1. Giovanni Giolitti e il «giolittismo».
Giovanni Giolitti (Mondoví [Cuneo], 1842 – Cavour [Torino], 1928) proveniva dalla burocrazia ministeriale (era stato magistrato; poi aveva lavorato nel ministero di Grazia e Giustizia e in quello del Tesoro, dove fu collaboratore del leggendario Quintino Sella). Divenuto deputato nel 1882 nei ranghi della Sinistra storica, fu designato presidente del Consiglio nel 1892, ma l’anno dopo dovette dimettersi, a causa dello scandalo della Banca Romana. Nella crisi di fine secolo s’oppose alla politica reazionaria dei ministeri Rudiní, Pelloux e Saracco; e fu ministro dell’Interno nel ministero Zanardelli, che doveva segnare una svolta rispetto ai precedenti orientamenti di governo.
Quando Zanardelli, illustre protagonista del Risorgimento, vecchio e stanco, fu costretto a lasciare il potere nel 1903, morendo poco dopo, gli subentrò lo stesso Giolitti, il quale, salvo brevi intervalli, conservò tale ruolo fino al 1913. Questo decennio è ciò che solitamente si definisce «l’età giolittiana» o «l’Italia giolittiana»: tanto grande fu l’impronta che lo statista piemontese fu in grado d’imprimere sul paese.
In sintonia con gli orientamenti del nuovo monarca, Vittorio Emanuele II, piú liberi e aperti di quelli di suo padre, Giolitti tentò – e per una lunga fase con successo – di operare una conciliazione fra gli interessi proprietari, l’autorità statuale e le richieste sempre piú pressanti, e spesso legittime, delle masse lavoratrici e delle loro organizzazioni politiche e sindacali. Si attua cosí, per la prima volta in Italia (e a lungo l’esperimento resterà isolato), un’operazione di tipo riformista. Si potrebbe dire, molto sinteticamente, che il liberalismo, espressione classica del ceto dirigente non radicale uscito dal Risorgimento, evolve con Giolitti verso una moderna forma di liberaldemocrazia.
Gli effetti rapidamente si videro. Con un comportamento piú oculato e imparziale da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine, si allentò il clima di tensioni sociali, che nella fase precedente aveva portato quasi alla violenta dissoluzione del paese. Furono introdotte misure d’ogni genere a favore della classe operaia (l’assicurazione degli operai, la cassa nazionale per l’invalidità e la vecchiaia, la cassa di maternità; fu regolato il lavoro delle donne e dei fanciulli e il riposo; fu favorito l’aumento dei salari). Al tempo stesso, Giolitti si adoperò con tutti gli strumenti possibili di facilitazione e d’intervento ad agevolare in Italia la crescita di una grande industria, riuscendo a realizzare risultati indubbiamente lusinghieri (il reddito nazionale, che era nel 1895 di 61 423 milioni di lire del 1938, raggiunge nel quinquennio 1911-15 i 92 340 milioni; la partecipazione dell’industria alla formazione del prodotto lordo privato sale dal 19,6 nel 1895 al 25 per cento nel 1914, mentre quella dell’agricoltura decresce dal 49,4 al 43 per cento). Alcuni dei grandi gruppi industriali ancora oggi operanti nel nostro paese – per esempio, la Fiat di Giovanni Agnelli – nacquero allora. Notevoli progressi furono inoltre conseguiti nel campo delle grandi infrastrutture: aumentò, ad esempio, di gran misura la rete ferroviaria, che al tempo stesso fu totalmente statalizzata. Nonostante la grande mole degli investimenti, Giolitti, che era un sagace amministratore, raggiunse il pareggio nel bilancio dello Stato nell’esercizio 1911-12.
Anche nel campo dell’alfabetizzazione e della scuola furono registrati in questa fase importanti progressi.
L’opera di Giovanni Giolitti non fu priva tuttavia di debolezze e d’incongruenze. Ad esempio, le pratiche di governo ricalcarono spesso quelle del periodo precedente. Nelle consultazioni elettorali il presidente del Consiglio non esitò a servirsi, al fine della raccolta di voti, dell’opera dei prefetti, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia: un giovane storico meridionale, allora socialista, Gaetano Salvemini (1873-1957), lo definí per questo il «Ministro della Malavita». Anche nel gioco parlamentare le vecchie pratiche – clientelismo e trasformismo – non vennero abbandonate (e ciò anche in conseguenza, come abbiamo già osservato in precedenza, dell’assenza in Parlamento di grandi e coesi partiti nazionali).
1.1. La «questione meridionale».
Piú grave l’accusa che studiosi e politici d’orientamento liberista e meridionalista frequentemente gli mossero già allora quanto agli orientamenti di politica economica e ai loro riflessi sul paese reale. La creazione di una grande industria al Nord e, piú limitatamente, al Centro richiese da parte del Governo una politica di carattere protezionista, onde agevolare la concorrenza con le altre, enormemente piú sviluppate, nazioni europee. Inoltre, la politica di apertura verso la classe operaia produsse i suoi frutti soprattutto in quelle zone del paese, in cui una classe operaia esisteva ed era abbastanza forte da far sentire la sua voce: là dove, appunto, le misure protezionistiche avevano favorito i grandi insediamenti industriali, e dove di conseguenza lavoravano grandi masse operaie. Parve allora – anche se si trattava in gran parte di una illusione ottica – che interessi della grande industria e quelli operai (o meglio: di quei settori delle masse lavoratrici, che già allora furono definiti «aristocrazie operaie») tendessero a coincidere. Si trattava pur sempre, in ogni caso, di quei settori del Nord in rapida espansione (soprattutto Piemonte, Lombardia e Liguria, ma anche, sia pure in piú modesta misura, Emilia, Toscana, Umbria).
Ne derivò un ulteriore abbassamento relativo delle condizioni economiche e di vita delle regioni meridionali. La «questione meridionale», che era già nata negli anni successivi all’Unità, si ripresentò in una maniera ancor piú lacerante e in una chiave quasi generalmente antigiolittiana.
1.2. «L’Italia lontana».
Uno degli effetti piú drammatici e dolorosi, provocati dalle difficili condizioni economiche del paese e subiti soprattutto dalle poverissime masse popolari, fu l’emigrazione oltre confine di porzioni enormi della popolazione italiana. Questo fenomeno – considerato allora da molti una positiva «valvola di sfogo» rispetto all’insostenibile pressione sociale creatasi – in realtà produsse guasti enormi allo sviluppo culturale e civile del paese. Ed esso, sebbene riguardasse l’intera realtà nazionale, fu, per i motivi che abbiamo finora ricordato, particolarmente consistente nelle regioni meridionali.
Ogni anno, fra il 1876 e il 1886, parte dall’Italia una media di 135 000 persone e di 270 000 fra il 1886 e il 1900. Questa media sale a 616 000 fra il 1901 e il 1914. Insomma, in totale, fra l’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale lasciano l’Italia piú di dieci milioni di persone addette in genere nei paesi di destinazione ai lavori piú umili e meno retribuiti: una cifra enorme. Inviando il denaro delle rimesse in patria, gli emigranti contribuirono oltretutto a compensare il disavanzo della bilancia commerciale: ma a prezzo di un danno complessivo enorme.
«Colonie» italiane s’installarono in quasi tutti i paesi europei. Ma la grande massa s’indirizzò verso l’America del Sud e, soprattutto dopo l’inizio del nuovo secolo, verso l’America del Nord. Vi fu chi preconizzò allora la creazione di una specie di «Magna Italia» all’estero, in particolare in America Latina. Ma le condizioni culturali della massa degli emigranti – in gran parte analfabeti – impedí la concreta realizzazione d’un tale mito (peraltro, in sé e per sé illusorio).
D’altra parte, di fronte all’entità di tale fenomeno, l’attenzione della cultura e della letteratura contemporanea fu pressoché irrilevante. Ne troviamo qualche traccia in un autore come De Amicis (Dagli Appennini alle Ande, nel Cuore; e in alcuni dei suoi libri di viaggi). Ne trasse pretesto per un’esposizione delle proprie teorie il teorico e politico nazionalista Enrico Corradini (1865-1931) nel romanzo La patria lontana (1910, cfr. infra, cap. II, par. 2.). Piú recentemente, invece – molto piú recentemente – si è verificato un ritorno di fiamma, molto serio e autorevole, da parte delle lettere italiane nei confronti di tale gigantesco fenomeno. Mi riferisco a Vita (2003), di Melania Mazzucco (cfr. infra, cap. VI, par. 9., in cui l’autrice rievoca, in una vicenda di emigrazione, una propria storia famigliare; e a Pane amaro di Elena Gianini Belotti (cfr. infra, cap. V, par. 9.4.), che racconta la storia di un «immigrato italiano in America», cioè suo padre. Si vede che la «memoria» conta talvolta piú del «vissuto» e del «fatto reale».
Naturalmente, in una dilatazione ulteriore del concetto, già di per sé assai ampio, di Storia europea della letteratura italiana (che so, una sorta di Storia della letteratura italiana nel mondo) sarebbero da comprendere anche quei fenomeni e quelle figure derivanti, soprattutto al livello di seconda e terza generazione, dal ceppo emigrante italiano. Numerosi sono gli scrittori statunitensi inscrivibili in tale categoria antropologico-culturale: da John Fante (1911-1983), lirico cantore degli umili ambienti dell’immigrazione italo-americana, a Mario Puzo (1920-99), inventore della mitica, e assai commerciale, figura de Il padrino (1969), a Don DeLillo (1936), uno degli attuali maestri del post-moderno (Underworld, 1997). Piú recentemente, sono state esaminate in sequenza le esperienze di diverse scrittrici italo-americane, unite dalla comune predilezione per un genere di ricordi e di recupero memoriale, come i cosiddetti «memoir» (C. Romeo, Narrative tra due sponde, 2005).
2. La cultura italiana e il giolittismo.
Uno dei problemi politico-culturali piú difficili da interpretare e capire in questa Italia di primo Novecento è il perché non nascesse allora un’organica e coesa tendenza intellettuale a sostegno dell’esperimento giolittiano. Anzi. Si direbbe che, a simpatizzare di piú con il riformismo dello statista piemontese, fossero gli uomini dell’«altra sponda», i socialisti, che a lungo erano stati perseguitati, e a lungo avevano atteso che qualcuno di parte borghese s’accorgesse che esisteva una «questione sociale» e che questa «questione sociale» andava affrontata con altri mezzi che con i fucili dei carabinieri e delle forze armate. Questo qualcuno sembrò incarnarsi in Giovanni Giolitti, e i massimi dirigenti del Partito socialista ebbero il coraggio di riconoscerlo, e da subito.
C’è una pagina celebre del giovane Claudio Treves (1869-1933): già di una seconda generazione socialista rispetto a Filippo Turati e a Leonida Bissolati, ma perfettamente assimilato a questi), che vale la pena di citare ampiamente, perché è di una eloquenza viva e intraducibile. È un articolo della «Critica sociale» del 1899, che cosí inizia:
C’è dall’altra riva un uomo che ci ha capito. L’uomo può essere simpatico od antipatico, ispirare fiducia o diffidenza, può essere un furbo o un ingenuo; il movimento di ricomposizione dei partiti può averlo favorevole o contrario, alla testa o alla coda; tutte queste sono singolarità accidentali; l’importante è che l’uomo abbia capito.
Treves prosegue precisando che «l’uomo, per quello che ha capito, non sarà mai nostro» (cioè, non diventerà mai «socialista»). Questo non toglie che egli abbia saputo levarsi di fronte alla «selva reazionaria» e chiederle conto delle «promesse che da molti anni si ripetono sempre». Perciò, ove ce ne fosse bisogno, contro quei comuni nemici, i socialisti non dovrebbero «essere scarsi di aiuto».
Si direbbe paradossalmente che questa confluenza nella medesima direzione del riformismo liberaldemocratico di Giolitti e del riformismo socialista dei Turati, dei Bissolati, dei Treves, invece di favorire la crescita di un’atmosfera intellettuale e culturale propizia all’esperimento, spinga nel senso di una divaricazione degli opposti. Cioè: sia nella destra sia nella sinistra dello schieramento culturale (ma anche politico) si rafforzano quei settori che a quell’esperimento sono dichiaratamente contrari. Gli intellettuali, evidentemente, continuano a cercare altro rispetto a quella modesta, pragmatica proposta di governo. E questa sorta di «divaricazione degli opposti» contribuisce a creare un clima di generale insoddisfazione, di disagio e di conflitto, quasi che le cose stessero andando peggio che nel tormentato periodo precedente.
Vediamo un poco piú in dettaglio la fenomenologia culturale, che a poco a poco da queste tensioni si venne creando.
Per ricominciare il discorso su questo argomento, converrebbe forse richiamare l’opera di Alfredo Oriani, il quale, come abbiamo visto (cfr. supra, cap. I, par. 16.1.), già dall’interno della crisi di fine secolo aveva esaltato in modi immaginosi e retorici la missione civile e guerriera dell’Italia; e sostenuto con forza la figura e l’opera di Francesco Crispi (il cui tramonto politico dopo la sconfitta di Adua venne interpretato da lui e dagli altri rappresentanti della medesima tendenza come un vergognoso tradimento del ceto politico italiano nei confronti di questo valoroso campione della nostra dignità nazionale e come un segno della decadenza profonda che attraversava tutto il popolo italiano dai ceti piú alti a quelli piú bassi).
Cresce negli anni successivi la tensione intellettuale su queste tematiche. Con ben altra forza di Oriani, il sociologo ed economista Vilfredo Pareto (1848-1923), il quale aveva appartenuto fino a qualche anno prima alla frazione radicale, in opere come Les systèmes socialistes (1903), Fatti e teorie (1920), Trasformazione della democrazia (1921), criticò essenzialmente teorie e metodi del socialismo e ribadí la superiorità del sistema economico e proprietario borghese (va al tempo stesso ricordato che, con il monumentale Trattato di sociologia generale, 1916, Pareto fondò dal punto di vista teorico e analitico i principî di una scienza nuova, come, appunto, la sociologia).
Quasi in contemporanea nasce un’altra «nuova scienza»: quella che consiste nell’analisi sistematica e nella individuazione teorica dei principî che presiedono all’agire politico (si potrebbe osservare che aveva iniziato a farlo Aristotele: ma la novità ora è che ci si sofferma in modo particolare sui caratteri e le procedure politico-istituzionali di una moderna società di massa). Gaetano Mosca (1858-1941), teorizzando negli Elementi di scienza politica (1896) il concetto di «classe politica», o «aristocrazia dominante» (ripreso poi del resto e sviluppato dallo stesso Pareto), contribuí a incrementare un clima già in atto di svalutazione del sistema liberale rappresentativo, in favore di soluzioni forti, da affidarsi ai gruppi capaci di esprimere una volontà politica piú ferma e una maggiore omogeneità e compattezza interna (posizione nella quale residui di positivismo evoluzionistico, come accenneremo meglio piú avanti, si fondono con l’accentuato «soggettivismo» e «volontarismo», che contraddistinguono gran parte degli atteggiamenti mentali e intellettuali di questo periodo). Va detto che sia Mosca sia Pareto furono tra i primi studiosi dell’Italia unita ad avere una larga risonanza internazionale.
Queste tendenze e idee non ebbero un immediato riscontro politico. Tuttavia, non possiamo non rilevare, almeno come una coincidenza altamente significativa, il fatto che, proprio all’inizio del secolo, si costituisca in Ita...