Quando vide apparire l’india sulla soglia della capanna, Lituma indovinò quel che la donna avrebbe detto. E lei lo disse, ma in quechua1, biascicando e lasciando colare un filo di saliva dagli angoli della bocca senza denti.
– Cosa dice, Tomasito?
– Non ho capito bene, caporale.
Il poliziotto si rivolse alla donna appena arrivata, pure lui in quechua, facendole segno con le mani di parlare lentamente. L’india ripeté quei suoni indifferenziabili che a Lituma facevano l’effetto di una musica barbara. Si sentí, d’improvviso, molto nervoso.
– Cosa sta dicendo?
– Le è scomparso il marito, – mormorò il suo aiutante. – Quattro giorni fa, sembra.
– E sono già tre, – balbettò Lituma, sentendo che il viso gli si riempiva di sudore. – Porca vacca.
– Cosa facciamo, caporale?
– Falle fare una deposizione –. Un brivido percorse la spina dorsale di Lituma. – Che ti racconti quel che sa.
– Ma cosa sta capitando qui? – esclamò il poliziotto. – Prima il muto, poi l’albino. Adesso uno dei capisquadra dell’impresa stradale. Non è possibile, caporale.
Non era possibile, ma era quel che capitava, e per la terza volta. Lituma immaginò le facce inespressive, gli occhietti glaciali con cui l’avrebbero osservato la gente di Naccos, i manovali del campo, gli indios della comunità, quando si fosse recato a domandar loro se sapevano dov’era andato a finire il marito di questa donna e sentí lo sconforto e l’impotenza delle volte in cui aveva tentato di interrogarli sugli altri scomparsi: teste che facevano segno di no, monosillabi, sguardi sfuggenti, bocche e fronti aggrottate, presentimento di minacce. Anche questa volta sarebbe stato uguale.
Tomás aveva cominciato a interrogare la donna; stava prendendo appunti su un’agenda, con una matita spuntata che, a tratti, bagnava sulla lingua. «Li abbiamo ormai addosso i terrucos2, – pensò Lituma. – Una di queste notti arriveranno». Era una donna pure quella che aveva denunciato la scomparsa dell’albino: madre o moglie, non l’avevano mai saputo. L’uomo era andato al lavoro, o ne era uscito, e non era mai arrivato alla sua destinazione. Pedrito era sceso al villaggio a comprare una bottiglia di birra per i due poliziotti e non era piú tornato. Nessuno li aveva visti, nessuno aveva notato in loro paura, apprensione, malessere, prima che svanissero. Se li erano inghiottiti le montagne, allora? Dopo tre settimane, il caporale Lituma e il poliziotto Tomás Carreño brancolavano nella nebbia come il primo giorno. E, adesso, un terzo. Puttana troia. Lituma si ripulí le mani sui pantaloni.
Aveva cominciato a piovere. I goccioloni facevano rabbrividire le lamiere di zinco del tetto con certi suoni irregolari e molto forti. Non erano ancora le tre del pomeriggio, ma la tormenta aveva rabbuiato il cielo e sembrava fosse notte. Si udivano tuoni in lontananza, che riecheggiavano sui monti, con ronfamenti spezzati che salivano da quelle viscere della terra che questi montanari credevano popolate da tori, serpenti, condor e spiriti. Davvero gli indios credono a queste cose? Certo, caporale, li pregano addirittura e fanno loro offerte. Non ha visto i piatti di cibo che lasciano nei crepacci della cordigliera? Quando gli raccontavano queste cose nella cantina di Dionisio o nel mezzo di una partita a pallone, Lituma non capiva mai se parlavano sul serio o se si burlavano di lui, che veniva dalla costa. Ogni tanto, dalla breccia in una delle pareti, una piccola vipera gialla guizzava fra le nuvole. I montanari credevano che il fulmine fosse la lucertola del cielo? Le cortine d’acqua avevano cancellato le baracche, le betoniere, le livellatrici, le jeep e le casupole degli indios che spuntavano fra gli eucalipti della montagna di fronte. «Come se tutti fossero scomparsi», pensò. I manovali erano circa duecento e venivano da Ayacucho, da Apurímac, ma, soprattutto, da Huancayo e da Concepción, nel dipartimento di Junín, e da Pampas, in quello di Huancavelica. Dalla costa, invece, nessuno che lui sapesse. Ma, sebbene fosse nato a Sicuani e parlasse il quechua, Tomás sembrava un creolo. Aveva portato lui a Naccos il muto Pedro Tinoco, il primo scomparso.
Era un tipo senza ombrosità il poliziotto Carreño, anche se un po’ triste di carattere. Di notte si confidava con Lituma e sapeva aprirsi all’amicizia. Il caporale gliel’aveva detto, poco dopo l’arrivo: «Per come sei, meriteresti di essere nato sulla costa. E anche a Piura, Tomasito». «Lo so che detto da lei questo vuol dire molto, caporale». Senza la sua compagnia, la vita in queste solitudini sarebbe stata tenebrosa. Lituma sospirò. Cosa faceva in mezzo a quegli altopiani di montagna, tra gente fosca e diffidente che si ammazzava per la politica e, come se non bastasse, spariva? Perché non si trovava nella sua terra? Si immaginò circondato da birre al Río-Bar, fra gli inconquistabili, i suoi compagni di tutta la vita, in una calda notte di Piura con stelle, valzer e odor di capre e carrubi. Un’ondata di tristezza gli fece battere i denti.
– Fatto, caporale, – disse il poliziotto. – La signora ne sa poco, a dire il vero. Ed è morta di paura, non lo nota?
– Dille che faremo tutto il possibile per trovare suo marito.
Lituma abbozzò un sorriso e fece segno all’india che poteva andarsene. Lei continuò a guardarlo, senza muoversi. Era piccolina e senza età, con ossa fragili, come di uccello, e scompariva sotto le numerose sottane e il cappello cencioso, portato di sghimbescio. Ma sul suo viso e nei suoi occhi avvizziti c’era qualcosa di irremovibile.
– Sembra che se l’aspettasse la faccenda del marito, caporale. «Sarebbe capitato, doveva capitare», dice. Ma, naturalmente, lei non ha mai sentito parlare dei terrucos né della milizia di Sendero Luminoso3.
Senza un gesto del capo per accomiatarsi, la donna si voltò e uscí sotto l’acquazzone. Di lí a pochi minuti si era dissolta nell’umidità plumbea, verso il campo. Il caporale e il poliziotto rimasero a lungo senza parlare. Infine, la voce del suo aiutante risuonò nelle orecchie di Lituma come una condoglianza:
– Le dirò una cosa. Lei e io non usciremo vivi di qui. Ci hanno circondati, inutile ingannarsi.
Lituma si strinse nelle spalle. In genere lui si demoralizzava e il suo aiutante gli sollevava il morale. Oggi si scambiavano i ruoli.
– Non farti cattivo sangue, Tomasito. Altrimenti, quando arrivano, ci trovano mezzi rincretiniti e non potremo neppure difenderci.
Il vento faceva tintinnare le lamiere di zinco del tetto e i mulinelli d’acqua rimbalzavano dentro l’abitazione. Era un solo locale, diviso da un tramezzo di legno e protetto da una spalletta di sacchi riempiti di pietre e terra. Da un lato c’era il posto della Guardia Civil, con un’asse sopra due cavalletti – la scrivania – e un baule in cui venivano conservati il registro del protocollo e i rapporti di servizio. Dall’altro, unite per mancanza di spazio, le due brande. Si facevano luce con lampade a cherosene e avevano una radio a pile che, se non c’erano disturbi atmosferici, captava Radio Nacional e Radio Junín. Il caporale e il poliziotto passavano pomeriggi e serate incollati all’apparecchio, cercando di ascoltare le notizie da Lima o da Huancayo. Sul pavimento di terra battuta c’erano pelli di agnello e di pecora, stuoie, una stufetta, un fornello, zucche per recipienti, vasi di terracotta, le valigie di Lituma e di Tomás e un armadio sfondato – l’armeria – dove riponevano i fucili, le cartuccere e il mitra. Le pistole se le portavano sempre appresso e di notte le infilavano sotto il guanciale. Seduti sotto la sbiadita immagine del Sacro Cuore di Gesú – un manifesto di Inca Cola – ascoltarono la pioggia, per diversi minuti.
– Io non credo che li abbiano ammazzati, Tomasito, – commentò infine Lituma. – Semmai se li saranno portati via, per la loro milizia. Magari erano tutt’e tre terrucos. Quando mai Sendero fa sparire la gente? L’ammazza, piuttosto, e lascia i suoi cartelli perché lo si sappia.
– Pedrito Tinoco un terrorista? No, caporale, glielo garantisco, – disse il poliziotto. – Significa che Sendero sta già bussando alla nostra porta. Quanto a noi i terrucos non ci arruoleranno nella loro milizia. Ci faranno a pezzettini, semmai. Certe volte penso che noi due ci hanno mandati qui solo per sacrificarci.
– Smettiamola di farci cattivo sangue –. Lituma si alzò. – Prepara un caffè, che fa un tempo di merda. Poi ci occuperemo di quel tipo. Come si chiama quest’ultimo?
– Demetrio Chanca, caporale. Caposquadra dei trivellatori.
– Dicono che la terza partita è quella fortunata. Magari, grazie a questo qui risolviamo il mistero di tutt’e tre.
Il poliziotto andò a prendere le tazze di latta e ad accendere il fornello.
– Quando il tenente Pancorvo mi ha detto, là ad Andahuaylas, che mi destinavano in questo buco, ho pensato: «Stupendo, a Naccos i terrucos ti faranno la festa, Carreñito, e quanto prima, tanto meglio», – mormorò Tomás. – Ero stanco della vita. Almeno, questo era quel che credevo, caporale. Ma, considerando la paura che provo adesso, è chiaro che non mi piacerebbe morire.
– Solo un coglione ha voglia di andarsene prima della sua ora, – affermò Lituma. – Nella vita ci sono cose troppo belle, anche se da queste parti non ce n’è neppure l’ombra. Davvero avevi voglia di morire? Si può sapere per quale motivo, visto che sei cosí giovane?
– Per quale motivo vuole che sia? – si mise a ridere il poliziotto, posando il bricco sulla fiammella rossazzurra del fornello.
Era un ragazzo magro e ossuto, ma robusto, con certi occhi profondi e vivaci, una pelle citrina e denti bianchi e sporgenti, che, nelle notti di veglia, Lituma vedeva brillare nel buio della capanna.
– Avrai avuto una pena d’amore per qualche donna, – azzardò il caporale, leccandosi le labbra.
– Per chi si può avere una pena d’amore altrimenti? – si intenerí Tomasito. – E poi lei può ben esserne orgoglioso, caporale, anche questa donna era di Piura.
– Una compaesana, – annuí Lituma, sorridendo. – Addirittura.
Alla petite Michèle l’altitudine faceva male – si era lagnata di una pressione alle tempie simile a quella che le producevano quei film dell’orrore che erano la sua delizia, e di un malessere generale e vago, – ma, ciò nonostante, era impressionata dalla desolazione e dall’asperità del paesaggio. Albert, invece, si sentiva magnificamente bene. Come se avesse passato la vita a tre o quattromila metri di altitudine, fra quelle vette affilate con macchie di neve e i greggi di lama che, di tanto in tanto, attraversavano la pista. Gli scossoni della vecchia corriera erano tali che a tratti il veicolo sembrava squassarsi in quelle buche, in quei solchi, su quelle pietre che spuntavano sfidando di continuo la sua carrozzeria sconquassata. Erano gli unici stranieri, ma i loro compagni di viaggio non sembravano badare alla coppia di francesi. Neppure quando li udivano parlare in una lingua straniera si giravano a guardarli. Erano avvolti in sciarpe, ponchos e qualche chullo4, ben protetti per la notte ormai imminente, e carichi di fagotti, pacchi e valigie di latta. Una signora si portava appresso addirittura alcune galline chioccianti. Ma né la scomodità del sedile, né gli scossoni, né l’affollamento avevano la minima importanza per Albert e la petite Michèle.
– Ça va mieux? – domandò lui.
– Oui, un peu mieux.
E, un momento dopo, la petite Michèle disse ad alta voce quel che pure Albert pensava: lui aveva avuto ragione, quando avevano discusso alla pensione El Milagro, a Lima, se fare il viaggio al Cusco via terra o in aereo. Lei si era impuntata sull’aereo, secondo i consigli del funzionario dell’ambasciata, ma lui aveva insistito tanto per la corriera che la petite Michèle aveva ceduto. Non lo rimpiangeva, al contrario. Sarebbe stato un peccato perdersi tutto questo.
– Certo che lo sarebbe stato, – esclamò Albert, facendo segno al di là del vetro incrinato del finestrino. – Non è formidabile?
Il sole stava calando e c’era una sontuosa coda di pavone all’orizzonte. Un lungo altopiano verdescuro, senza alberi, senza abitazioni, senza gente né animali, si allungava alla loro sinistra, animato da scintillii liquidi, come se fra i ciuffi di paglia giallognola ci fossero stati fiumiciattoli o laghetti. Alla loro destra, invece, si levava un’irsuta geografia perpendicolare di irte rocce, abissi e crepacci.
– Cosí dev’essere il Tibet, – mormorò la petite Michèle.
– Ti assicuro che tutto questo è piú interessante del Tibet, – rispose Albert. – Te l’avevo detto: Le Pérou, ça vaux le Pérou!
Davanti alla vecchia corriera era già notte e aveva cominciato a far freddo. Brillava qualche stella nel cielo color indaco.
– Brrr... – si contrasse la petite Michèle. – Adesso capisco perché viaggiano tutti cosí coperti. Come cambia il clima, sulle Ande! La mattina un caldo che soffoca e, di notte, il gelo.
– Questo viaggio sarà il piú im...