guardia del tempio, ci fermammo. In lontananza si apriva una visuale bella e limpida della terra; e ne godemmo con gioia. Ma presto in quella scena calma e tranquilla si notò un movimento. Si gonfiava e cresceva. La terra sembrava sollevarsi in grandi ondate. Il cielo si fece scuro e si chiuse. Era come se il mondo intero venisse trascinato in quel punto con forza terribile. Fuggendo notammo sul terreno una corona d’alloro strappata. Dietro a noi risuonò la limpida risata di Mefistofele. Eravamo finiti in uno stretto corridoio che si estendeva per distanze incalcolabili. All’improvviso la voce di Mefistofele fu di nuovo accanto a noi, limpida e beffarda, ma sommessa, sembrava una domanda: «Alle madri?»
1911.
Sul paesaggio erano sospese le nuvole cupe che suscitano nei giovani quella specifica paura del temporale nota ai medici con un nome latino. Si tratta di un paesaggio montano dolcemente raccapricciante. Il sentiero era ripido e faticoso, l’aria era torrida e regnava una temperatura elevata. Un uomo canuto, maturo, e un giovinetto si muovevano attraverso il silenzio come punti muti. Portavano una bara vuota. Di tanto in tanto uno sguardo del giovinetto cadeva sulla bara e i suoi occhi si riempivano di lacrime. Non passò molto e un canto triste gli sgorgò dalle labbra ed echeggiò mille volte singhiozzando contro le pareti dei monti. «Aurora, aurora, a morte precoce mi illumini». In lontananza, lampi sanguinosi tingevano il cielo di mille colori: all’improvviso il canto si spezzò, seguito solo da un debole gemito. «Mi conceda un momento», disse il giovane al piú anziano, posò a terra la bara, si sedette, chiuse gli occhi e giunse le mani.
Lo ritroviamo in cima alla montagna. C’era un rudere, avvolto dalla vegetazione lussureggiante. Vento e tempesta fischiavano qui piú rabbiosi che altrove. Il luogo era fatto apposta per il godimento di ogni dolore … Particolare importanza era stata data alla malinconia vespertina che aveva luogo dalle sette alle otto. Una valle all’ombra, riparata dal sole al tramonto, si dimostrò adatta allo scopo. C’era anche una cassettina di occhiali neri e blu scuro che potevano aumentare la malinconia fino all’orrore e far salire la febbre...