Fu lei a venire a cercarmi. Di solito la gente si tiene a distanza. Appena un mormorio sulla linea dedicata, «Nel ’95 ho visto…» Niente nome, e riattaccano se glielo chiedi. O una lettera stampata al computer e imbucata da un’altra città , busta e foglio senza tracce. Se vogliamo trovarli, dobbiamo andare a cercarli. Ma lei no: fu lei a venire da me.
Non la riconobbi. Ero per le scale e salivo di fretta verso la sala detective, una mattina di maggio che sembrava estate, con un sole pieno che entrava dalle finestre illuminando la stanza, crepe sui muri e tutto il resto. Canticchiavo una canzone che mi girava in testa.
La vidi, ovviamente. Seduta sul divano in pelle un po’ scrostata nell’angolo, braccia conserte, gambe accavallate, caviglia dondolante. Lunga coda di capelli biondo platino: uniforme scolastica impeccabile, gonna verde e blu, giacca blu scuro. «La figlia di qualcuno, sta aspettando il padre per andare dal dentista», pensai. Forse la figlia del sovrintendente, o comunque di un poliziotto con uno stipendio piú alto del mio. Non era solo lo stemma sulla giacca a farmelo pensare, ma l’atteggiamento, il mento alzato come se potesse comprare tutto l’ufficio, se solo avesse avuto voglia di riempire le scartoffie necessarie. Le rivolsi un cenno di saluto, nel caso fosse la figlia del capo, e proseguii verso la porta della sala detective.
Non so se lei mi riconobbe. Forse no. Erano passati sei anni, era una bambina all’epoca, e io sono un tipo anonimo, a parte i capelli rossi. Forse mi aveva dimenticato. O forse no, ma finse di non riconoscermi per motivi suoi.
Lasciò che fosse l’impiegata a dire: – Detective Moran, c’è una persona per lei, – indicando il divano con la penna. – La signorina Holly Mackey.
Il sole sulla faccia mentre mi voltavo di scatto e poi: ma certo. Avrei dovuto notare gli occhi. Grandi, azzurri, con un arco delicato delle palpebre che le dava un’aria da gatta; una ragazza pallida e ingioiellata in un antico dipinto, che conosce un segreto. – Holly, – dissi, tendendo la mano. – Come stai, da quanto tempo.
Per un secondo quegli occhi restarono fissi, assorbendo ogni dettaglio di me senza rivelare nulla in cambio. Poi si alzò. La sua stretta era ancora da ragazzina, e tirò via la mano troppo in fretta. – Ciao, Stephen, – disse.
La voce era bella, chiara e piena, senza quei toni acuti da cartone animato. L’accento era da classe alta, ma senza affettazione. Suo padre non avrebbe lasciato correre. Se fosse tornata a casa facendo la snob, le avrebbe tolto il blazer e l’avrebbe mandata dritta in una scuola pubblica.
– Cosa posso fare per te?
A bassa voce: – Ho una cosa da darti.
A quel punto ero confuso. Le nove e dieci del mattino, in uniforme scolastica: era in ritardo per le lezioni, in una scuola che non avrebbe mancato di notare l’assenza. Non si trattava di un biglietto di ringraziamento con anni di ritardo. – Che cosa?
– Non qui.
L’occhiata rivolta all’impiegata chiedeva privacy. Con un’adolescente devi stare attento. Se poi è figlia di un detective, devi stare attento il doppio. Ma Holly Mackey? Se metti in mezzo qualcuno che lei non vuole, hai chiuso, almeno per la giornata.
– Troviamo un posto dove parlare, – dissi.
Io lavoro ai Casi Freddi. Quando portiamo in centrale i testimoni, loro vogliono credere che sia una robetta da nulla: non una vera indagine per omicidio, con pistole e manette, che può sconvolgerti la vita come un tornado. No, pensano sia qualcosa di tranquillo e indistinto, e noi gli diamo corda. La nostra saletta interrogatori principale sembra la sala d’attesa di un dentista. Divani morbidi, veneziane alle finestre, tavolino di vetro con vecchie riviste, tè e caffè schifosi. Non fanno caso alla videocamera in un angolo, o allo specchio a senso unico dietro una delle veneziane, a meno che non glieli indichiamo noi. Stia tranquillo, sarà tutto rapido e indolore, pochi minuti e poi potrà tornare a casa.
Fu là che portai Holly. Un’altra ragazza avrebbe voltato la testa ovunque, ma per lei non era nulla di nuovo. Percorse il corridoio come se fosse quello di casa sua.
Camminando la osservai. Stava crescendo bene. Altezza media, o poco meno. Molto snella, ma in modo naturale, non come quelle ragazze che non mangiano abbastanza. Forse doveva acquisire ancora qualche curva. Non bellissima, almeno non ancora, ma di sicuro non brutta. Niente brufoli, niente apparecchio ai denti, nessun tratto del viso sproporzionato. E gli occhi la rendevano qualcosa di piú dell’ennesima bionda clonata: ti spingevano a girarti a guardarla.
Si trattava di un ragazzo che l’aveva picchiata? Molestata, violentata? E lei era venuta da me invece che rivolgersi a un estraneo dei Crimini sessuali?
Ho una cosa da darti. Delle prove?
Chiuse la porta della saletta alle nostre spalle con uno scatto del polso e un colpo deciso. Si guardò intorno.
Io accesi la telecamera, spingendo l’interruttore con un movimento casuale. – Accomodati, – dissi.
Holly non si mosse. Passò un dito sulla fodera verde erba del divano. – Questa stanza è piú bella di quelle di prima.
– Come va?
– Bene, grazie –. Guardava ancora la stanza, non me.
– Vuoi un tè? Un caffè?
Scosse la testa.
Aspettai. Disse: – Sei cresciuto. Sembravi uno studente.
– E tu sembravi una bambina che si portava la bambola ai colloqui. Clara, si chiamava. Vero? – Quelle parole la fecero girare verso di me. – Direi che siamo cresciuti tutti e due.
Per la prima volta sorrise. Lo stesso sorriso che ricordavo. Aveva qualcosa di commovente che mi catturava sempre, allora come adesso.
Disse: – È bello rivederti.
Quando aveva nove o dieci anni, Holly era stata una testimone in un caso di omicidio. Non me ne occupavo io, ma lei parlava con me. Fui io a prendere la sua dichiarazione, e a prepararla per testimoniare al processo. Lei non voleva farlo, ma lo fece. Forse la convinse il padre detective. Forse. Già a nove anni, non era per niente facile inquadrarla.
– Anche per me, – risposi.
Un respiro rapido le sollevò le spalle, poi annuà tra sé, come se si fosse finalmente convinta di qualcosa. Posò la cartella sul pavimento e mise un pollice sotto il bavero, per indicarmi lo stemma. – Ora vado a St Kilda –. E mi osservò.
Anche solo annuire mi fece sentire sfacciato. St Kilda è il tipo di scuola che quelli come me non hanno mai nemmeno sentito nominare. Io la conoscevo per via di un ragazzo morto.
Un liceo femminile privato, in un quartiere residenziale con molto verde. Suore. Un anno prima, di mattina presto, due suore avevano trovato un ragazzo steso in una macchia d’alberi, nel parco della scuola. Preparandosi a sottoporlo a qualche tortura cinese, per scoprire a quale ragazza avesse strappato la virtú, lo avevano apostrofato con voce tonante: «Giovanotto!» Ma lui non si era mosso.
Christopher Harper, sedici anni, del collegio maschile a una strada e due alti muri di cinta di distanza. In qualche momento della notte, qualcuno gli aveva spaccato la testa.
L’indagine aveva impiegato abbastanza risorse umane da costruire un palazzo di uffici, abbastanza straordinari da pagare una quantità di mutui e abbastanza carta da deviare un fiume. Un guardiano tuttofare un po’ losco: eliminato dalla lista dei sospetti. Un compagno di classe con cui la vittima aveva fatto a pugni: eliminato. Immigrati che inquietavano la gente del quartiere: eliminati.
Poi nulla. Nessun altro indiziato, nessun motivo per cui Christopher Harper potesse trovarsi nel parco di St Kilda. A un certo punto gli uomini e gli straordinari erano diminuiti. Nessuno lo diceva chiaramente, non si può dire quando la vittima è un minore, ma il caso era praticamente chiuso. Ormai tutta quella carta era nel seminterrato della Omicidi. Prima o poi i media avrebbero ricominciato a fare casino, e quel caso sarebbe atterrato sulle nostre scrivanie: noi eravamo l’ultima possibilità .
Holly lasciò andare il risvolto della giacca. – Sai di Chris Harper, giusto? – chiese.
– SÃ. Eri già a St Kilda, quando è successo?
– SÃ, sono là dal primo anno. Ora sono al quarto.
Non aggiunse altro. Mi faceva lavorare per ogni passo avanti. Una risposta sbagliata e se ne sarebbe andata, giudicandomi ormai troppo vecchio, l’ulteriore inutile adulto che non capiva. Dovevo muovermi con cautela.
– Sei fissa in collegio?
– Solo negli ultimi due anni. E solo dal lunedà al venerdÃ. Nel fine settimana torno a casa.
Non ricordavo il giorno preciso. – C’eri, quando è successo?
– Quando Chris è stato ucciso.
Un lampo blu d’irritazione. La figlia di suo padre: poca pazienza per chi gira intorno alle cose.
– La notte in cui Chris è stato ucciso, – dissi. – Eri l�
– Non là sul posto, ovviamente. Ma ero in collegio, sÃ.
– Hai visto o sentito qualcosa?
Ancora l’irritazione, stavolta piú forte. – Me l’hanno già chiesto i detective della Omicidi. L’hanno chiesto a tutte noi, tipo un migliaio di volte.
– Certo, ma potrebbe esserti venuto in mente qualcosa di nuovo, oppure forse avevi taciuto qualcosa e hai cambiato idea.
– Guarda che non sono stupida. So come funzionano queste cose, ricordi? – I piedi si mossero, inquieti. Era pronta a prendere la porta.
Cambio di tattica. – Lo conoscevi, Chris?
Holly si calmò. – Un po’. Le nostre scuole fanno delle attività insieme, cosà capita di conoscersi. Non eravamo amici, ma la sua comitiva e la mia si erano incontrate parecchie volte.
– Che tipo era?
Alzata di spalle. – Un ragazzo.
– Ti piaceva?
Altra alzata di spalle. – Era lÃ.
Conoscevo un po’ il padre di Holly, Frank Mackey, della squadra Infiltrati. Se lo affronti in modo diretto, ti evita e tenta di aggirarti. Se provi tu ad aggirarlo, ti affronta a testa bassa.
– Se sei qui è perché c’è qualcosa che vuoi farmi sapere. Non intendo giocare agli indovinelli. Se non sei sicura di quello che vuoi dirmi, va’ via, rifletti e torna quando sei pronta. Se ne sei sicura, sputa il rospo.
Holly approvò la tattica. Per poco non sorrise di nuovo, ma alla fine si limitò ad annuire.
– C’è questa bacheca, – disse. – A scuola. All’ultimo piano, di fronte all’aula di Educazione artistica. La chiamiamo il Posto Segreto. Se hai un segreto, tipo che odi i tuoi genitori, o ti piace un ragazzo, qualsiasi cosa, puoi scriverlo su un biglietto e attaccarlo lÃ.
Inutile chiedere perché qualcuno farebbe una cosa del genere. Capire le adolescenti è impossibile. Io ho delle sorelle e ho imparato a lasciar perdere.
– Ieri sera, io...