Svegliami a mezzanotte
eBook - ePub

Svegliami a mezzanotte

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Svegliami a mezzanotte

Informazioni su questo libro

Un tardo pomeriggio di luglio in un'anonima località di villeggiatura, dopo una giornata passata al mare, una giovane donna, da poco diventata madre, sale all'ultimo piano di una palazzina. Non guarda giú. Si appoggia al davanzale e si getta nel vuoto. Perché l'ha fatto, perché ha voluto suicidarsi? Non lo sappiamo. E forse, in quel momento, non lo sa nemmeno lei. Ma quel tentativo di suicidio non ha avuto successo e oggi, quella giovane donna, vuole capire. Fuani Marino è sopravvissuta a quel gesto e alle cicatrici che ha lasciato sul suo corpo e nella sua vita. Ma le cicatrici possono anche essere una traccia da ripercorrere, un sentiero per trasformare la memoria in scrittura. Marino decide cosí di usare gli strumenti della letteratura per ricostruire una storia vera, la propria. In parte memoir, in parte racconto della depressione dal di dentro e storia di una guarigione, anamnesi familiare e storia culturale di come la poesia e l'arte hanno raccontato il disturbo bipolare dell'umore, riflessione sulla solitudine in cui vengono lasciate le donne (e le madri in particolare) e ancora studio di come neuroscienze, chimica e psichiatria definiscano quel labile confine tra salute e sofferenza: Svegliami a mezzanotte è un testo incandescente nel guardare senza autoindulgenza, anzi a tratti con affilata autoironia, in fondo al buio. Disturbante come a volte è la vita, ma luminoso nella speranza che sa regalare.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806242619
eBook ISBN
9788858431825

Dopo

Una ferita vivente

Cosí è la vita.
Cadere sette volte
e rialzarsi otto.
Poesia popolare giapponese
Davanti al reparto di rianimazione, disposti in una composizione allegorica dai toni cupi, i miei attendevano il verdetto. Sarei morta, sarei sopravvissuta? E nel caso, con quali conseguenze? Le risonanze esclusero danni spinali: c’era stata la frattura di due vertebre a livello lombare, ma si sarebbe risolta spontaneamente. Avrei camminato ancora. Dietro la nuca mi avevano messo alcuni punti per una ferita piuttosto superficiale, la parte sinistra del mio corpo doveva aver fatto da scudo. Le condizioni, tuttavia, restavano critiche, e dalle cicatrici che sono rimaste si intuisce la fretta con cui sono stati eseguiti gli interventi. Credevano che non ce l’avrei fatta. Una lesione interna e la conseguente emorragia avevano comportato la necessità di una resezione intestinale e la trasfusione di quaranta sacche di sangue. Adesso, a preoccupare i medici era la sindrome compartimentale acuta dell’arto superiore, sulla quale bisognava intervenire chirurgicamente. L’edema e l’innalzamento della pressione del braccio, il cosiddetto compartimento muscolare, avevano infatti compresso i vasi sanguigni ostacolandone la circolazione. Anche operando subito, non si potevano escludere danni permanenti alle strutture muscolari e nervose.
Una dottoressa disse in tono ottimista: Fortunatamente è il braccio sinistro. Peccato che io fossi mancina.
Di come era ridotto il braccio mi sarei accorta solo dopo. Non l’ho visto nero né ricoperto di ghiaccio per evitare il peggio, ma ingessato e immobile su un supporto di lattice che lo teneva sollevato (lo stesso sul quale sarebbe rimasto per quattro mesi, anche di notte, e che dopo la dimissione avrei portato a casa come un souvenir). Intravedevo solo la punta delle dita, prive di sensibilità, mentre fastidiosi segnali nervosi, piccole scosse elettriche, lo percorrevano. Quando ero ancora in rianimazione, un bisturi lo aveva attraversato in lunghezza, dal palmo della mano a metà avambraccio, per cercare di ridurre la pressione neuro-vascolare. Piccole incisioni erano state praticate ai tendini della mano, e un altro intervento aveva cercato di ricostruire quello che restava del mio gomito. Dopo un mese tolsero il gesso, poi i punti. La mano sinistra restava lí, sul supporto di lattice, aliena e inerte. Io la guardavo con la coda dell’occhio, molti medici la ispezionavano. Prova a muovere, prova a chiudere, dicevano: niente. Le dita erano lunghissime, nessuna traccia delle vene o dei tendini che tirano e articolano conferendo una forma. Sembrava finta, una protesi. Un guanto di gomma vuoto.
Tutto il resto progrediva, tendendo a una risoluzione piú o meno spontanea, mentre lei no.
M’inserirono un ferro nella tibia sinistra: dopo l’intervento (il postoperatorio fu dolorosissimo, erano lontani i tempi in cui la morfina mi metteva al riparo da tutto), sarei stata pronta per camminare di nuovo. In quei tre mesi trascorsi in posizione orizzontale, su diversi materassi antidecubito che si gonfiavano e sgonfiavano sotto il mio corpo per evitare le piaghe, sempre distesa, su una barella, un tavolo operatorio, una tac, un’ambulanza che mi trasportava dall’ospedale alla clinica e dalla clinica all’ospedale, attraverso i corridoi e gli ascensori e i piani e i reparti e le corsie, sempre distesa con gli occhi al soffitto, intravedere all’improvviso fra tanti pannelli e neon fulminati anche un angolo di cielo. E improvvisamente realizzare che tutto stava scorrendo senza di me, che aveva continuato a scorrere, ad accadere, i giorni e i cambiamenti climatici, le piogge e il caldo asfissiante. Nel frattempo, in clinica, due volte al giorno un fisioterapista in divisa entrava nella mia stanza per una seduta di elettrostimolazione alle gambe e le manipolazioni al braccio sinistro. In genere mi trovava addormentata. Dormivo sempre, anche a mezza mattina e nel primo pomeriggio, dormivo.
Quando venne a trovarmi in ospedale e vide come ero ridotta, mio fratello svenne. Da un po’ di tempo invece tramesta con le viscere di animali in alcune performance dell’artista viennese Hermann Nitsch, di cui è diventato un assistente: immagino sia aumentata la sua capacità di sopportazione.
Mia madre continuava a comprare pigiami. Non riusciva a smettere: sembrava averci preso gusto. Alcuni non erano composti da due soli pezzi coordinati, ma addirittura da tre, con una piccola vestaglia da tenere aperta sul davanti. Paradossalmente, anche se era tutto sovvertito, avevamo una nostra routine: io in clinica o in ospedale, a periodi alterni (durante i ricoveri in ospedale venivo sottoposta a interventi e controlli, mentre in clinica c’erano i cicli di riabilitazione), e tutti gli altri fuori. Riccardo, mia madre e la bambina, con Tania, la ragazza moldava assunta come tata, si erano stabiliti nella casa di campagna alle porte di Pescara che un tempo era dei miei bisnonni. Il martedí all’alba Riccardo partiva per raggiungere il paesino pugliese che gli era stato assegnato come prima sede, e tornava il giovedí intorno a mezzanotte.
Greta cresceva, me la portavano in visita quasi ogni giorno. Notavo i suoi vestiti nuovi, che qualcun altro aveva scelto e comprato per lei al posto mio. Gli infermieri e gli altri pazienti le sorridevano, poi mi guardavano interrogativi, chi non sapeva non riusciva a darsi una spiegazione del perché fossi lí. Ma forse non ci riusciva nemmeno chi sapeva.
Malgrado i trasferimenti di reparto, dall’ospedale alla clinica e dalla clinica all’ospedale, era sempre possibile ritrovare delle abitudini, complici gli orari fissi in cui si avvicendavano gli appuntamenti della giornata. La sveglia all’alba, le medicine e le medicazioni, le visite dei medici e quelle dei parenti, la fisioterapia. A Villa Serena ero in una stanza singola, mentre in ospedale speravo sempre mi capitasse davanti un muro, perché non sopportavo di vedere gli altri pazienti nei letti di fronte. In clinica la cucina era migliore, facevano un risotto allo zafferano e una omelette niente male, gli infermieri erano nel complesso piú gentili. In ogni caso, non posso dire davvero di essermi annoiata né di aver avuto fretta di uscire: negli ospedali si chiacchiera, dall’addetta alle pulizie all’infermiera caposala tutti cercano un modo per passare il tempo.
Venivano spesso a trovarmi delle amiche: mi portavano cibo cinese, oppure la pizza. Mi facevano la ceretta, guardavamo Chi l’ha visto o Desperate Housewives alla tv. Io avevo un immenso bisogno di riposarmi e di essere accudita. E nel ricovero potevo soddisfare entrambi. Se devo pensare a una parola, mi viene in mente sollievo. Sollievo nel non avere responsabilità, nell’essere presa in carico da qualcuno. I primi tempi avevo entrambe le braccia immobilizzate, non potevo neppure sfogliare una rivista, ma la mia testa era talmente stanca che non avrei potuto farlo in ogni caso.
Qualche volta piangevo. Ma sia durante la degenza che subito dopo, i momenti di sconforto non furono troppi. Paradossalmente stavo meglio: dopo i quattro mesi post partum trascorsi in lacrime, mi ero liberata di quel sentimento di angoscia tanto forte e insopportabile da farmi buttare. Quasi non ricordavo cosa avevo fatto, come fossi finita lí. Gli altri però se lo ricordavano, e aleggiava nell’aria l’interrogativo di come fosse stato possibile. Ogni giorno, al risveglio, qualcuno mi pettinava e passava sul viso un batuffolo di cotone imbevuto di acqua micellare. Una mattina una delle sorelle di mia madre mi stava spazzolando i capelli, mentre parlavamo del piú e del meno, forse dei miei studi, o del matrimonio, delle cose che avevo fatto nel corso della mia vita fino ad allora. Le mani di mia zia si fermarono e mi voltai, io seduta sul letto e lei in piedi alla mia destra, il suo sguardo mi sovrastava.
E poi, chiese, che cosa è successo?
Sembrava al tempo stesso esigere e implorare una risposta. Cercava una spiegazione plausibile, la soluzione del rebus. Voleva sapere perché. Ma il problema era che non lo sapevo neppure io, il perché, cosí tutto quello che ho potuto rispondere è stato: Poi la mia vita si è come interrotta. E allora lei ha ripreso a spazzolare.
Non lo si può dire in un modo diverso. È una cosa terribile che può accadere e accade, non a tutti, fortunatamente, solo ad alcuni. La scrittrice americana Susanna Kaysen affida la sua esperienza a un diario da cui è tratto il film Ragazze interrotte con Winona Rayder e Angelina Jolie. A proposito della vita fra le mura di una clinica psichiatrica (la stessa che anni prima aveva ospitato anche Sylvia Plath), Susanna Kaysen scrive:
La gente ti chiede: come ci sei finita? In realtà, quello che vogliono sapere è se c’è qualche probabilità che capiti anche a loro. Non posso rispondere alla domanda sottintesa. Posso solo dire che è facile.
Non appena fui in grado di esprimere un concetto a parole, dissi che volevo separarmi.
Non riuscivo a togliermi dalla testa che Riccardo avesse una qualche responsabilità in quanto mi era accaduto. Credo di aver cambiato idea molte volte, al riguardo. Perché anche se una ragione non c’è, o per lo meno non è unica, se ne avverte un disperato bisogno. Allora si cerca un capro espiatorio: ovviamente serviva anche a me. Cosí ho pensato tutto e il contrario di tutto. Probabilmente c’era qualcosa di sbagliato nel tipo di vita che avevo voluto. Il matrimonio, la maternità, l’essere entrata a far parte di una famiglia e di un ambiente molto piú tradizionali rispetto a quelli da cui provenivo. Eppure, le mie non erano state scelte casuali, erano cose che avevo desiderato o creduto di desiderare, e che non avevo saputo gestire una volta ottenute. C’era stato come uno scollamento fra i miei desideri e i miei bisogni. Mi ero diretta verso quanto la società si aspetta da una donna di trent’anni: la carriera e contemporaneamente la creazione di una famiglia. E questo mi aveva distrutta.
All’epoca non credo ne fossi consapevole, ma in Italia, e in modo particolare al Sud, sposarsi e avere figli continuano per una ragazza a rappresentare una scelta obbligata. Come Dawn Dwyer in Pastorale americana, quando dal letto di una clinica psichiatrica si scaglia contro Seymour Levov, lo Svedese, il marito perfetto, maledicendolo per tutto quello che le era capitato, credevo di essermi ammalata a causa di Riccardo e un attimo dopo ringraziavo che fosse lí con me.
Come ha potuto succedere, dunque, tutto questo? Come ho fatto a finire qui? Tu, ecco come! Tu che non mi lasciavi in pace! Tu che dovevi avermi a tutti i costi! […] Tu! […] Questo animale enorme di cui non riuscivo a sbarazzarmi! Tu, che non mi lasciavi vivere! […] Eri come un bambino! Dovevi trasformarmi in una principessa. Beh, guarda dove sono finita! In manicomio. La tua principessa è in manicomio!
Sono stata come lei e peggio di lei. Ho incolpato lui, la sua famiglia. Non importa se a torto o a ragione: avevo solo bisogno di incolpare qualcuno.
Credo che almeno in una o due occasioni, quando ero in stanze troppo piccole per potervi mettere una branda, Riccardo abbia dormito per terra, ai piedi del mio letto d’ospedale, steso su uno di quei materassini che si usano in palestra. Nella sfortuna, sono stata terribilmente fortunata. Perché nel momento in cui tutto ha perso di senso ai miei occhi, avevo legami e persone per le quali la mia ripresa era indispensabile. Un marito che mi amava, una bambina appena nata. Nei mesi di ricovero ho sentito chiaramente questa necessità. Mi ha accompagnata e mi accompagna ancora. Senza, sarei andata alla deriva.
Di contro, non posso fare a meno di pensare che se a Riccardo avessero dato una sfera di cristallo non mi avrebbe mai sposata.
Abbiamo spesso fatto dell’ironia su questo aspetto. Lui mi chiama crazy wife, io ribatto che grazie a me non si annoia. Ma non ho mai avuto il coraggio di chiedergli: Se qualcuno ti avesse pronosticato l’esaurimento nervoso che avrei avuto di lí a due anni, che avresti fatto? Se qualcuno ti avesse sussurrato all’orecchio che non sarei diventata niente di quello che dovevo diventare, ma anzi mi sarei ripiegata su me stessa, su me stessa e su di te, avresti tagliato comunque quella torta nuziale? Avresti brindato sorridente? Accettato comunque di legarti a me, scambiandoci due fedi sottili con incisi i nostri nomi all’interno? Niente, o quasi, nei miei comportamenti di allora, poteva lasciar presagire. Cosí, se mi fossi ammalata prima, quando ancora non eravamo legati dal vincolo del matrimonio, te la saresti data a gambe? Io, al posto tuo, credo proprio di sí. Ma il caso ha voluto che la mia mente cominciasse a vacillare solo a nozze avvenute (fregati entrambi), e che poi desse completamente di matto quando avevamo appena avuto una bambina (fregati tutti e tre). Cosa avresti potuto fare, allora?
Ho dovuto convivere con la sensazione di essere stata la sua rovina. Una moglie terribilmente difficile, capace di rendere un inferno le cose piú semplici. Ma sono stata anche la piccola moglie che, nel giorno in cui il marito compiva quarant’anni, nel suo letto d’ospedale ha scritto un biglietto con la mano destra, il primo componimento tracciato con la grafia tremolante della nuova mano.
Grazie, per tutto quello che fai.
Lui pianse.
Venne l’autunno, le giornate erano sempre piú corte. Dopo gli ultimi interventi subiti ero molto provata: magrissima e con un colorito spento. Nelle prime ore del pomeriggio la stanza d’ospedale che occupavo in quel momento era attraversata da fasci di un sole tiepido, ma questi dalla grande finestra si allungavano fino alla porta, senza incontrare il mio letto, che restava in ombra sulla parete opposta. Che desiderio, all’improvviso, di un po’ di sole addosso! E invece, inchiodata lí, potevo a stento immaginarne il calore. Riccardo allora tolse i freni al letto e lasciò che le sue ruote scivolassero sul linoleum, finché non mi sistemò al centro della stanza e del fascio di luce, proprio di fronte alla finestra, che aprí. Mentre assaporavo il sole nella mia camicia da notte bianca – era una di quelle che avevo comprato per il parto, tutta abbottonata sul davanti –, il braccio sul solito supporto di lattice e una fasciatura alla gamba sinistra, lui mi mise i suoi occhiali da sole e cominciò a scattarmi delle fotografie, come se fossi distesa su qualche spiaggia caraibica.
Dopo tre mesi a letto, trascorsi come una specie di Frida Kahlo ma senza fiori in testa, cominciarono a mettermi seduta per alcune ore al giorno (ricordo la manovra necessaria a farmi sollevare il busto, posizione innaturale, tanto faticosa da farmi girare la testa. Prima la gravidanza, poi l’immobilità: i miei addominali non esistevano piú, ormai ero solo una cosa nelle mani esperte degli infermieri). La conquista della posizione seduta da quella supina: Oh! Ti sei messa seduta! Lo stesso tono incoraggiante che si usa coi vecchi, quando fanno qualcosa che non ci si aspetta piú da loro, o in generale coi malati, con le persone in difficoltà. Poi, verso novembre, mi hanno infilato una tuta e hanno spinto la mia sedia a rotelle fino alla palestra. Era arrivato il momento di rimettersi in piedi.
Aggrappati alla sbarra, dopo aver fatto leva sugli avambracci naturalmente, anzi sull’avambraccio, perché di fatto ne hai solo uno, adesso, l’altro non risponde ancora o forse non risponderà piú, non puoi saperlo ed è meglio non chiedertelo, perché sei troppo concentrata a sperare che le gambe ti reggano. È questo quello che ho imparato a fare, in quei mesi. Ho imparato ad avvalermi di un meccanismo mentale di selezione che entra in gioco nelle emergenze, credo, quando bisogna decidere cosa fare in poco tempo, perché ci sono cosí tanti elementi critici da affrontare contemporaneamente che bisogna stabilire una priorità. Pensare al problema piú urgente in attesa di pensare a tutti gli altri che pure restano. Quindi cercare di rimettermi in piedi, sulle mie gambe, concentrando su questa cosa la mia attenzione e le mie energie a scapito di altri pensieri, che pure sarebbero importanti e che sono cosciente di avere – devo imparare a scrivere con la mano destra; come farò a prendere in braccio mia figlia? perché io ho una figlia, una neonata di sei mesi da crescere, e devo tornare a casa; ritrovare me stessa; pensare a quello che ho fatto; cercare di capire perché; abituarmi all’idea che volevo morire e che non ci sono riuscita. E che quindi devo vivere ma che prima porca puttana mi devo rimettere in piedi. Allora, di fronte a uno specchio impietoso, mi hanno aiutata ad alzarmi. Ho guardato l’immagine di fronte a me. Il braccio sinistro era pendulo, mi faceva assumere una postura tutta sbilanciata verso quel lato. Pesava terribilmente sulla mia struttura fisica, già provata dai traumi e dall’immobilità. Era proprio un peso og...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Svegliami a mezzanotte
  4. CADUTA
  5. PRIMA
  6. CADUTA
  7. DOPO
  8. Mia adorata Greta
  9. Desidero ringraziare
  10. Nota bibliografica
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright