Il narratore ambulante
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Il narratore ambulante

  1. 232 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il narratore ambulante

Informazioni su questo libro

Due voci si alternano per raccontarci i due risvolti di una storia singolare. Da una parte un uomo evoca i suoi ricordi di un compagno di gioventú, soprannominato Mascarita, che era affascinato dalla cultura india e dai suoi segreti. Dall'altra parte un cantastorie, un narratore ambulante, memoria collettiva di tutte la tradizioni di una sperduta tribú dell'Amazzonia, ci racconta la sua esistenza e la storia e i miti del suo popolo.
Un affresco, pietoso e sconsolato, del degrado materiale a cui sono sottoposte le tribú indie del sudamerica e il loro tentativo di conservare la propria identità.
Un romanzo ricco di poesia e di introspezione psicologica, dove l'invenzione si fonde con la realtà, il sogno e la fantasticheria con il concreto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806201159

VI.

Nel 1981 diressi, per sei mesi, alla televisione peruviana, un programma intitolato La Torre di Babele. Il proprietario del canale, Genaro Delgado, un vecchio amico, mi imbarcò in quest’avventura facendomi scintillare sotto gli occhi tre specchietti: il bisogno di elevare il livello dei programmi che, nei dodici anni precedenti, quando la televisione era stata monopolizzata dalla dittatura militare, avevano toccato il fondo quanto a stupidaggine e volgarità; l’eccitazione di esperimentare un mezzo di comunicazione che, in un paese come il Perú, era l’unico capace di raggiungere simultaneamente i pubblici piú diversi; e un buon stipendio.
Fu, in effetti, un’esperienza straordinaria per me, sebbene, anche, la piú faticosa e snervante che abbia mai fatto. «Se ti organizzi bene e dedichi mezza giornata al programma, ti basterà – mi aveva predetto Genaro. – Nel pomeriggio, potrai continuare a scrivere». Ma neppure in questo caso la pratica rivelò di combaciare con la teoria. In realtà, dovetti dedicare a La Torre di Babele tutte le mattine, tutti i pomeriggi e tutte le sere di quei mesi e, soprattutto, le ore in cui apparentemente non facevo nulla di concreto, ma mi angosciavo al ricordo di quanto era venuto male nella puntata precedente e nel tentativo di anticipare quanto sarebbe venuto peggio in quella successiva.
Facevamo La Torre di Babele in quattro persone: Lucho Llosa, che si occupava della produzione e della regia; Moshé dan Furgang, che era il tecnico del montaggio; l’operatore Alejandro Pérez e io. Lucho e Moshé li portai io al canale. Entrambi avevano esperienza di cinema – tutt’e due avevano fatto dei cortometraggi – ma, come me, non avevano mai lavorato prima in televisione. Il titolo del programma rivelava le sue ingenue ambizioni: metterci di tutto, fare un caleidoscopio di argomenti. Intendevamo provare ai telespettatori che un programma culturale non doveva essere obbligatoriamente anestetico, esoterico o pedante. Ma che poteva essere divertente e alla portata di chiunque, poiché ‘cultura’ non era sinonimo di scienza, letteratura o qualsiasi altra conoscenza specializzata, ma, piuttosto, un modo di avvicinarsi alle cose, un punto di vista in grado di abbordare tutti i problemi umani. Il nostro intento era, durante l’ora settimanale del programma – che spesso si allungava in un’ora e mezza – toccare due o tre problemi ogni volta, quanto piú opposti gli uni agli altri, che dimostrassero al pubblico che un programma culturale non era in disarmonia, per esempio, col calcio o col pugilato, né con la musica salsa o con l’umorismo, e che un servizio politico o un documentario sulle tribú dell’Amazzonia poteva essere ameno e, al tempo stesso, istruttivo.
Quando, con Lucho e Moshé, preparavamo liste di argomenti, di personaggi e di luoghi di cui avrebbe dovuto occuparsi La Torre di Babele e progettavamo il modo piú agile per presentarli, tutto funzionava alla perfezione. Eravamo pieni di idee e avevamo molta voglia di scoprire le possibilità creative del piú popolare mezzo di comunicazione del nostro tempo.
Quello che scoprimmo furono, semmai, le schiavitú del sottosviluppo, il modo sottile con cui snatura le migliori intenzioni e frustra i piú ardui sforzi. Senza esagerare, posso dire che la maggior parte del tempo che Lucho, Moshé e io dedicammo a La Torre di Babele si logorò – si sprecò – non in lavori creativi, cercando di arricchire dal punto di vista intellettuale e artistico il programma, bensí tentando di risolvere problemi a prima vista insignificanti, indegni di essere presi in considerazione. Come fare, per esempio, perché i camioncini del canale ci prelevassero all’ora debita, sicché non perdessimo gli appuntamenti, gli aerei, le interviste? La soluzione fu recarsi a svegliare personalmente gli autisti a casa loro e accompagnarli al canale a prelevare la squadra di ripresa e poi all’aeroporto o dove bisognava andare. Ma era una soluzione che ci sottraeva ore di sonno e che, inoltre, non funzionava sempre, in quanto poteva darsi che, come se non bastasse, i camioncini avessero la batteria scarica o che l’amministrazione non avesse ordinato per tempo che cambiassero la coppa dell’olio, il tubo di scappamento e la ruota che se n’era andata in malora per via delle buche omicide di avenida Arequipa...
Fin dalla prima puntata che registrammo, notai che le immagini risultavano imbruttite da certe strane macchie. Cos’erano quelle mezzelune sporche? Alejandro Pérez ci spiegò che si trattava di un problema di filtri della cinepresa. Erano logori e bisognava cambiarli. Be’, che li cambiassero, allora. Che armi usare per ottenerlo? Tranne uccidere, le provammo tutte e nessuna serví. Inviammo promemoria all’approvvigionamento, facemmo suppliche, interventi telefonici e a viva voce con gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori e ci recammo pure, credo, dallo stesso proprietario del canale. Tutti ci diedero ragione, tutti si indignarono, tutti ordinarono perentoriamente che i filtri venissero cambiati. Magari vennero cambiati. Ma le mezzelune grigiastre macularono tutte le nostre puntate dalla prima all’ultima. Le vedo ancora, talvolta, quelle ombre intruse, con una certa malinconia, quando accendo la televisione e penso: «Ah, la cinepresa di Alejandro Pérez».
Non so chi avesse deciso nel canale che Alejandro Pérez lavorasse con noi. Si rivelò una buona decisione, perché – tenendo presenti, ovviamente, le schiavitú del sottosviluppo, che lui accettava con imperturbabile filosofia – Alejandro è un uomo abilissimo quando ha una cinepresa fra le mani. Il suo talento è totalmente intuitivo, ha un senso della composizione, del movimento, della prospettiva, della distanza, che gli sono innati. Perché Alejandro si era rivelato operatore per caso. Era un imbianchino, venuto da Huánuco, e qualcuno gli aveva proposto un giorno di guadagnarsi qualche soldo extra aiutando a trasportare le cineprese della televisione, nello stadio, durante i giorni delle partite. A forza di trasportarle, imparò a usarle. Un giorno sostituí un operatore assente, un altro giorno un altro e, senza che se lo fosse proposto, si rivelò il miglior operatore del canale.
All’inizio, il suo mutismo mi innervosiva. Solo Lucho riusciva a parlare con lui. O, comunque, si capivano subliminalmente, perché io non ricordo di aver mai udito in quei sei mesi Alejandro pronunciare una frase intera, con soggetto, verbo e predicato. Solo brevi grugniti, di assenso o di scoraggiamento, e un’esclamazione, che io temevo come la peste bubbonica, perché voleva dire che eravamo stati – ancora una volta – sconfitti dagli imponderabili onnipresenti e ubiqui: «Siamo fottuti!» Quante volte si ‘era fottuto’ il registratore, il nastro, il riflettore, il monitor? Tutto poteva ‘fottersi’ innumerevoli volte: era una qualità delle cose con cui lavoravamo, forse l’unica cui tutte dimostrarono sempre una fedeltà canina. Quante volte progetti minuziosamente programmati, preparati, interviste pattuite dopo tramiti spossanti, finirono in malora perché il laconico Alejandro aveva pronunciato il suo fatidico grugnito: «Siamo fottuti!»
Ricordo soprattutto quanto ci accadde a Puerto Maldonado, una città dell’Amazzonia, dove eravamo andati per girare un breve documentario sulla morte del poeta e guerrigliero Javier Heraud. Alaín Elías, compagno di Heraud e comandante del distaccamento guerrigliero che era stato disperso o catturato il giorno in cui avevano ucciso Heraud, aveva acconsentito di raccontare davanti alle cineprese tutto l’accaduto in quell’occasione. La sua testimonianza fu interessante e coinvolgente – Alaín era con Javier Heraud sulla canoa dove quest’ultimo fu bersagliato e lui stesso uscí ferito dalla sparatoria – e avevamo deciso di completarla con immagini dei luoghi dove si erano svolti i fatti e, se ci fossimo riusciti, con testimonianze di abitanti di Puerto Maldonado che ricordassero l’episodio occorso vent’anni prima.
Oltre a Lucho, Alejandro Pérez e io, persino Moshé – che rimaneva sempre a Lima a lavorare al montaggio delle puntate – si recò con noi nella foresta. A Puerto Maldonado, parecchi testimoni accettarono di essere intervistati. Il nostro piatto forte era uno dei poliziotti che aveva partecipato, dapprima, all’incidente iniziale, nel centro della città, e che aveva rivelato alle autorità la presenza a Puerto Maldonado dei guerriglieri – episodio durante il quale era morto un poliziotto – e, poi, all’inseguimento e alla sparatoria contro Javier Heraud. Era un uomo ormai in pensione, che lavorava in un podere. Persuaderlo a lasciarsi intervistare fu difficilissimo, perché l’ex poliziotto era pieno di reticenze e di timori. Infine, lo convincemmo. E riuscimmo, addirittura, ad avere l’autorizzazione a registrare l’intervista nel commissariato da cui erano uscite le pattuglie, quella volta.
Nello stesso istante in cui iniziavo a intervistare l’ex poliziotto, cominciarono a esplodere, come proiettili di carnevale, i riflettori di Alejandro Pérez. E quando furono tutti scoppiati, affinché non rimanessero dubbi che i mani dell’Amazzonia erano contro La Torre di Babele, si scaricò la batteria del nostro motorino portatile e il registratore del suono rimase afono. Eravamo fottuti! Sí, e anche una delle primizie della puntata. Si dovette ritornare a Lima a mani vuote.
Ingrandisco le cose per renderle piú visibili? Forse. Ma di non molto, credo. Potrei raccontare decine di aneddoti come questo. E, anche, altri, per illustrare quello che forse è l’emblema del sottosviluppo: la scissione fra la teoria e la pratica, fra le intenzioni e i fatti. Durante quei sei mesi noi esperimentammo quest’irriducibile distanza in tutte le fasi del nostro lavoro. C’erano dei tavolati che suddividevano equamente le cabine di montaggio e gli strumenti di registrazione fra i diversi responsabili dei programmi. Però, in realtà, non erano quei tavolati, ma l’ingegno e la scaltrezza di ogni produttore o tecnico a determinare che si disponesse di piú o meno tempo per montare e incidere e che si contasse sulla migliore squadra.
Imparammo in fretta, naturalmente, i sotterfugi, le astuzie, le bricconate e le lusinghe di cui bisognava valersi per ottenere, non parliamo di privilegi, ma, appena, di svolgere con un minimo di dignità quanto per cui ci pagavano. Erano tutti stratagemmi concretizzabili, ma tutti avevano il difetto di privarci di tempo prezioso che avremmo potuto dedicare alla parte puramente creativa. Dopo essere passato per quell’esperienza, quando mi succede, talvolta, di vedere alla televisione un programma ben ripreso e montato, agile, originale, la mia ammirazione non ha limiti. Perché so che, dietro, ci sono molto di piú che impegno e talento: stregoneria, miracolo. Certe settimane, dopo aver preso visione del montaggio della puntata per l’ultima volta, in cerca del tocco finale, ci dicevamo: «Be’, questa volta è andata bene». E, tuttavia, quella domenica, sullo schermo della televisione, scompariva il suono, l’immagine si deformava, irrompevano strappi... Cosa si era ‘fottuto’ questa volta? Che il tecnico di guardia, incaricato di passare i nastri, si era ubriacato o addormentato, aveva pigiato il pulsante sbagliato o programmato tutto al contrario... Per chi ha una mania perfezionista nel suo lavoro, la televisione è pericolosa, causa infinite insonnie, tachicardia, ulcera, colpi al cuore...
E, tuttavia, facendo il bilancio, quei sei mesi furono pure appassionanti e intensi. Ricordo con emozione l’intervista a Borges, nel suo appartamento in centro a Buenos Aires – non mi perdonò mai, a quanto sembra, che avessi detto che la sua abitazione era modesta e con perdite d’acqua – dove la camera della madre veniva conservata cosí come lei l’aveva lasciata il giorno della sua morte (un vestito viola, da signora anziana, dispiegato sopra il letto), e i ritratti di scrittori dipinti da Sábato, che questi ci lasciò riprendere, nella sua piccola casa di Santos Lugares dove andammo a trovarlo. Da quando avevo vissuto in Spagna, all’inizio degli anni Settanta, avevo desiderato intervistare una scrittrice di drammoni e romanzi rosa, Corín Tellado, le cui storie venivano divorate in libri, sceneggiati, fotoromanzi e teleromanzi da un’illimitata folla in Spagna e in America Latina. Accettò di apparire a La Torre di Babele e trascorsi un pomeriggio con lei, nei dintorni di Gijón, in Asturias – mi mostrò lo scantinato con le sue migliaia di romanzetti accatastati: ne finiva uno ogni due giorni, sempre di cento pagine – dove se ne stava reclusa perché, in quel momento, era vittima di un tentativo di estorsione, non era chiaro se da parte di un gruppo politico o di delinquenti comuni.
Dalle case di scrittori, portavamo le cineprese negli stadi – facemmo un programma su una delle migliori squadre di calcio brasiliano, il Flamengo, e intervistammo Zico, l’astro del momento, a Rio de Janeiro – o a Panama, dove cercammo di spiegare, girando per i club di dilettanti e di professionisti, come e perché quel piccolo paese centroamericano era stato culla di tanti campioni latinoamericani e mondiali in quasi tutte le specialità. In Brasile, ci introducemmo nell’esclusiva clinica dell’atletico dottor Pitanguy, i cui bisturi rendevano belle e giovani tutte le donne del mondo in grado di pagare i suoi servigi, e a Santiago del Cile parlammo con i Chicago Boys di Pinochet e con gli oppositori democristiani che, schiacciati da una rigidissima repressione, opponevano resistenza alla dittatura.
Andammo in Nicaragua, a girare un servizio sui sandinisti e sui loro avversari, nel secondo anniversario della rivoluzione, e all’università di Berkeley, a San Francisco, dove, in un piccolo stambugio del dipartimento di lingue slave, lavorava un grande poeta, Czesław Miłosz, recente premio Nobel per la letteratura. Ci recammo a Coclecito, a Panama, nella casa che aveva lí il generale Omar Torrijos, che, sebbene in teoria fosse fuori del governo, continuava a essere il padrone e il signore del paese. Passammo tutta la giornata con lui e, per quanto si fosse mostrato gentilissimo con me, non mi lasciò quell’impressione cosí gradevole che ha lasciato ad altri scrittori che sono stati suoi ospiti. Mi sembrò il tipico caudillo latinoamericano di nefasta memoria, l’‘uomo forte’ provvidenziale, autoritario e maschilista, che tutta una corte di civili e di militari (che, nel corso della giornata, sfilarono per il luogo) adulava con un servilismo che faceva venire la nausea. Il personaggio piú vistoso, nella casa di Coclecito, era una delle amanti del generale, una bionda tutta curve che scoprimmo distesa su un’amaca. Era lí come un oggetto fra i tanti del mobilio, perché il generale non le rivolgeva la parola né la presentava a nessuno degli ospiti che entravano e uscivano...
Due giorni dopo essere arrivati a Lima, di ritorno da Panama, Lucho Llosa, Alejandro Pérez e io rimanemmo raggelati: Torrijos era appena morto sul piccolo aereo con cui ci aveva fatti portare da Coclecito alla città di Panama. Il pilota era lo stesso con cui avevamo viaggiato noi.
A Puerto Rico, un giorno, dopo aver finito di registrare un breve servizio sulla meravigliosa ricostruzione del vecchio San Juan, guidati dall’uomo che ne era stato l’animatore, Ricardo Alegría, caddi svenuto. Ero disidratato a causa di un’intossicazione contratta negli spacci di chicha di un paesino del Nord peruviano, Catacaos, dove eravamo andati a girare un programma sui tessitori di cappelli di paglia – un’arte che gli abitanti di Catacaos coltivano da secoli –, sui segreti del tondero, un ballo regionale, e sulle sue bettoline di buona chicha e piatti piccantissimi (erano stati questi ultimi a intossicarmi, ovviamente). Non ho parole per ringraziare tutti gli amici di Puerto Rico che praticamente minacciarono i gentili medici dell’ospedale San Jorge affinché mi guarissero in tempo e La Torre di Babele uscisse puntualmente quella domenica.
Le puntate uscirono sempre, ogni settimana, e, considerando come lavoravamo, fu un’impresa considerevole. Scrivevo i testi sui camioncini o sugli aerei e dagli aeroporti passavo agli studi di registrazione o alle cabine di montaggio e ne uscivo per prendere un altro aereo e fare centinaia di chilometri per fermarmi in una città o in un paese talvolta meno ore di quelle che avevo impiegato per arrivarci. In quei sei mesi dimenticai di dormire, di mangiare, di leggere e, naturalmente, di scrivere. Poiché il preventivo di cui disponeva il canale era limitato, parecchi di quei viaggi all’estero li facevo coincidere con un invito ad assistere a un congresso letterario o a tenere qualche conferenza, sicché il canale veniva alleggerito dei miei biglietti e dei miei soggiorni. Il problema era che questo sistema mi costringeva a una scissione schizofrenica della personalità, in quanto dovevo passare, in pochi secondi, dal ruolo di conferenziere a quello di giornalista, da quello di scrittore cui porgevano il microfono affinché parlasse a quello di intervistatore che, a mo’ di rappresaglia, intervistava i suoi intervistatori.
Pur avendo realizzato un buon numero di puntate sull’estero, la maggioranza fu su argomenti peruviani. Balli e feste popolari, problemi universitari, centri archeologici preispanici, un vecchio gelataio il cui triciclo, dopo mezzo secolo, continuava a percorrere le vie di Miraflores, la leggenda di un postribolo di Piura, il sottomondo carcerario. Scoprimmo che La Torre di Babele aveva ottenuto un buon indice di gradimento per via delle raccomandazioni e pressioni che cominciavamo a ricevere da personalità e istituzioni diverse affinché ci occupassimo di loro. La piú inattesa fu, forse, quella della Polizia Investigativa (Pip). Un colonnello comparve un giorno nel mio ufficio per propormi di dedicare una Torre di Babele alla Pip, col pretesto di un anniversario: affinché il programma risultasse vivace l’istituzione avrebbe finto un’operazione di cattura di trafficanti di cocaina con spari e tutto il resto...
Una delle telefonate che ricevetti, quando ormai il lasso di sei mesi per cui mi ero impegnato col canale era sul punto di scadere, fu quella di un’amica che non vedevo da secoli: Rosita Corpancho. Riecco la sua voce c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota del traduttore
  4. Il narratore ambulante
  5. Capitolo primo
  6. Capitolo secondo
  7. Capitolo terzo
  8. Capitolo quarto
  9. Capitolo quinto
  10. Capitolo sesto
  11. Capitolo settimo
  12. Capitolo ottavo
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright