Corruzione
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Corruzione

Un testimone racconta il sistema del malaffare

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Corruzione

Un testimone racconta il sistema del malaffare

Informazioni su questo libro

Piergiorgio Baita è stato a lungo protagonista di un settore strategico quale la costruzione delle grandi opere. Qui ricostruisce il modo in cui, in questo settore, le regole dell'illecito si sono codificate, strutturate e diffuse a tutti i comparti dell'economia. Come cattivo mercato e cattiva politica si sono contaminati e reciprocamente legittimati. Come si è saldato il sodalizio criminale tra imprenditoria incapace e pubblica amministrazione incompetente. La sua è la riflessione di chi la corruzione l'ha vissuta in prima persona e per questo ha conosciuto, da Tangentopoli allo scandalo Mose, l'azione giudiziaria, il carcere, i processi. Alla luce di ciò ha maturato il convincimento che «la corruzione è certo un reato ma è anche un modello mentale, una stortura culturale». E se il contrasto e la punizione del reato sono compito della magistratura, il cambiamento del sistema compete all'intera società. Per necessità etica, senza dubbio, ma soprattutto, afferma Baita, per convenienza economica.

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Capitolo secondo

La regola

Il giorno 28 maggio 2013 alle ore 15.25, in Venezia, presso gli uffici della Procura della Repubblica, avanti ai Pubblici Ministeri Dott. Stefano Ancilotto e Dott. Stefano Buccini, Sost. Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Venezia, è comparso: BAITA Piergiorgio, nato a Venezia il 18/8/1948, residente in Mogliano Veneto, via Rimini, 6/A. Detenuto presso la Casa Circondariale di Belluno.
Tre mesi, tre mesi esatti. Tre mesi possono bastare per mettersi e mettere in discussione? Per dire «ho sbagliato, abbiamo sbagliato». E stop, un altro mondo. E non è tardi. Una vita, certo. Ma pure gli amici. Veri amici? Gli amici di affari possono essere reali nuclei affettivi? Sotto quali e quanti colpi può morire la lealtà? E che lealtà è quella misurata dal dare e dal ricevere, dal dire: io ti faccio questo, tu in cambio… e cosí via.
In carcere il tempo è un non tempo, non servono orologi. Non serve la frenesia dell’eterna connessione, nessuna tecnologia. Solo atti ripetitivi e carte, centinaia di carte. Le carte di un’ordinanza, i risvolti normativi di un’accusa, di un’ipotesi, di un’indagine. Tutto può cosí apparire segnato e determinato. La strategia agli avvocati.
Poi, accade che uno dei colloqui prenda una piega inaspettata e allora ciò che era determinato diventa un tavolo da mandare a gambe all’aria. Spesso i figli sono uno specchio. Piergiorgio Baita e suo figlio non fanno eccezioni.
Il medesimo ragazzino, che a undici anni fece a pugni con i compagni per dire «figlio di tangentaro a chi? Vieni qui se hai coraggio», pronto a battersi con ogni forza, è ora un uomo, ha una quasi laurea in Giurisprudenza ed è seduto dall’altra parte di un tavolo. Ha fatto anticamera con gli altri parenti in visita. Carcere di Belluno e non va troppo male. Si è guardato a lungo attorno. Giacomo ha forse chiaro cosa dire, ed è deciso a parlare, ma sta cercando il modo migliore per attutire il colpo. È infatti abbastanza conscio e consapevole da sapere che quello che ha nella testa sarà sí un pugno in faccia. «Guarda che al Consorzio…» ecc. Il ritorno in cella è l’azzeramento. Stop, passato azzerato, si ricomincia.
L’arresto, ovvero il risveglio.
Piergiorgio Baita è in carcere dal 28 febbraio. «Chissà perché i finanzieri arrivano sempre all’alba. Ricordo che quella mattina mia moglie uscí di corsa perché aveva un’udienza o comunque doveva correre in ufficio per depositare un atto, insomma non poteva restare a casa, cosí mi lasciò lí mentre perquisivano ovunque. Dopo, al ritorno, portò i panini per tutti. Nel pomeriggio mi accompagnarono in carcere».
Sorpreso? Sí, forse. Non credeva che sarebbe accaduto veramente e di nuovo. L’accusa è associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale.
I pensieri del viaggio sono i pensieri di chi cerca un nuovo orientamento dentro una mappa sconosciuta. L’arresto è l’atto finale di un’inchiesta partita da lontano. Baita lo sa e per quel che ha potuto ha cercato di salvarsi e salvare il salvabile. Come sa anche che dal 1992 sono passati ventuno anni, il modo dei magistrati di indagare è cambiato, nel senso che ora i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria hanno dalla loro tutta la capacità della tecnologia, e cioè intercettazioni ambientali e cioè telefonini. Pedinamenti e telecamere. E siccome sa anche che la Guardia di Finanza sta indagando sul Consorzio Venezia Nuova dal 2010, c’è da presupporre che in tre anni abbia centinaia di ore di intercettazioni, centinaia di immagini, riscontri su riscontri. Ancora i titoli sui giornali… scriveranno, e sí, scriveranno1.
Dunque schematizziamo. I fatti: quattro arresti.
I protagonisti: oltre a Baita, c’è Claudia Minutillo ovvero l’amministrazione Galan, ovvero la politica. Claudia Minutillo, amministratore delegato della società Adria Infrastrutture, è stata infatti la segretaria dell’ex governatore del Veneto. Poi Nicolò Buson, direttore finanziario della Mantovani, ovvero la perizia tecnica. Poi William Ambrogio Colombelli, fondatore e amministratore a San Marino della società Bmc Broker, ovvero il braccio operativo.
La motivazione: hanno (avrebbero) creato un’associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale. Finalizzata a creare fondi neri.
L’ipotesi: i fondi neri sono serviti a pagare tangenti. A chi? Alla politica2.
Svolgimento: Colombelli a San Marino aveva fondato la società Bmc Broker, che emetteva fatture false a diverse società del gruppo Mantovani o a Adria Infrastrutture (la società di cui Claudia Minutillo è amministratore delegato). Dopo che le fatture venivano pagate, Colombelli andava in banca e prelevava in contanti le somme pagate. In realtà prelevava somme leggermente inferiori, la differenza era la “cresta” per il servizio svolto. Queste somme, secondo i magistrati, «venivano poi riconsegnate a Baita e a Minutillo», in gran parte il resto depositato «su altri conti personali esteri a San Marino»3. La Bmc era dunque quello che in gergo criminal-finanziario viene definita una società cartiera. Ed ecco il perché dell’ipotesi della procura: troppi fondi neri per non pensare che di mezzo non ci sia la politica. «Nei miei primi due mesi in carcere succede una cosa che non ho mai detto a nessuno. Succede che mi trovo in uno stato di singolare isolamento. Mi spiego: accade che il pubblico ministero, Stefano Ancilotto, non chiede di interrogarmi, ma soprattutto succede che il mio avvocato, Pietro Longo, non chiede l’interrogatorio. Allo stesso tempo non mi fanno parlare con mia moglie. Mesi dopo chiederò spiegazioni al dottor Ancilotto di quest’ultimo fatto. Quasi scherzando gli dirò infatti: “Certo, dottore, potevate farmi parlare con mia moglie”. La sua risposta per me fu sorprendente. Mi disse: “L’avrei fatto se qualcuno mi avesse presentato la richiesta”. Ah, ecco! Nessuno ha inoltrato la richiesta di colloquio, dico nessuno dei miei avvocati. Ah, ecco! Ma torniamo indietro. Sono dunque in carcere e da due mesi non ho notizie di quel che accade fuori. A un certo punto, durante un colloquio, l’unico avuto con mio figlio, ho un’intuizione, anzi capisco tutto. Capisco quello che mi sta succedendo e capisco quello che avrei dovuto fare. Mio figlio mi dice: “Guarda che al Consorzio si muovono come se quello che ti è accaduto non li riguardasse”. Bene! Bene, penso. Constato che l’unico reato che ho commesso, l’ho commesso per obbligo di appartenenza al Consorzio, invano. Faccio due ragionamenti e mi rendo conto che la strategia era evidente: non volevano che emergesse la responsabilità del Consorzio, che venisse fuori il sistema.
«Scoprirò, in seguito, che dentro, all’interno del Consorzio, avevano fatto dei veri gruppi di lavoro con il fine di circoscrivere le responsabilità alla Mantovani, e in particolare a me. Queste riunioni ai massimi livelli non tenevano conto però di tutto quello che sapeva la procura. C’erano microspie da tre anni in ogni ufficio dei dirigenti del Consorzio. Il suo direttore, l’ingegnere Giovanni Mazzacurati, durante i suoi viaggi romani era pedinato, cosí come era intercettato da tempo. Evidentemente avevano pensato di salvare la parte imprenditoriale, cioè il Consorzio, e la politica, cioè Giancarlo Galan, sacrificando me.
«Mi affido allora a mia moglie e scelgo come mio difensore un suo amico da vent’anni, il veneziano Alessandro Rampinelli, e il professor Enrico Ambrosetti, notissimo legale vicentino. Scelgo di uscire dal giro dei penalisti di grido perché era chiaro che in vent’anni di Consorzio non ce n’era uno che con il Consorzio non avesse avuto rapporti».
Quando infatti la notizia di questo cambio del collegio difensivo varca la porta del carcere, fuori impazza il toto-interpretazione; i piú ne deducono un mutamento anche nella strategia difensiva di Baita. Sempre il «Corriere Veneto» ad esempio scrive, a pagina cinque: «Ora il livello politico trema. Piergiorgio Baita è pronto a parlare e a raccontare la sua verità». Alcuni giornali raccontano anche che «Baita non ha sua sponte revocato il collegio, bensí sono stati Longo e Rubini a fare un passo indietro»:
L’avvocato e deputato del Pdl Piero Longo e la collega di studio Paola Rubini, da poco piú di una settimana, non sono piú i difensori di Piergiorgio Baita, che giovedí scorso è stato interrogato a lungo dal pubblico ministero di Venezia Stefano Ancilotto, alla presenza dei nuovi difensori, gli avvocati Alessandro Rampinelli di Venezia ed Enrico Ambrosetti di Vicenza. Normalmente, quando accade che un indagato in carcere, in questo caso si trova in quello di Belluno da poco piú di tre mesi, lascia i vecchi difensori per prenderne di nuovi significa che ha deciso di cambiare strategia. In questo caso, visto che, fino a qualche giorno fa, Baita non ha detto una parola, cambiare per lui significa collaborare con gli inquirenti. Ma non è stato lui a revocare gli avvocati Longo e Rubini, bensí sono stati i due legali padovani a rinunciare all’incarico. Dai protagonisti della vicenda solo no comment: quelli che lasciano hanno semplicemente confermato di non difendere piú l’ex presidente della «Mantovani», quelli entranti ammettono di essere i nuovi difensori e niente piú. Neppure il pm Ancilotto parla. Dunque, si possono avanzare soltanto ipotesi. La prima è che Baita abbia davvero iniziato a collaborare con gli investigatori della Guardia di Finanza e con il rappresentante dell’accusa e che gli avvocati Longo e Rubini abbiano lasciato perché non sono d’accordo con questa decisione essendo convinti della bontà di un’altra linea difensiva. Un’ipotesi suggestiva, che potrebbe trovare una conferma dalla circostanza che Baita, in seguito alla richiesta di rito immediato, avrebbe teoricamente la prospettiva di rimanere in carcere, in detenzione preventiva, ancora un anno. Se per le indagini preliminari il termine della carcerazione preventiva è sei mesi, dopo il rinvio a giudizio – in vista del processo – si aggiunge infatti un anno. E, comunque, anche in caso di un rito alternativo (patteggiamento o abbreviato), l’indagato dovrebbe attendere la sentenza in una cella. Visto che gli altri tre indagati, Claudia Minutillo, William Colombelli e Nicolò Buson, sono già liberi e comunque hanno ottenuto gli arresti domiciliari non appena hanno riferito ciò che sapevano sulla vicenda, Baita potrebbe aver pensato che l’unico modo di uscire dal carcere di Belluno sia quello di ammettere4.
In seguito Piero Longo e Paola Rubini, anche lei difensore di Baita, daranno la loro versione dei fatti, rilasciando alcune dichiarazioni alle agenzie di stampa. Il pretesto? Un’operazione al cuore di cui Baita ha parlato ai magistrati e che il presidente della Mantovani non aveva proprio alcuna voglia di fare.
«Mai, ovviamente, abbiamo consigliato al nostro cliente di sottoporsi a un’inutile operazione per rinviare un interrogatorio». È quanto affermano, in una nota, gli avvocati Piero Longo e Paola Rubini in merito a quanto «apparso sui giornali, in particolare a pagina 8 del “Fatto Quotidiano”», secondo cui i legali avrebbero proposto a Piergiorgio Baita, l’imprenditore coinvolto nell’inchiesta sul Mose, un’operazione all’aorta per non rendere altri interrogatori. «Gli accertamenti clinici da noi richiesti sullo stato di salute dell’allora nostro cliente erano finalizzati esclusivamente a verificare la compatibilità del regime carcerario con il suo stato di salute – spiega la nota. L’ingegner Baita, in un’enfasi accusatoria, ci accusa di un comportamento assurdo e stupido, posto che nessuno può obbligare un indagato a sottoporsi a un interrogatorio. D’altro canto, l’interrogatorio era stato chiesto da questi difensori e avrebbe dovuto proseguire. Nel rispetto del segreto professionale, possiamo solo dire che la rinuncia al mandato fu formalizzata quando l’ing. Baita ci comunicò la sua intenzione di collaborare con l’accusa. L’incompatibilità, a termini di codice deontologico, era determinata dal fatto che l’ing. Baita, nostro storico cliente, era perfettamente a conoscenza che nostro cliente da molti anni era anche il Consorzio Venezia Nuova e l’ing. Mazzacurati. Tutto il resto è pura fantasia»5.
Mentre in un suo interrogatorio Baita cosí spiega quanto accaduto. Sono le 15.45 del 17 giugno del 2013 e il pubblico ministero cerca di capire le ragioni che lo hanno spinto a cambiare strategia. Dice: «Dopo il suo arresto, prima lei si è avvalso della facoltà di non rispondere, poi ha reso un interrogatorio dallo scarso valore probatorio, dove ha di fatto negato tutto, dopo ancora ha iniziato a collaborare con l’Autorità giudiziaria». Perché?
Il pm si domanda e domanda: «Ha avuto pressioni per non collaborare con l’Autorità giudiziaria o comunque per proteggere alcuni destinatari finali di queste somme di denaro illecitamente accantonate?»
No, nessuna pressione. O meglio: «La parola pressione, – dice Baita, – non è corretta. Dopo il mio arresto i miei unici rapporti erano con il mio collegio di difesa e sia l’avvalermi della facoltà di non rispondere, sia l’interrogatorio del dieci sono stati resi secondo indicazioni che gli avvocati mi avevano dato. Dopodiché la proposta è stata: non rendiamo altri interrogatori e facciamo un’operazione all’aorta sulla base di un certificato medico. Ora, è vero che io strutturalmente sono un iperteso, però ho una pressione che è controllata dai farmaci. Da qui a farmi operare… ecco perché ho rifiutato, nonostante la visita dei due cardiologi in carcere, di farmi operare, dicendo che non vedevo il motivo di farmi operare per non rendere un interrogatorio ulteriore rispetto a quello del dieci, e che era mia intenzione invece rendere un interrogatorio diverso. E a quel punto mi è stato detto: “Beh, ma se è cosí allora non possiamo piú difenderti perché abbiamo delle incompatibilità con delle persone”».
A questo punto del confronto il pubblico ministero cerca di capire quanto questa possibilità, prospettata, dell’operazione fosse concreta o una mera ipotesi.
Risposta: No, no, mi ha detto: «Adesso fissiamo la visita... il ricovero al Centro Gallucci», è stato questo che mi ha messo paura, insomma, non mi pareva... non c’era motivo.
Domanda: Lei non aveva nessuna intenzione di operarsi?
R.: Ma assolutamente no!
D.: Né il suo medico di fiducia le ha mai prospettato un intervento chirurgico all’aorta?
R.: Assolutamente. Ma anche i cardiologi che sono venuti mi hanno misurato la pressione, non mi hanno visitato. Mi hanno misurato solo la pressione, che hanno trovata, tra l’altro, regolare.
D.: Quindi tutta la visita che poi avrebbe portato a un’operazione chirurgica sarebbe da considerare una misurazione della pressione?
R.: Sí. E anche con una parcella importante: di quindicimila euro.
D.: Per misurarle la pressione?
R.: Sí.
D.: Dopodiché questi cardiologi o comunque i suoi difensori cosa le hanno proposto?
R.: No, sono stato io che gli ho detto che non mi sarei mai fatto ricoverare. Se per non rendere un interrogatorio dovevo farmi operare, allora rendo l’interrogatorio, perché non ho nessun tipo di remora… a quel punto hanno rinunciato, spiegandomi che c’erano certe incompatibilità con certe persone6.
Al di là delle dinamiche personali, vale a dire dello scontro personale tra Baita e i suoi ex avvocati, l’episodio è una rappresentazione. La perfetta sceneggiatura che descrive un mondo dai contorni assai precisi: un mondo in cui determinanti sono le relazioni e l’appartenenza. Il punto fermo è che tra Baita e i suoi difensori si è rotto il rapporto di fiducia e che, soprattutto, Baita inquadra i due avvocati come parte di quel mondo che vede ora collassare, e collassare sulla sua testa. Troppa distanza. Come quella che ormai si sta delineando con Giovanni Mazzacurati. Tra i due il rapporto è antico anche se con delle interruzioni, per l’esattezza con una pausa lunga quasi dieci anni, tra il 1983 e il 1993.
A Mazzacurati, Baita deve il suo primo lavoro. «È stato lui ad assumermi appena laureato alla Furlanis. Aveva chiesto al professore, Giuseppe Matteotti, che all’Università di Padova insegnava geotecnica e scienze delle costruzioni, di suggerirgli alcuni giovani promettenti e lui fece il mio nome. Mi ero appena laureato con centodieci». E successivamente si concretizza anche una nuova proposta di lavoro, quando Mazzacurati suggerisce il nome di Baita al gruppo Chiarotto («Anche ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Corruzione
  3. I. Il Mose, il Monstrum
  4. II. La regola
  5. III. Il sistema
  6. IV. Una mela marcia, tante mele marce.
  7. V. Le vittime. Quali vittime? Tutti noi siamo vittime
  8. VI. Sui delitti, sulle pene
  9. Postscriptum
  10. Il libro
  11. Gli autori
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright