Il nome ufficiale è Vangelo secondo Giovanni. Ma davvero quel testo è stato scritto da un qualche Giovanni? Verso la fine del II secolo cominciò a circolare una versione, accreditata da Ireneo vescovo di Lione nel suo Adversus Haereses, secondo la quale: «Giovanni, il discepolo del Signore, colui che riposò sul suo petto, ha pubblicato anch’egli un Vangelo mentre dimorava a Efeso in Asia». Questa affermazione sembrò trovare conferma in un elenco di testi sacri risalenti agli stessi anni – ma scoperto solo nel Settecento – noto come Canone muratoriano. Quindi, la questione pareva chiusa: un nome, una data, un’attribuzione autorevole. Lentamente invece le cose sono cambiate e l’iniziale certezza è stata incrinata da numerose ipotesi alternative. Studi piú approfonditi, consentiti da piú raffinati strumenti filologici, storici e sociologici, hanno messo in dubbio la vecchia paternità del testo. Un forte contributo a una probabile origine collettiva e piuttosto tarda di questo Vangelo l’ha dato Rudolf Bultmann con argomenti di tale solidità che da quel momento si è preferito parlare non piú di Giovanni bensí di Scuola giovannea. Non una sola testa e una sola mano, per quanto ispirata, bensí piú teste e piú mani legate da una comune visione di Gesú detto il Cristo e della sua missione nel mondo.
Sicuramente colpisce in quel Vangelo la forte diversità d’approccio rispetto ai fatti narrati e soprattutto alla figura di Gesú descritta negli altri tre Vangeli non a caso detti «sinottici» – cioè visti e letti insieme per i molti parallelismi. Secondo alcuni esegeti, nel Vangelo detto di Giovanni (o Quarto Vangelo) non bisognerebbe nemmeno cercare storia ma arte poiché l’origine delle pagine sarebbe puramente letteraria. In ogni caso è andata via via consolidandosi l’ipotesi che nel primo e ancora imprecisato cristianesimo, quel testo fosse da attribuire a una scuola particolare. La composizione di quelle pagine avrebbe attraversato varie fasi ad opera di altrettanti autori.
Prima di addentrarsi nel persistente, affascinante, enigma di questo testo, vale forse la pena di tratteggiare la figura del suo supposto autore, in base ai pochi elementi di cui disponiamo.
Giovanni detto l’Evangelista, che non va confuso con Giovanni il Battista, è stato uno dei dodici apostoli di Gesú. Sarebbe nato intorno al 10, morto a Efeso intorno agli anni finali del I o iniziali del II secolo (98-110). Era figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo detto il Maggiore con il quale, insieme a Pietro, formava il terzetto dei piú stretti seguaci del Maestro. Di professione era stato pescatore, dunque uomo di umili origini, quasi certamente di scarsa cultura. Gesú aveva invitato lui e suo fratello a seguirlo avendoli visti mentre, sulla riva del lago di Tiberiade, rammendavano le reti insieme al padre Zebedeo. Questa umile condizione iniziale ha la sua importanza se si pensa all’elevato livello letterario e teologico del testo. Anche vero però che Giovanni aveva avuto una precedente esperienza religiosa come seguace del suo omonimo Giovanni il Battista. Dunque, non si trattava di un semplice pescatore ma di un uomo con curiosità e vocazione spirituali.
È lui comunque a essere identificato come «il discepolo piú amato» e, dei Dodici, è ancora lui il solo a essere presente, accanto a Maria, nel momento della morte in croce del Maestro.
Basta questo a farne l’autore certo del Quarto Vangelo? Non basta, tanto è vero che gli studiosi hanno continuato a interrogarsi sulle origini di questo testo fondamentale nella dottrina cristiana e tuttora continuano a farlo in una ricerca che non avrà fine poiché si tratta di tornare a esaminare fonti da tempo individuate e analizzate.
Si può tuttavia affermare con certezza che l’analisi accurata del testo consente di distinguere i vari interventi che si sono succeduti con introduzione di nuovi materiali a mano a mano che i gruppi giovannei s’allontanavano dalle originarie comunità giudaiche. Alcuni di questi rifacimenti hanno determinato incongruenze e ripetizioni di idee o eventi. Per esempio, nel brano del capitolo 6 intitolato (nell’edizione Cei 2008) Il pane della vita, Gesú annuncia due volte di seguito di essere nutrimento celeste; la prima ai versetti 35-50, la seconda, subito dopo, ai versetti 51-58. Un altro passo problematico è quello contenuto nei versetti 1-18 del capitolo 10 nel quale Gesú illustra la funzione salvifica del buon pastore premuroso custode del gregge al contrario dei mercenari: «Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde». La metafora del buon pastore è bella ed efficace e infatti il detto «Io sono il buon pastore» gode di vasta popolarità. Gli studiosi però fanno notare come, inserita in quel punto, l’esortazione appaia fuori contesto. Cosí appaiono fuori contesto ovvero narrativamente incoerenti certi passi dove Gesú che figurava a Gerusalemme viene di colpo a ritrovarsi nel Nord del paese, in Galilea. Questo accade per esempio nei capitoli 5 e 6 che sarebbero stati invertiti. Il capitolo 5 è ambientato a Gerusalemme; il capitolo 6 inizia con le parole: «Dopo questi fatti Gesú andò dall’altra riva del mare di Galilea» raccordandosi cosí non al capitolo precedente ma al capitolo 4, ambientato per l’appunto in Galilea, a Cafarnao. C’è poi la questione solo parzialmente risolta del doppio finale. Il Vangelo sembra concludersi al capitolo 20, salvo riaprire con un breve capitolo 21 (aggiunto in seguito?) che ripete la chiusa del capitolo precedente.
Cosí numerose le incertezze, che dopo tanti anni dedicati alle piú scrupolose esegesi, nessuna ipotesi in pratica viene piú scartata. Continua perfino a resistere quella iniziale che ci sia stato un unico autore del testo anche se intervenuto piú volte, dato che nessuno mette in discussione le molteplici riscritture. Quel singolo autore avrebbe dunque messo mano piú volte al lavoro per aggiungere detti, segni, episodi dettati dalle mutate condizioni che il nascente cristianesimo andava incontrando. È anche possibile che i vari episodi in un primo tempo siano stati raccolti isolatamente e solo in seguito riuniti per farne un racconto il piú possibile unitario e compiuto; ovvero un «vangelo».
Il testo era probabilmente destinato a cristiani non di origine ebraica, con formazione culturale di tipo ellenistico. Un vangelo formatosi dunque mentre si delineava la separazione dei seguaci del Cristo dal tronco originario. Secondo un’ipotesi piuttosto diffusa, i seguaci della comunità definita «giovannea» subirono o provocarono una rottura netta con i Giudei per cui furono allontanati dalle sinagoghe. Si tratterebbe in definitiva di una comunità giudeocristiana che affronta il trauma della separazione fra ebrei ortodossi e neocristiani, verificatasi dopo la distruzione di Gerusalemme e del Tempio ad opera delle truppe romane del generale Tito. Questa circostanza spiegherebbe le profonde diversità di questo testo da quello degli altri Vangeli canonici. Se si accetta questa possibilità, il testo giovanneo si potrebbe leggere come un documento che testimonia la progressiva separazione di un gruppo di seguaci di Gesú dal resto dell’ufficialità giudaica indisponibile a riconoscerne la natura messianica.
Nel testo piú antico, quello di Marco, Gesú muore gridando il versetto del salmo: «Dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato?» È un grido straziante e disperato; se dobbiamo credere a Marco, Gesú – come abbiamo già ricordato – muore pieno d’angoscia per aver fallito la sua missione. A questo si riferirebbe il timore dell’abbandono, non ai patimenti della crudele pena subita.
Nel testo giovanneo Gesú muore in modo completamente diverso. Il grido straziante è scomparso, al suo posto ritroviamo una rasserenata consapevolezza della sua discesa sulla terra. In Marco muore un uomo, in Giovanni l’Inviato celeste commenta pacatamente l’esito del suo passaggio: «Dopo aver preso l’aceto, Gesú disse: “È compiuto!” E, chinato il capo, consegnò lo spirito».
È compiuto, ovvero sono stato inviato in questo mondo per redimere, immolandomi, il genere umano dal peccato di Adamo. Sto morendo su questo infame legno, ciò che il Padre m’aveva affidato è stato fatto.
Curiosamente troviamo nel Vangelo detto di Giovanni, un punto di contatto con il Vangelo detto di Giuda: la consapevolezza della missione redentrice che chiedeva a Gesú di spogliarsi della carne con il sacrificio della vita. Agnus Dei.
AUGIAS In un capitolo precedente lei ha accennato all’annuncio dell’Inviato celeste, ovvero Gesú detto il Cristo, l’Unto. Lo ha riassunto nelle parole: non piú culti ma spirito e verità. Frase enigmatica ovvero di ampio e impreciso significato di cui il Vangelo detto di Giovanni ci dà del resto numerosi esempi. L’argomento merita un approfondimento.
FILORAMO Nel Vangelo di Giovanni l’annuncio di questo Inviato celeste non coincide con l’arrivo imminente del regno di Dio. L’Inviato viene a rivelare se stesso, perché è cosí che si apre la possibilità di un culto in spirito e verità, ovvero separato dalla materia.
AUGIAS Ma se accogliamo un punto di vista unicamente spirituale, che cosa resta della «Resurrezione»?
FILORAMO Infatti l’autore del Vangelo che chiamiamo di Giovanni s’è trovato in difficoltà rispetto a questo evento. Per un aspetto sarebbe andata benissimo la risposta che lei ha scelto: è stata una resurrezione spirituale e interiore, che poi corrisponde alla risposta che si sono dati molti cristiani gnostici.
AUGIAS A me personalmente sembra anche molto piú bella, con tutta franchezza. Tra l’altro, non crede che questa interpretazione sia piú vicina alla predicazione di Gesú, ai suoi fini? Prima di cambiare il mondo, Gesú voleva che cambiassero gli uomini. Un’interpretazione spirituale della resurrezione sembra quindi coerente con quanto andava dicendo.
FILORAMO Il Vangelo di Giovanni ha un’attribuzione complessa, come ricordato. Noi lo chiamiamo «di Giovanni» solo per comodità storica. In ogni caso, chiunque sia l’autore, è evidente che s’è trovato in difficoltà. Da un lato la concezione spiritualista di questo «Inviato celeste» avrebbe dovuto comportare una visione ugualmente spiritualista sulla resurrezione; d’altra parte il testo esprimeva la posizione di gruppi legati a una certa idea dell’incarnazione come si vede dal prologo, che tenta di mettere insieme l’assoluta trascendenza del figlio (il Logos) e il fatto che questo Logos assume la carne.
AUGIAS Ricordiamoli questi versetti misteriosi e affascinanti: «In principio era il Verbo [logos], e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta». Dov’è l’incarnazione?
FILORAMO L’incarnazione si trova subito dopo, al versetto 14: «E il Verbo si fece [egheneto] carne [sarx] e venne ad abitare in mezzo a noi». Il Logos, che è Verbum Dei, Parola di Dio, assume la carne dell’uomo: questa è una distinzione fondamentale rispetto a una visione gnostica. Essa «pone la sua tenda» (questo significa il verbo greco skenoun, normalmente tradotto con «abitare») tra gli uomini; rimanda a una tipica visione dell’Antico Testamento, per esempio in Esodo dove a Israele è ordinato di fare una tenda (il Tabernacolo) cosí che Dio possa abitare presso il suo popolo: anticipazione del sancta sanctorum del Tempio di Gerusalemme dove risiedeva la Gloria di Dio. Con la differenza che ora il Figlio di Dio come tenda assume il corpo in carne e ossa dell’uomo per redimerlo. Dunque, fin dal prologo vi è una dimensione spirituale fortissima, ma anche la chiara sottolineatura che l’Inviato celeste, per comunicare con gli uomini, ha assunto il loro corpo e la loro carne. Anche il Risorto ha un corpo, e lí comincia la storia della cristologia, la riflessione sulla complessa natura del Cristo risorto, che, per Giovanni, è nel contempo uomo e Dio.
AUGIAS Qui si apre anche una serie di complicati paradigmi logici e teologici sui quali s’è discusso per secoli.
FILORAMO Semplificando al massimo: se il Figlio di Dio ha assunto un corpo umano, questo vuol dire che ha assunto anche un’anima e una volontà umane? però se è cosí, non ha assunto anche un’inclinazione al peccato? ma se Cristo è impeccabile, allora chi decide in lui: il Dio o l’uomo? e cosí via. Alla fine, come si è visto, al Concilio di Calcedonia del 451 passò la tesi, che divenne dogma, che le due nature, umana e divina, inconfuse cioè non mescolate, sono presenti in Cristo come unica persona: con quella umana egli partecipa pienamente alla natura umana, mentre con quella divina conserva pienamente la sua divinità. Naturalmente questa soluzione teologica, che viola le regole piú elementari della logica aristotelica (mettere insieme generi distinti, a e b), è stata rifiutata dalle correnti razionaliste, antiche e moderne.
AUGIAS Fino ad arrivare all’ipotesi di stampo illuminista, cioè totalmente razionale, della tomba vuota già introdotta dai polemisti pagani. Il filosofo tedesco Hermann Samuel Reimarus alla fine del Settecento ipotizzò che gli apostoli avessero trafugato il corpo facendolo sparire, per poi propalare la notizia della resurrezione. Cavalcando l’onda della nuova fede, si sarebbero fatti una loro Chiesa.
FILORAMO Mi sembra un esempio raffinato di machiavellismo politico, di un razionalismo estremo; non mi spingo fino a questo punto. Ritengo plausibile che ci siano stati gruppi di discepoli, inclusa la Maddalena, che potevano avere un carattere particolarmente emotivo – dati i loro precedenti – che hanno creduto nella resurrezione del cadavere, magari aiutati da alcune visioni o allucinazioni. Paolo per esempio ha influenzato la vita di milioni di persone, avendo conosciuto Gesú solo attraverso visioni e apparizioni. Quella che lo fa cadere a terra e lo acceca sulla via di Damasco è la prima nel racconto di Luca, ma il testo fondamentale è la Lettera ai Galati dove dice esplicitamente di aver ricevuto la rivelazione e la fede attraverso una visione del Cristo risorto. Io, come storico, devo prendere per buona la fede di Paolo e credere nella sincerità delle sue visioni, altrimenti è meglio che cambi mestiere.
AUGIAS Volendo accentuare maggiormente in senso razionalistico, potremmo aggiungere che Paolo soffriva di un male imprecisato – anche questo lo denuncia lui stesso – attribuibile a un disturbo di origine nervosa, male che avrebbe potuto comportare deliqui e visioni.
FILORAMO Faccio un’osservazione legata al nostro tema. Che cosa sarebbe il mondo senza delle belle visioni? Non esistono solo quelle dei poeti, c...