
- 336 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Come prima delle madri
Informazioni su questo libro
Chi è l'uomo nel bosco con la testa fracassata? Che cosa è accaduto a Irina, la compagna di giochi? E ancora, quali segreti inconfessabili nasconde Tea, la bellissima madre del protagonista? Sullo sfondo dell'occupazione nazista e della lotta partigiana, Pietro, un dodicenne timido e introverso, è costretto a vivere la propria iniziazione all'esistenza attraverso la scoperta di atroci misteri che lo porteranno a guardare con occhi disincantati la realtà che dovrà affrontare. Intorno a lui le vicende delle donne di casa - Tea, Irina, Nina -, il mondo chiuso del collegio-prigione e il rumore della guerra.
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Informazioni
Print ISBN
9788806240684eBook ISBN
9788858431054Parte prima
Capitolo primo
Per molto tempo, il ragazzo si era svegliato con la luce che cadeva dritta sul cuscino e gli schiudeva le palpebre poco alla volta. Si era svegliato al canto dei piccoli uccelli – tortore dalla voce opaca, passeri e pettirossi – impigliati tra i rami degli alberi nel parco, la mano destra posata sullo stomaco e la sinistra ripiegata a pugno sotto il cuscino, una gamba tesa e l’altra ad angolo, con il piede a sfiorare l’incavo del ginocchio. La sua camera era piccola, tappezzata di stoffa gialla e con l’unica finestra alla sua sinistra, poco lontana dalla sponda del letto. Una finestra lunga, protetta da scuri di legno fradicio di pioggia, coperta da una tenda di velluto verde scuro, ormai quasi trasparente. Allungando una mano, il ragazzo poteva strofinarla tra le dita e sentire la sua dolcezza fredda tra i polpastrelli. Ancora prima di spalancare del tutto gli occhi, ogni giorno, ha assaporato la morbidezza del cuscino e il calore del suo corpo tra le lenzuola, ha avvicinato la mano alla tenda e l’ha stretta tra le dita, gli uccelli hanno cantato e dal piano inferiore della casa gli sono arrivati l’odore del caffè appena fatto e le voci di sua madre e di tutte le altre donne che abitano la casa.
Per molto tempo, il suono di quelle voci è stato il segnale della giornata che incominciava, della vita che tornava a muoversi.
Per molto tempo.
Per tutto il tempo che ricorda.
Ma ora, ogni cosa sembra diversa.
Questa mattina in cui il ragazzo si sveglia di soprassalto, il buio è ancora denso e fondo. Dagli scuri uniti della finestra non filtra nemmeno una sfumatura piú chiara. Tutto è nero e fermo. E gli sembra strano, perché da quando dorme in questa stanza, da sempre quindi, se gli capita di svegliarsi, fiuta subito la distanza degli oggetti tra loro, la calma indifferenza che li fa star fermi al loro posto.
Questa volta invece non sente niente. Gli occhi continuano a contrarsi per trovare il giusto fuoco, ma non c’è niente da fare: quello che avvolge la stanza è un buio sconosciuto. Neutro.
È stato un sogno a svegliarlo. Lo ha costretto a sollevarsi di scatto, la fronte sudata e il cuore bloccato in un salto troppo lungo e veloce. Nel sogno, c’era uno stagno putrido. L’acqua era bassa e fangosa, verde scuro striato di giallo. Lui era molto piú piccolo di come è davvero adesso: era un bambino e non sapeva ancora camminare, strisciava tra le canne e gli insetti che sbucavano dall’acqua melmosa, strisciava con tutta la forza degli avambracci piccoli e delle ginocchia tenere. Strisciava, ma non riusciva mai a raggiungerla. Lei era là , immobile, il corpo vestito di fango verde. Anche la sua pelle stava diventando verde. Gli occhi erano chiusi, la bocca serrata. I capelli ondeggiavano come alghe vive nell’acqua morta. Serpenti lunghi che si muovevano a scatti. Lui strisciava verso la punta dei suoi seni. Scoperti e fermi, avvolti da una luce gialla e calda, solo loro. Il resto era aria che gli incollava la gola e le narici come muco asciutto. Le sue mani si sollevavano e riuscivano finalmente a toccarla. La pelle era umida. Le dita ci scivolavano sopra, la bocca si avvicinava alla punta dei seni, sperando in un fiotto di latte caldo schizzato tra i denti e buttato giú, nella gola secca. Un caldo getto di vita in tutta quella morte che gli stava intorno. Ma erano vuoti, carne gonfia d’aria e basta.
Non era rimasto niente di vivo, da nessuna parte: sua madre era morta.
Il ragazzo si è svegliato di colpo convinto che il mondo non sia piú da nessuna parte: tutto fango e sterpaglie, insetti e cose morte e il buio della stanza che gli preme contro. Un buio che non riconosce. Sporge la mano nell’aria che è densa al tatto, come gelatina di pollo. La mano si muove a dita tese, cerca l’esatta inclinazione del piano del comodino, l’interruttore della luce. Niente. Continua a muovere le dita, ad aprirle, a tenderle, a spingerle verso una porzione d’aria ancora inesplorata. E finalmente lo trova: dalla parte opposta rispetto a quella che ricordava.
Questa è un’altra stanza, non la sua.
C’è una finestra con gli scuri serrati, senza tenda. Due sedie, una scrivania con due cassetti sotto il piano. Un altro letto e dentro, una gobba che si muove a scatti e mugugna parole indecifrabili. Un piede sfugge al groviglio di lenzuola. È grasso e coperto di efelidi. Poi sbuca una mano e infine una testa che rotola fuori dalla coperta tirata fino in cima. È una testa arancione, coperta di riccioli grossi e fitti. Sembra senza corpo, una testa mozzata che da un istante all’altro aprirà gli occhi, la bocca e poi cascherà sul pavimento e si spaccherà in mille pezzi.
Lento, il ricordo si mette a fuoco.
Quando erano usciti di casa erano le quattro e mezza o forse le cinque di un pomeriggio d’inizio autunno, ma che sembrava già inverno.
Lui aveva la febbre alta e faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Le palpebre gli scivolavano giú di continuo. Anche le gambe e le braccia erano molli. Era stato suo padre a sostenerlo, a prenderlo tra le braccia e sollevarlo. E anche se era coperto all’inverosimile – maglioni, doppie calze, pantaloni di fustagno, sciarpa e cappotto – e suo padre è un uomo alto e sottile, quasi fragile – lo aveva sollevato senza sforzo, unendo le braccia sotto di lui.
Sentiva il vento freddo corrergli addosso. Guardava l’alito uscire dalla sua bocca e condensarsi davanti a lui in piccole nuvole compatte e bianche. Le osservava disfarsi veloci nell’aria buia. Ascoltava i passi rapidi di suo padre e quelli ticchettanti della mamma. Un gioco di percussioni che gli ricordava uno spettacolo che non aveva mai visto, ma che sua madre gli aveva raccontato cosà tante volte e cosà bene, che si era convinto d’esserci stato anche lui nel teatro di una città lontanissima, sotto un palcoscenico dove una negra a seno nudo, con addosso soltanto un ridicolo gonnellino decorato con banane di stoffa, dimenava cosce e natiche. La negra strabuzzava gli occhi e li incrociava, riempiva d’aria le guance e sbuffava fuori suoni assurdi e stridenti. Le banane della gonna dondolavano avanti e indietro, avanti e indietro. Il pubblico applaudiva impazzito dentro l’aria densa di fumo e odori e muoveva le braccia a tempo con la musica. Banane, applausi e musica, via il vento freddo di quel pomeriggio già buio; dentro la sua testa bollente di febbre c’erano solo la danza e la musica. Poi si era addormentato. La spalla di suo padre, ossuta e stretta, un po’ spiovente, era un masso appuntito sotto il sole di un paese sconosciuto in cui la gente girava nuda per le strade e aveva il colore della noce di cocco.
Il viaggio in macchina il ragazzo lo ricorda solo per l’odore della benzina. Di tanto in tanto si svegliava con un conato di vomito, subito zittito dalla febbre. Il pomeriggio era diventato notte. Campagna nera attraverso la quale l’automobile fila veloce, silenzio teso tra suo padre e sua madre e stelle piccole al di là del parabrezza. Si era addormentato e quando aveva riaperto gli occhi, la strada aveva cominciato a rollare. C’era uno strano suono d’acqua che sbatteva e frusciava attorno a lui. Poi, un portone si è aperto e la testa di sua madre è scomparsa. Il cappello di lana grigio ha scintillato nel buio con un unico guizzo. Ed è sparito.
La gobba nel letto di fianco al suo si solleva di scatto in un fruscio sordo di coperte e lenzuola che si accartocciano. Ne emerge un ragazzo grasso che lo fissa, gli occhi incollati di sonno, i ricci rosso fuoco che gli cadono sulla fronte.
Perché hai acceso la luce?
Lo fissa senza rispondere, la bocca asciutta, la testa vuota. Lo guarda. Guarda le chiazze rosa sul naso e sulle guance. L’altro si alza e bestemmia nel momento in cui le piante dei piedi toccano il marmo freddo del pavimento. Le braccia robuste scendono a sfiorargli i fianchi e oscillano avanti e indietro; le gambe sono divaricate in una posa ridicola e piena di sussiego.
Distoglie lo sguardo da quei piedi piatti e grassi. Si mette a sedere sul letto, scansa le coperte e cerca con gli occhi calze e scarpe. Come se potesse scappare.
Di’ un po’ tu, come ti chiami?
I suoi occhi fanno fatica a tornare su quella faccia. Gli gira la testa e il respiro è un risucchio stretto dentro i polmoni.
Rispondi, come ti chiami?
Pietro.
Il ragazzo rosso rivolge verso se stesso un dito corto e grasso.
Io mi chiamo Matteo Italo Francesco, ma puoi chiamarmi Matteo e basta.
Gli sembra che quel dito si sia conficcato nel petto del ragazzo. Immagina che adesso non riuscirà piú a levarlo e dovrà restare cosà tutta la vita: il braccio sollevato e il dito indice piantato nel petto.
Di’, mi hai sentito?
Annuisce senza interesse, gli occhi già altrove, alla ricerca delle scarpe. Ma quello resta là fermo e incalza.
Qua dentro, in questa stanza, ci sono arrivato prima io e sono io che comando. Che cavolo ti piglia di accendere la luce in piena notte? E non mi guardare con quella faccia da imbecille! Parla. Ce l’hai la lingua?
Continua a guardarlo in silenzio. L’altro si china e afferra un calzino buttato in un angolo.
Poi vedi di tenere le tue robe in ordine, se no i preti se la prendono con me e io non ho nessuna intenzione di essere punito per colpa tua. Chiaro?
Annuisce di nuovo, piú per riflesso condizionato che per altro.
E adesso spegni, che voglio dormire.
Pietro spegne la luce, si stringe sotto le coperte. Ascolta i movimenti del compagno che sbuffa rigirandosi nel letto, il suo respiro diventare pesante. Ascolta i battiti lenti e uguali del proprio cuore.
È un animale in trappola.
Questo è il primo pensiero che gli arriva quando riapre gli occhi, stranito dai rumori che percorrono i muri e fanno vibrare il letto. Piú che un pensiero è una sensazione fisica. È premuto, costretto, è spinto da tutte le parti e non può muovere nemmeno un muscolo.
Il secondo pensiero che fa è che potrebbe essere morto. Il terzo pensiero è che no, non è morto, riesce ancora a respirare, il cuore pompa, può sentirlo se trattiene il respiro un secondo, le dita riprendono a palpitare, basta muoverle, il sangue ci batte dentro. Non è morto, ma di certo sta per morire, e allora piange, perché per morire questo è davvero il posto piú brutto del mondo. Un inferno deforme e cattivo che fa venir voglia di piangere. Le lacrime gli scendono silenziose, piccoli corsi d’acqua a flusso costante.
Questo è il posto piú brutto del mondo e sua madre non c’è. Morirà da solo, senza le sue mani ad accarezzargli la fronte, senza la sua voce che gli sussurra nell’orecchio parole assurde che solo lui può capire. Lingua da notte, da letto, da coperte...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Come prima delle madri
- Prologo
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Il libro
- L’autrice
- Della stessa autrice
- Copyright