Nel 2008, alla fine dell’estate, andai a vivere a Mosca per occuparmi di mia nonna. Aveva quasi novant’anni e non la vedevo da circa un decennio. Ormai della famiglia le eravamo rimasti soltanto io e Dima, mio fratello; la sua unica figlia, nostra madre, era morta da tempo. Baba Seva abitava da sola nel suo vecchio appartamento moscovita. Quando le telefonai per dirle che sarei andato da lei, sembrò molto contenta, e anche un po’ confusa.
I miei genitori avevano lasciato l’Unione Sovietica con noi figli nel 1981. Io avevo sei anni, Dima sedici, e questa differenza di età è stata cruciale. Io sono diventato americano, lui è rimasto sostanzialmente russo. Subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Dima tornò a Mosca in cerca di fortuna. Da allora l’aveva trovata, la fortuna, e persa, parecchie volte; non sapevo a che punto fosse adesso. Ma un giorno mi scrisse su Gchat per chiedermi se potevo andare a Mosca a stare con Baba Seva mentre lui era a Londra per un periodo di tempo non meglio specificato.
– Perché devi andare a Londra?
– Te lo spiego quando ci vediamo.
– Vuoi che molli tutto e attraversi mezzo mondo e non mi dici nemmeno perché?
Tutte le volte che parlavo con mio fratello diventavo petulante. Detestavo fare cosí ma non riuscivo a trattenermi.
– Se non vuoi venire basta dirlo, – ribatté Dima. – Però non su Gchat.
– Be’, – dissi io, – c’è un modo per cancellare i messaggi, cosí non li vede nessuno.
– Non fare l’idiota.
Quel che intendeva era che doveva esserci di mezzo gente che non scherza, che avrebbe trovato il modo di leggere lo stesso le sue chat. Forse era la verità o forse no: con Dima la linea di demarcazione tra questi due concetti era sfuggente.
Quanto a me, non ero del tutto idiota. Solo un po’, diciamo. Avevo passato quattro lunghi anni all’università, seguiti da otto anni ancor piú lunghi, durante i quali mi ero specializzato in letteratura e storia russa, avevo bevuto birra e vinto il torneo di hockey della scuola di dottorato (cinque volte!) Poi mi ero buttato nel mercato del lavoro restandoci tre anni consecutivi senza ottenere alcun risultato. A quel punto avevo dato fondo a tutte le borse di studio post-doc possibili e immaginabili e mi ero messo a insegnare online nell’ambito della nuova iniziativa dell’università, i Pmooc, corsi online aperti a tutti a pagamento, benché la parte del pagamento si riferisse in particolare agli studenti, che dovevano tirare fuori un sacco di soldi, e molto meno ai docenti, che invece venivano pagati pochissimo. Di sicuro non abbastanza per continuare a vivere, persino da quasi poveri, a New York. Insomma, sulla questione della mia idiozia c’erano prove sia in un senso sia nell’altro.
Da una certa prospettiva, il fatto che Dima mi avesse scritto proprio allora era provvidenziale. D’altra parte mio fratello aveva un vero talento per coinvolgere la gente in imprese tutt’altro che vantaggiose. Una volta era riuscito a convincere il suo ormai ex migliore amico Tom a trasferirsi a Mosca per aprire una panetteria. Malauguratamente Tom aprí il suo negozio troppo vicino a un’altra panetteria, e gli andò bene che riuscí a ripartire soltanto con una lussazione alla spalla. Ad ogni buon conto, scelsi la cautela. Dissi: – Posso stare da te? – Nel 1999, dopo il collasso economico russo, Dima aveva comprato l’appartamento di fronte a quello della nonna, in modo che risultasse piú semplice darle una mano.
– L’ho subaffittato, – mi rispose. – Però puoi stare nella nostra camera a casa della nonna. È abbastanza pulita.
– Ho trentatre anni, – dissi, intendendo con questo che ero troppo vecchio per vivere con mia nonna.
– Se ti vuoi affittare un appartamento fai pure, però deve essere molto vicino.
La nonna viveva nel centro di Mosca, dove gli affitti erano alti quasi quanto quelli di Manhattan. Con il mio stipendio dei corsi online avrei potuto affittare al massimo una poltrona.
– Posso usare la tua macchina?
– L’ho venduta.
– Fratello, quant’è che stai via?
– Non lo so, – disse lui. – E sono già partito.
– Oh, – dissi. Era già a Londra. Doveva essersene andato in gran fretta.
E pure io, da parte mia, non vedevo l’ora di andarmene da New York. L’ultimo dei miei ex colleghi del dipartimento di Slavistica era partito da poco per la California, perché gli avevano offerto un lavoro, e la ragazza con cui stavo da sei mesi, Sarah, mi aveva appena piantato in uno Starbucks. «È che non vedo dove vada a parare», aveva detto, riferendosi, immagino, alla nostra storia, però, di fatto, anche a tutta la mia vita. E aveva ragione: persino quello che mi era sempre piaciuto fare, cioè leggere, scrivere, insegnare storia e letteratura russa, non mi divertiva piú. Ormai ero destinato a un futuro in cui avrei corretto svogliatamente compiti fatti svogliatamente da studenti poco interessati, senza altre prospettive per il domani.
Mosca, invece, rimaneva un posto speciale, per me. Era la città dove erano cresciuti i miei genitori, dove si erano incontrati, la città dove ero nato. Era grande, brutta, pericolosa, ma era anche la culla della civiltà russa. Persino quando nel 1713 Pietro il Grande l’aveva abbandonata a favore di San Pietroburgo, persino quando Napoleone l’aveva saccheggiata, nel 1812, Mosca era rimasta, come disse Aleksandr Herzen, la capitale del popolo russo. «Riconoscevano il legame di sangue con Mosca dal dolore provato nel perderla». Esatto. E non ci tornavo da un bel po’. Negli anni in cui ci ero andato d’estate, dopo il college, mi ero stufato della sua povertà e della sua disperazione. Gli ubriachi aggressivi in metropolitana, i gangster in tuta e giacca di pelle che giravano guardando male i passanti, il tizio che ogni sera mangiava dai bidoni dell’immondizia vicino a casa di mia nonna per tutta l’estate che avevo trascorso lí nel 2000, gridando, a intervalli, «Stronzi! Sanguisughe!» per poi ricominciare a mangiare. Non ero piú tornato da allora.
Però tenevo le mani staccate dalla tastiera; volevo che Dima mi concedesse almeno una piccola cosa, se non altro per il mio orgoglio.
– C’è qualche posto dove posso giocare a hockey? – chiesi. Con il declino della mia carriera accademica, il numero di ore dedicate all’hockey aveva subíto un’impennata. Anche d’estate ero sulla pista tre giorni alla settimana.
– Ma scherzi? – rispose Dima. – Mosca è la mecca dell’hockey. Non fanno altro che costruire stadi del ghiaccio. Ti trovo un posto in una squadra appena arrivi.
Ci pensai su.
– Ah, e il mio wi-fi arriva dall’altra parte del pianerottolo, – disse. – Connessione gratuita.
– Okay, – scrissi.
– Okay?
– Sí, – dissi. – Perché no.
Un paio di giorni dopo andai al consolato russo nell’Upper East Side, attesi in coda per un’ora con il mio modulo e ottenni il visto per un anno. Poi sistemai le cose pratiche: subaffittai la mia stanza a un batterista rock del Minnesota, restituii i libri alla biblioteca e andai a prendere la mia sacca da hockey dall’armadietto dello stadio. Un gran sbattimento. E un botto di soldi. Intanto immaginavo la vita diversa che avrei vissuto di lí a poco e la persona diversa che sarei diventato. Mi vedevo mentre portavo le borse della spesa per la nonna, la accompagnavo in giro per la città, e anche al cinema (le era sempre piaciuto andare al cinema); mentre camminavo sottobraccio con lei nel vecchio quartiere, ascoltando i suoi racconti sulla vita ai tempi del socialismo. C’erano tante cose che non sapevo, su cui non avevo mai fatto domande. Ero stato disinteressato e distratto, avevo creduto piú ai libri che alle persone. Mi vedevo mentre al mattino andavo a protestare contro il regime di Putin, nel pomeriggio giocavo a hockey e la sera tenevo compagnia alla nonna. Magari avrei trovato il modo di usare la storia della sua vita per scrivere un articolo. Mi vedevo seduto nella mia stanza monacale, con le storie di vita vissuta della nonna tra le mani, ad aggiungere una dimensione completamente nuova al mio lavoro. Forse avrei potuto mettere le sue testimonianze in corsivo a inframmezzare il testo come aveva fatto Hemingway in Nel nostro tempo.
L’ultima sera a New York i miei coinquilini organizzarono una festicciola per salutarmi. – A Mosca! – dissero alzando le lattine di birra.
– A Mosca! – ripetei.
– E non farti ammazzare, – disse uno di loro.
– Non mi farò ammazzare, – promisi. Ero su di giri. E sbronzo. Mi venne da pensare che poteva avere un certo fascino l’idea di andare a vivere in una Russia sempre piú violenta, con un governo che somigliava sempre piú a una dittatura e un esercito che aveva appena inflitto un’umiliante sconfitta a un paese molto piú piccolo come la Georgia. Alle tre di notte mandai un patetico sms a Sarah. «Domani parto», scrissi, come se stessi andando in un posto molto pericoloso. Lei non rispose. Tre ore dopo mi svegliai ancora ubriaco, buttai le ultime cose nella grande valigia rossa, afferrai il mio bastone da hockey e partii per l’aeroporto Jfk. Una volta a bordo dell’aereo mi addormentai all’istante.
Quando mi svegliai ero già in fila al controllo passaporti nel tetro seminterrato del Šeremet’evo-2. L’aeroporto internazionale sembrava sempre uguale: tutte le volte che ci ero passato ci avevano fatti scendere nel seminterrato e aspettare in coda, prima di poter ritirare i bagagli. Era come un purgatorio dal quale sospettavi che saresti andato in un luogo ben diverso dal paradiso.
In compenso i russi erano diversi da come li ricordavo. Ben vestiti, con bei tagli di capelli, parlavano ai loro nuovi cellulari. Persino i poliziotti in divisa, con le loro camicie celesti a maniche corte, sembravano gioviali. Benché fosse una coda lunga, alcuni viaggiatori erano fermi in disparte e ridevano. Il petrolio costava 114 dollari al barile e il loro esercito aveva bastonato i georgiani: era di questo che ridevano?
Secondo la teoria della modernizzazione, benessere economico e tecnologia sono piú potenti della cultura. Dai alla gente belle macchine, televisori a colori e la possibilità di viaggiare in Europa, e la smetteranno di essere cosí aggressivi. Due paesi dove ci sia un McDonald’s non si faranno mai la guerra. Chi ha il cellulare è piú cordiale di chi non ce l’ha.
Non ero cosí sicuro di questa tesi. I georgiani ce li avevano, i McDonald’s, e i russi li avevano bombardati lo stesso. Mentre mi avvicinavo al controllo passaporti, un europeo alto ed elegante, con gli occhiali e ben vestito, forse olandese o tedesco, domandò in inglese se poteva saltare la coda: doveva prendere una coincidenza. Io gli feci cenno di sí – dovevamo comunque aspettare di ritirare i bagagli – ma l’uomo dietro di me, alto piú o meno come l’olandese e molto piú grosso, con un completo squadrato ma secondo me non poco costoso, si inserí parlando in un inglese dal forte accento russo.
– Torna in fondo a coda.
– Perderò il volo, – disse l’olandese.
– Torna in fondo a coda.
Gli dissi in russo: – Che differenza fa?
– Grande differenza, – rispose l’uomo.
– Vi prego! – disse l’olandese in inglese.
– Ho detto: tu torna! Subito –. Il russo si voltò leggermente per fronteggiare l’olandese, che tirò un calcio al suo bagaglio in segno di frustrazione, lo afferrò e tornò in fondo alla coda.
– Ha preso la decisione giusta, – mi disse l’uomo in russo, facendomi capire che da uomo di principî qual era sarebbe stato pronto a pestare l’olandese.
Non risposi. Alcuni minuti dopo mi avvicinai alla postazione del controllo passaporti. Il giovane poliziotto biondo e non sorridente sedeva immerso nella luce, come una divinità. All’improvviso mi ricordai che qui non potevo far valere i miei diritti, e che, anzi, qui non esistevano proprio. Mentre gli porgevo il passaporto mi chiesi se non avessi sfidato la sorte, tornando per l’ennesima volta nel paese da cui i miei genitori erano scappati. Sarei finito sotto processo per tutte le cose cattive che avevo pensato della Russia nel corso degli anni?
Ma il poliziotto si limitò a prendere il mio sgualcito passaporto americano blu – emesso dal governo di un paese che non obbligava i cittadini ad averlo sempre in tasca, e anzi permetteva loro di dimenticarsi del documento per mesi, o per anni – con un’aria vagamente schifata. Se lui avesse avuto un passaporto come il mio l’avrebbe trattato meglio. Verificò se il mio nome fosse nel database dei terroristi e con il suo pulsante autorizzò il mio passaggio dall’altra parte.
Tutto qui. Ero tornato.
Mia nonna Seva viveva proprio in centro, in un appartamento che le era stato dato in premio, alla fine degli anni Quaranta del Novecento, da Iosif Stalin in persona. Mio fratello Dima a volte ne parlava, quando voleva dimostrare qualcosa, e ne parlava anche la nonna, se era di umore autocritico. «L’appartamento di Stalin» lo chiamava, come per ricordare a tutti e a se stessa a quale compromesso morale si era dovuta adattare. Malgrado questo, in generale nella mia famiglia si riteneva che se ti avessero offerto un appartamento mentre abitavi in una stanza piena di spifferi in una kommunalka con una figlia piccola, due fratelli e tua madre, avresti fatto meglio ad accettarlo, chiunque fosse il benefattore. E poi non era come se fosse stato Stalin in persona a consegnarle le chiavi, o come se le avesse chiesto in cambio qualcosa. All’epoca la nonna era giovane, insegnava storia all’Università statale di Mosca e aveva fornito la sua consulenza per un’opera cinematografica su Ivan il Grande, nonno di Ivan il Terribile, che nel quindicesimo secolo fu «l’unificatore delle terre di Rus’». Stalin aveva talmente apprezzato la pellicola da decidere di regalare un appartamento a chiunque avesse partecipato alla lavorazione del film. Quindi la nonna non lo chiamava soltanto «l’appartamento di Stalin» ma anche «l’appartamento di Ivan il Grande», e poi, quando voleva essere onesta, «l’appartamento della mia Ëlka». Ëlka era il nome di sua figlia, mia madre, per la quale avrebbe fatto davvero qualsiasi cosa.
Per arrivare al suddetto appartamento cambiai alcuni dollari all’agenzia appena fuori dall’area di riconsegna bagagli (all’epoca un dollaro valeva ventiqua...