Erano andati a lavarsi al fiume. Francesco si era abbandonato all’abbraccio dell’acqua, si lasciava galleggiare tra le canne per lenire i dolori che sentiva in tutto il corpo. Avevano accudito feriti sino all’ultimo, e dedicato poco tempo alla preghiera. Il campo giaceva sotto una coltre di sfinimento, rotto soltanto dai gemiti dei moribondi e dai latrati di cani lontani. I lettighieri avevano raddoppiato i turni verso le fosse comuni, ma il lezzo restava nell’aria e prendeva alla gola. Era quello della prigione di Perugia. Francesco si incolpava di non avere ringraziato Dio dell’aria pura che aveva respirato nei boschi che gli avevano offerto il primo riparo nella nuova vita.
In un’alba lattiginosa uscà con Illuminato dalle fortificazioni. Le guardie di turno fissavano attoniti i frati che avevano deciso di andare a morire. Qualcuno chiese se volevano regalare altre teste ai saraceni. Presto si trovarono ad attraversare quello che era stato il campo di battaglia, dove giacevano come tra i detriti di un’alluvione le grosse pietre lanciate dai mangani, le quadrelle delle balestre, aste e frecce spezzate, cotte strappate, scudi ammaccati, elmi forati, le chiazze nere lasciate dalle palle incendiarie del fuoco greco, persino le teste mozze che per sfregio venivano lanciate come proiettili. Dalle mura deserte della città assediata le insegne pendevano flosce, fumi esitanti salivano nell’aria.
Davanti ai frati si apriva una terra rigata di canali fetidi, paludi e pozzanghere. Le impronte ancora fresche e i solchi profondi dei cariaggi disegnavano i segni di scritture misteriose, che avvolgevano le carcasse di asini e cavalli, le zampe stecchite protese al sole.
Gli esploratori avevano riferito che il Sultano aveva stabilito il suo campo qualche miglio a sud della città , per assalire sul fianco i cristiani se avessero attaccato le mura.
Francesco avanzava brancolando a occhi chiusi, aggrappato a Illuminato che lo guidava. Incespicava, cadeva spesso. Siamo vicini, siamo quasi arrivati, mentiva Illuminato.
Finalmente le palizzate del campo saraceno presero a ondeggiare mollemente nella calura.
Quasi non si accorsero dei pigri ronzii delle prime frecce che li cercavano svogliatamente. Cercarono di correre muovendo a scatti, per non offrire un bersaglio troppo facile agli arcieri.
– Soldan! Soldan! – si era messo improvvisamente a gridare Francesco. L’affanno della corsa lo rendeva quasi afono.
– Soldan! – ripeteva Illuminato con voce piú forte. Cercava di immaginare cosa avrebbe fatto lui al posto degli armigeri.
Da una garitta uscirono quattro guardie armate di picche, avanzarono senza fretta sui frati, li atterrarono colpendoli al petto e alla testa con il legno delle aste, li abbrancarono e sollevarono come capretti. Guerrieri non erano, ambasciatori nemmeno, forse disertori, ma troppo male in arnese. Forse spie, ma le spie sono come i pidocchi, non si muovono alla luce del sole in un terreno senza difese. Illuminato perdeva sangue da uno zigomo, si teneva il braccio con cui aveva cercato di parare un colpo.
– Soldan! – ansimava il frate piú magro, quello con gli occhi arrossati, che teneva la testa sul petto e si sforzava di sorridere. Parlava con affanno una lingua che sembrava francese. Era manifestamente uno di quei folli attraverso i quali Iddio potente e misericordioso si compiace di far arrivare i suoi messaggi.
Sopraggiunse di malavoglia quello che sembrava un ufficiale, inturbantato con una certa pretenziosità , spada ricurva al fianco, fascia azzurra in vita, calzari nuovi che doveva aver strappato a un morto. Confabulò con le guardie, si avvicinò ai frati, girò loro intorno due volte, considerandoli con un’attenzione disgustata, come fossero pidocchi. Non capiva e non sapeva decidere.
– Soldan! Salam! Paix! Pax! – disse ancora il frate magro, sul punto di svenire. – Salam, – ripeteva.
– Salam! – lo irrise di rimando l’inturbantato, come se stesse usando a sproposito parole di cui non conosceva il significato. – Salam! – ripeté, e scuoteva la testa.
Fece un rapido cenno alle guardie, che trascinarono rudemente i frati per le ascelle verso l’interno del campo, sollevando refoli di polvere. Dei fanti si erano alzati a guardare lo strano corteo.
Qualcuno si toccò la testa con un dito. Quanti folli c’erano tra i Franjis.
– Quando ti percuotono lo devi ritenere una grazia, – mormorò Francesco a Illuminato.
Riuscà a intravedere teli sporchi di fango e sangue, rotoli di cordami, cataste di legna male impilata, canalette di scolo brulicanti di vespe. Anche il campo saraceno sembrava un lazzaretto. Il sole dell’ora seconda era già alto e gli arroventava la nuca. Le labbra crepate sanguinavano. Pensò al centurione che aveva inumidito quelle di Cristo con la spugna.
– May! – ansimò Illuminato. Aveva imparato la parola «acqua» dai prigionieri ai quali aveva cercato di usare misericordia.
– May! – risero le guardie, come di fronte a una richiesta assurda. Li strattonarono piú forte.
Dovevano essere arrivati a destinazione, perché la stretta delle guardie si allentò all’improvviso e caddero in ginocchio. Qualcuno stava raccontando di loro con una sorta di precipitazione isterica. Dall’inasprirsi dei toni si capiva che stava chiedendo di ucciderli. In qualunque lingua c’è un solo tono per chiedere la morte. La voce cessò di latrare, seguà un lungo silenzio.
Francesco cercò di strizzare gli occhi, di sforzarli alla luce che cadeva di sbieco. Erano finiti in un vasto padiglione circolare, nell’aria stagnavano sentori di tabacchi. C’erano tappeti molto grandi, color sangue di bue. Verso il fondo, un ampio sgabello ricoperto da un drappo verdastro. Tutto aveva l’aria provvisoria di un rifugio di nomadi. Uomini stavano accosciati su grossi cuscini, consultavano mappe. Sullo sgabello s’era accomodato un uomo che aveva passato i trent’anni. Stava avvolto in un ampio mantello nero dai bordi dorati, aveva una barba corta e ben curata, mani adorne di anelli d’oro, occhi ardenti. Si sporgeva in avanti per la curiosità , il braccio che puntellava il mento appoggiato al ginocchio.
– Soldan! – esalò Francesco.
– Soldan! – convenne l’uomo, quasi incoraggiante, come di fronte ai balbettii di un infante. Aveva una voce calda e profonda.
Francesco si sorprese a pensare che, per quanto riusciva a scorgere, aveva un volto di armoniosa bellezza. Emanava autorevolezza e benignità , e insieme la pena segreta che gli recava l’ufficio che era chiamato a svolgere. Lo folgorò il pensiero che aveva lo stesso viso del Crocifisso bizantino con cui parlava nella chiesa di San Damiano. Vacillò sotto il colpo, come se avesse ritrovato una presenza amica che credeva perduta. Non capiva se si trattava di una delle tante illusioni con cui il sozzo demone Belial lo voleva confondere o di un segno divino, ma si sentiva invadere da una quieta allegrezza. Sin da quando viaggiava con suo padre aveva imparato che possiamo odiare o temere solo ciò che non conosciamo. Gli avrebbe finalmente parlato, Dio gli avrebbe ispirato parole oneste. Se il signor Legato e il Sultano avessero passato anche un sol giorno sotto la stessa tenda, a dividere il cibo, il sonno e la preghiera, avrebbero capito di non avere ragione di farsi guerra.
Rese grazie al Signore.
– Franjis? – chiese sospettosa una voce che veniva dal gruppo dei cortigiani.
– Franjis, – annuà Francesco. – François, – aggiunse, indicando se stesso e quasi scusandosi del gioco di parole.
Si fece avanti un piccolo uomo anziano, cerimonioso, abbigliato con ricercatezza, dai modi quasi femminei. Sembrava un dignitario, un consigliere. Parlava francese, chiese se potevano parlare in quella lingua, di cui sembrava avere una buona padronanza.
– Choukran. Merci, – lo ringraziò Francesco, e provò a sorridere.
Anche il dignitario ebbe un piccolo sorriso. Chiese ai due Franjis chi fossero e chi li avesse mandati. Francesco disse che non erano disertori o spie, erano giunti al campo del Sultano di loro iniziativa, contro il diverso parere del Legato del Signor Papa, senza armi, con fiducia e speranza. Non li avevano mandati gli uomini, né il Signor Papa medesimo, né i re, i principi e i baroni franjis del Regno di Gerusalemme…
– E allora chi vi ha mandato? – lo interruppe beffardo il dignitario, che aveva detto di chiamarsi Abu Wa’il.
– Ci manda Iddio. Siamo uomini al servizio di Dio. Veniamo da una città vicino a Roma che si chiama Assisi. Abbiamo attraversato il mare da soli, sino ad Acri. Siamo quelli che i Franjis chiamano frati…
– Sufi, – tradusse Abu Wa’il.
Il Sultano annuÃ.
Francesco spiegò che vivevano in povertà e umiltà , soccorrendo chi soffriva e chi era ancora piú povero di loro. Per campare lavoravano e non raccoglievano elemosine per non sottrarle ai poveri. Avevano rinunciato ad ogni avere e predicavano la parola di Dio, che è parola di pace e di fratellanza, perché davanti a Dio tutte le creature sono egualmente degne d’amore. Portavano parole di pace anche sui campi della guerra che già aveva causato tanti lutti e sofferenze, e fatto spargere tanto sangue innocente. Erano voluti venire dal Sultano per parlare di Dio e per parlare di pace.
Abu Wa’il tornò a usare toni sarcastici. Era strano sentire i Franjis parlare di pace. Da cento anni assalivano le terre dei mussulmani, avevano violato le loro città e le loro fortezze, si erano macchiati d’ogni nefandezza. I fiumi di sangue che Goffredo di Buglione si vantava d’aver fatto correre in Gerusalemme continuavano a bagnare la memoria di ogni buon mussulmano. Non li avevano ammoniti neppure le disfatte come aveva loro inflitto il Saladino, nel nome di Allah il Misericordioso. Immemori del passato, insistevano nelle loro imprese inique. Che fossero bande di predoni insaziabili era anche dimostrato dal fatto che quindici anni prima avevano messo a sacco persino una grande capitale cristiana, Costantinopoli. Avevano rubato ogni genere di tesori e ucciso migliaia di fedeli della loro stessa religione. Accorrevano a sciami da tutta Europa ovunque ci fosse odore di saccheggio, come le iene e gli sciacalli. Erano infedeli anche quelli di Costantinopoli? Esistevano forse altri Sepolcri da liberare? Il profeta Gesú, che anch’essi onoravano, aveva predicato anche in quelle terre? Il delegato del papa aveva respinto con disprezzo le offerte di pace che il Sultano aveva generosamente avanzato e comprendevano anche la consegna di Gerusalemme, se i Franjis avessero lasciato l’Egitto. Eppure al-Quds, la Santa, era ancora piú importante per loro che per i cristiani, perché è il luogo del Viaggio notturno del Profeta che di là si era involato in cielo con il suo cavallo e il punto in cui le genti si sarebbero radunate per il Giudizio Universale.
Era dunque chiaro chi aveva voluto la guerra e chi continuava a volerla. In ogni caso Abu Wa’il rimetteva ogni decisione al suo signore e padrone – allargò il braccio in un gesto cerimonioso – al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto, il Sovrano perfetto, come dice il suo nome, figlio dell’illustre e compianto sultano al-Adil scomparso l’anno precedente, nipote del non meno illustre Salah ad-Din Yusuf ibn Ayyub, che i Franjis chiamano Saladino – che Allah li tenga tutti nella sua gloria.
– I cristiani non sono tutti uguali, ci sono i buoni e malvagi presso tutte le genti, – disse Francesco serafico, come avesse appena ascoltato parole di lode. Lui si sforzava di essere diverso dai cristiani che il Sultano conosceva e buon credente come lo erano tanti mussulmani. Era consapevole dei torti di cui i Franjis si erano macchiati, e pregava Dio che si ravvedessero dei loro peccati. Non tutti ascoltavano la parola di Dio, ed egli era venuto proprio per questo: per parlare in primo luogo ai Franjis. Si doleva e si rimproverava, lui povero frate illetterato, che fino a quel momento la sua predicazione avesse dato scarsi frutti. Ciò era avvenuto per colpa esclusiva dei propri peccati. Cercava di attenersi alle parole dei Santi Vangeli e di operare secondo i precetti che contenevano: amare e servire il nostro prossimo, anche coloro che ci offendono e ci fanno del male. Porgere l’altra guancia a chi ci percuote. Rallegrarci delle tribolazioni e delle umiliazioni che Dio ci manda e rimetterci pienamente ai suoi disegni… Fare dono della nostra vita agli altri, aiutarli a comprendere la parola di Dio e a cambiare vita. Dismettere gli egoismi, le avidità , la brama di ricchezze cosà come i serpenti dismettono la loro vecchia pelle. Tutto questo era difficile, tuttavia andava tentato.
Parlando, Francesco aveva cominciato a muoversi, a saltellare, a danzare. L’elenco delle prove che occorre superare per consegnarsi all’abbraccio di Dio lo trasfigurava. Il Sultano, assorto, si forzava di capire, scambiando occhiate con i suoi.
Abu Wa’il faticava a tradurre, bollicine di saliva gli fiorivano alle labbra, incespicava nelle parole, ma il Sultano sembrava intendere benissimo. Disse che per l’indomani avrebbe convocato i suoi sapienti, i suoi sufi, per discutere con lui, che aveva detto parole oneste, inattese e accettabili. Consegnava gli ospiti ai suoi dignitari, che li avrebbero rifocillati e provveduti di un giaciglio. Affidava inoltre colui che si faceva chiamare François ai dottori, affinché curassero la malattia che affliggeva i suoi occhi. Sorrise: era meglio non finire nelle mani dei dottori franjis, emeriti macellai, che per curare gli occhi sarebbero stati capaci di tagliargli la testa tutta intera.
– Grands boucherons, – confermò il Sultano quando il dignitario ebbe tradotto, e scosse la testa. Disse che erano stati i dottori mussulmani a curare persino re Baldovino, primo re di Gerusalemme, dalla sua lebbra. La loro reputazione era ben meritata.
– Voilà la vraie cavalerie, – disse ancora il Sultano alzandosi per accomiatarsi.
Si era lasciato attorniare dai due o tre consiglieri che sino ad allora erano rimasti in silenzio. Sembravano indignati, guardavano i sufi latini e chiedevano qualcosa con una certa insistenza, facendo il gesto di tagliare la gola.
Il Sultano aveva scosso vigorosamente la testa in segno di diniego. Parlò ancora, seccamente: – Come ha detto il Profeta, l’uomo forte non è colui che riesce a gettare a terra l’avversario, ma colui che sa controllarsi nel momento della rabbia, – tradusse l’interprete in un soffio.
I sufi dei Franjis furono scortati in una piccola tenda poco distante e fatti accomodare su stuoie pulite. Nel pomeriggio arrivò un inserviente che poggiò sulla stuoia una ciotola di ceci, un pane che chiamava pita e una caraffa d’acqua.
Piú tardi si affacciò con discrezione quello che doveva essere un dottore: era anziano, aveva una corta barbetta ricciolina, il respiro un po’ affannoso, il volto di un cammello malinconico e la rassegnazione di chi ha visto troppe cose e non si stupisce piú di nulla. Si chinò sugli occhi di Francesco, cercò di divaricare con delicatezza le palpebre, mormorò qualcosa a se stesso, uscà dalla tenda, tornò poco dopo con degli impacchi di erbe. A gesti spiegò che il malato avrebbe dovuto tenerli sugli occhi il piú a lungo possibile. Accarezzò la sua testa, mormorando parole che comprendevano il nome di Allah.
– Choukran, – disse Francesco in un soffio.
A sera arrivò alla tenda il richiamo del muezzin. – Allah è il sommo, – gorgheggiava una voce melodiosa. – Testimonio che non v’è altro dio se non Allah. Testimonio che Muhammad è l’in...