Tardegardo è sí irrequieto che stamani non entrò nemmeno in Biblioteca. Lo sentii passeggiare in diverse parti della casa, e quando ’l scontrai, e’ colse sempre un pretesto per cambiar di locale.
Alle ore dieci giunse in Biblioteca la Pilla tutta eccitata, per dirmi che stavano arrivando il Fattore e Scajaccia, insieme ad un terzo uomo. Prevedendo che il signor Padre li riceverebbe nel salone, ci affrettammo a correre nello studiolo, donde avremmo potuto osservare tutta la scena; vi giungemmo appena in tempo per chiuderci dentro, lasciando leggermente schiusa la porta per sbirciare di fuori. Scajaccia mettea come sempre paura, ma il suo aspetto era nulla a fronte di quello dell’altro uomo, scuro di pelle che parea un Indiano, con due enormi sopraciglioni neri e un orecchino d’oro grosso come un anello da toro, e tutto vestito di bruno a eccezione d’un drappo rosso che avvolgeagli la testa alla maniera d’un turbante circasso.
«Allora?» chiese senza complimenti il signor Padre.
«Il signor Scajaccia qui», rispose il Fattore, «è tornato per prendere il lupo. Sú, dite voi».
«Ho stracco il cavallo per tornare a tempo, signor Conte, che stanotte l’è la notte brutta. Io so il modo d’uccidere il lupo, ma mi si deve lasciar fare, mi si deve. Questo qua», ed indicò il misterioso compagno, «è Rado; l’ho preso perché c’è nessun par di lui per riconoscere il lupo, e se il lupo è rimasto, lui me lo mostra».
«E che, ci vorranno adesso i foresti per riconoscere un lupo? Affè ch’anche la mia Paolina ne sarebbe capace…»
«Non questo lupo qua, signor Conte, fidateVi. Lui me lo mostra, e io lo uccido. Pum! un colpo solo. Vedete, Rado non parla mai, e chi non lo conosce lo prende per mútolo; soltanto quando riconosce, apre la bocca per dire una sola parola, che è ‘Lupu’».
«Sia, sia» fece il signor Padre con un gesto di fastidio, «basta che ’l prendiate; darò ordine a tutti gli uomini del paese di portare un po’ d’armi da fuoco».
«È inutile, signor Conte, ci ho io quel che serve. Apposta, lo feci fare».
«E sarebbe?»
«Questo», e sí dicendo estrasse dal taschino un involto di velluto nero, che poi srotolò con gran cura. Da lontano vidi soltanto un oggettin chiaro chiaro, delle dimensioni d’un dente. A tavola, alla signora Madre che gli chiedea un resoconto, il signor Padre disse che Scajaccia avea portato un projetto d’argento, con sovra una tacca a forma di croce.
Ore quattro del meriggio.
Scajaccia e Rado van perlustrando il paese di casa in casa. La Rosa, ch’è appena venuta a portare un po’ di capponi in cucina, disse alla Fiorenza ch’essi pajon due Monatti, perché la gente si nasconde in casa al vederli; e che però essi bussano a tutte le porte pretendendo d’entrare, e se qualcheduno rifiuta arriva il Fattore dicendo ch’è volere del Conte, e una volta entrati Scajaccia resta sulla porta mentre Rado va in tutte le camere squadrando le persone come un bovaro alla fiera, e non parla mai, e subito dopo sen vanno e ricominciano con un’altra casa. La Fiorenza sentí anche dalla moglie del Fattore che Scajaccia è convinto che stanotte il lupo tornerà, e che perciò bisogna scovarlo prima del tramonto, perché dopo sarà un’altra musica; e che si deve sparargli quel projetto d’argento diritto nel cuore, se no non morrà: ma che non serve portarne degli altri, perché si deve raggiungerlo al primo colpo. Ad udir di taj cose il signor Padre si fa delle grasse risate, ed è sicuro che quei due non troveranno niente, specialmente finché cercheranno il lupo nelle case de’ Cristiani anziché ne’ boschi ec. «Superstizioni, fole, baje!» va sclamando dando manate ovunque gli capiti, «Purissimo Medio Evo! Tardegardo! Ov’è il mio figliuolo? Bisognerà dirgli che prenda note di cotali follie per ingrassare il suo trattato sull’imbecillità degli Antichi con una bella Appendice su’ Moderni, uh!»
Ore sei.
Tardegardo giunse or ora in Biblioteca, dicendo d’esser stato sul colle. Adesso cerca di studiare, ma parmi dimolto agitato; a quel ch’io capisco, sta ricopiando sur un quaderno alcuni appunti vergati su foglietti staccati. In questo momento s’è alzato per andare alla finestra; adesso ritorna al tavolo; adesso gli è caduto per terra un volume, ma nol raccoglie; adesso strappa tutti quei foglietti accartocciandoli rabbiosamente. Or gli è caduto un altro volume. Basta, non posso, devo uscire.
Ore nove della sera.
Poco prima del desinare tornarono Rado e Scajaccia. Questi riferí che non aveano trovato, e che ciò poteva dire due cose: «Primo, che il lupo è andato via, e ch’era di passaggio; secondo, ch’è ancora qui, ma ch’è piú lontano o piú vicino di quel che si crede».
«Lontano? Vicino?» brontolò il signor Padre, «Spiegatevi, di grazia, prima ch’io perda la pazienza in questo maladettissimo affare!»
«Quello che ho detto, signor Conte; o in qualche casolare fuori del paese, o qui vicino».
«Per le trippe di Giasone, che mi farete diventar matto! Cosa vuol dire vicino?»
«Il signor Scajaccia», interloquí secca secca la signora Madre, desiderosa di levarsi di casa al piú presto que’ due zotici, «Vi sta graziosamente chiedendo licenza di perlustrare le Vostre scuderie e le stalle e la fattoria e tutto il resto, e perché no anche il Vostro palazzo…»
«Eccola» commentò soddisfatto Scajaccia (mentre il signor Padre era rimasto a bocca aperta dallo sbalordimento), e un attimo dopo s’era già infilato con Rado nel corridojo che mena in cucina. Il signor Padre fece per seguirli, ma la signora Madre lo trattenne: «Lasciateli fare» sibilò, «meno si parla, e prima finiscono. Ah ch’ai tempi della povera signora Madre la marmaglia avea ancora un po’ di rispetto, e si sarebbe fatta squartare prima d’entrare cosí in una casa di Conti!»
Come raccontò poi la Fiorenza, al vedersi piombare in cucina que’ due orribili ceffi ella incominciò a tremar tutta, e quando Rado le ficcò addosso i suoi occhiacci «Brrr!» disse, «che credendo di morire recitai subito le preghiere de’ morti!» In men di mezz’ora i due furono di nuovo indietro nel salone, dove il signor Padre era rimasto a camminare in sú e in giú. Scajaccia gli chiese quante persone abitassero il nostro palazzo.
«Oh beh, fatemi pensare, ci son io, sí mi par proprio di ricordare ch’io abito in questo edificio, bizzarro nevvero? Poi c’è la mia signora moglie Adelaide, e dipoi i miei figliuoli, Orazio Carlo e Paolina, che son questi due, ed il maggiore, Tardegardo Giacomo, che come sempre sarà in Biblioteca: voi nol conoscete, ma un giorno ei sarà molto famoso; quindi la Fiorenza, con mansione di cuoca; la cameriera Bettina; la guardarobiera Rachele; il cocchiere Teresio; le serve Violante e Violetta; lo scudiero Gervaso; i ragazzi di stalla Gedeone e Gastone; e po’ credo basta».
«Sí, li vedemmo tutti, vero Rado? Tutti, tranne uno».
«Uno? Ah volete dir Tardegardo, ma state tranquilli, in Biblioteca ei non corre alcun pericolo d’esser mangiato dal lupo!»
«Cotesta Biblioteca, non si potrebbe vedere?»
«Oh questa poi! È cosí che si cercano i lupi? Il vostro amico passerà davanti a Fedro o La Fontaine e sclamerà ‘Lupu’? Affè ch’io ci capisco sempre di meno! E poi non si può, oh insomma! mio figlio studia, legge, scrive, traduce, crea, capite il significato di cotesta parola, ‘crea’? E non lo si può disturbare».
«Come volete, signor Conte, il padrone siete Voi. Ora con Vostra licenza noi dobbiamo andare. Vieni Rado, si sta facendo scuro».
Al desinare il signor Padre, quasi strozzandosi dalle risa, raccontò a Tardegardo la summentovata conversazione. Tardegardo mantenne un leggiero sorriso, ma io non l’ho mai visto piú bianco. Alzandosi dalla tavola, mi sembrò ch’ei bisbigliasse fra sè qualcosa come: «Licoctònos, o Licòbrotos?», ch’al suon parrebbe greco.
Un’ora prima della mezzanotte.
Perché il lupo debba tornare proprio questa notte non capisco. Il tempo è mite, il cielo sereno e trapuntato di stelle, e rischiarato da una bellissima Luna piena; non s’ode altro suono che quel de’ grilli, e tutto è pace. Io penso che il signor Padre abbia ragione quando parla di superstizioni medioevali, e mi chiedo su quale Almanacco Scajaccia avrà fatto i suoi calcoli. Come non ho sonno, ne profitterò per seguitare d’un altro poco la vicenda del mio Antenato.
Le testimonianze raccolte nella Marca erano varie, ma tutte concordavano su alcuni punti: cadetto del Conte Monaldesco, Sigismondo non avea moglie né figli, e vivea solo con poco seguito; egli abitò in non meno di nove fra castelli e palazzi e casini di caccia che la nostra Famiglia possedea nelle Marche e nell’Umbria, cangiando prudentemente di residenza ogni volta che le voci popolari sul suo conto raggiungevano non piú comportabil misura. Tali voci riguardavano la scomparsa di persone ne’ dintorni della sua abitazione, e la morte di altre «che si ritrouauano in brani, o con Ferite che fuor d’ogni dubio eran di Denti & d’Unghioni di Lupo; & spesso anchora con il Cuore & il Fegato uorati». Qualcuno giurava anche d’aver nottetempo veduto «una grossa Bestia pilosa, che parea mezzo Huomo & mezzo Lupo» entrare nella residenza di Sigismondo per certi passaggi; altri d’aver udito ululati provenire dalle sue finestre ec. ec. Sapute coteste cose, il Giudice scrisse a tutti i suoi uomini nella Marca una lettera con la quale ordinava di accertare lo stato della Luna in quelle notti ove ciò fu veduto o sentito. Mettendo insieme le risposte, ei scoprí che la maggior parte de’ testimoni, pel molto tempo trascorso, non ricordava, ma che cinque di essi eran pronti a giurare che la Luna era piena. Appreso cotesto dettaglio, il Giudice balzò sulla sedia e corse nella sua Cappella a pregare. Quando uscí, istrusse la piú grande caccia che mai si vide in Europa. Per nove anni oltre trecento uomini percorsero le strade di tutti i paesi dal Portogallo alla Dacia ascoltando, interrogando, corrompendo, arrestando, uccidendo; per nove anni il Giudice continuò a ricevere sul suo tavolo pacchi di relazioni, che leggea con febbrile impazienza. Di tutti gli infelici che gli eran portati in catene, accertato che non potea in alcun modo trattarsi di Sigismondo né che sapeano dirgli alcunché su di lui, decretava immediatamente la morte, giacché il fatto stesso d’essere stati arrestati era colpa bastante. «L’Huomo è una Sentina di Vizj», amava ripetere, «& a occiderlo non si sbaglia mai».
Né pertanto ei smettea di pensare al modo d’arrestare Raimondo; del che non avea altro motivo fuori del soddisfar la sua sete di vendetta, non tollerando che uom sulla terra potesse avergli fatto resistenza: ma come le epistole del suo Relatore continuavano a parlare d’una condotta irreprensibile, ei non trovava il mezzo di pizzicarlo. Ed anzi, allor che dopo sei anni quel Relatore fu trovato morto con la testa sfondata, a poche miglia dalla Torre di Raimondo, non vi fu alcun modo di provar ch’ei ne fosse responsabile, e al Giudice non rimase che d’inviare colà un nuovo Relatore.
Avvenne in questo periodo ch’un sicario di nome Giannotto attentasse alla vita del Giudice, ma fosse pigliato un attimo prima di balestrarlo; posto alla ruota, Giannotto confessò d’essere stato mandato da un signore ch’erasi presentato come Sigismondo della Marca, e per cotest’ammissione ottenne la grazia d’esser squartato senza ulteriori torture. «Allhora», riferisce M. de Giromette, «il Giudice lasciò tutte le Inchieste & le Persecuttioni cui staua attendendo, per meglio dedicarsi con ogni sua forza a cotesto solo caso; & era cosa marauigliosissima a uedere come un Huomo uso a manourare nel medesimo tempo centinaja d’humani Destini & a conuersare con Re, Prencipi & Cardinali, si appartasse in sè stesso come un Monaco, non smettendo mai di pensare a Sigismondo come il Monaco non smette mai di pensare al suo Dio».
Poiché quasi nove anni eran passati da quando cominciò la caccia a Sigismondo, senza che questi fosse ancor stato visto in alcun sito, e poiché il medesimo Conte Monaldesco, uom di provata lealtà alla Fede cristiana, giurava di non averne notizia da moltissimo tempo, venne alla mente del Giudice ch’ei potesse starsi ben nascosto nella Torre di Raimondo, e tosto brigò per farla perquisire. Raimondo consigliossi con il suo protettore il Patriarca di Aquileja, cui parve piú prudente non fare contrasto; cosí gli uomini del Giudice penetrarono nella Torre, e frugatala minuziosamente senza trovar nulla, se ne tornarono, non pria però che Raimondo beffardamente dicesse loro di recare i suoi saluti al signor Giudice. Il quale fremette d’ira per questo, ma come tutto il suo essere anelava alla cattura di Sigismondo, rimandò il momento di vendicarsi.
È appena suonata la mezzanotte. Vorrei andare a dormire, ma tienmi desto la curiosità di vedere i fenomeni di questa famosa notte. Ora anche i grilli tacciono, e la Luna è altissima in cielo. Per certo il lupo non verrà. Pure il Giudice Boguet s’interessava alla Luna, quel tristo: e forse Tardegardo va cercando in cotesta Vita, come direbbe il signor Padre, di che ingrossare il suo Saggio sugli errori. Attenderò un’altra ora, e po’, buonanotte al lupo.
Nel mese di settembre dell’anno 1625 giunse al Giudice un’epistola dall’Italia in cui si diceva che in località Segaglione, in fondo a un pozzo abbandonato tutto ostruito di pietre, furon per caso trovate da alcuni operaj l’ossa di numerosi scheletri umani. Avea il Giudice nel suo palazzo un grandissimo salone, alle cui pareti tenea appese le piú precise e vaste mappe di tutte le regioni d’Europa; e ne’ luoghi ove era stato preso un reo, e’ ficcava una banderuola, e in quelli ov’era stato commesso un delitto, o dove il reo era stato visto, mettea uno spillone: e banderuole e spilloni eran di vario colore, secondo il gener di colpa. Ordunque il Giudice si recò in quel salone, e preso uno spillone nero, ch’era quel de’ banchetti umani e delle mutazioni bestiali, cercò nella carta della Valle del Po ove fosse cotesto Segaglione: «& trouatol che l’hebbe, diè in uno Urlo feroce di contentezza, poi che detto Sito distaua soltanto due Migli dalla Torre del Conte Raimondo». Afferma poi M. de Giromette che il Giudice comandò che trenta uomini armati sorvegliassero giorno e notte la Torre tenendosi occulti; che dopo alcuni mesi fu veduta alla luce della Luna una sagoma scura, non si capiva se d’uomo o di bestia, saltar fuori da una picciola finestrella della Torre, con un balzo tale che chi ’l vide non credea fosse cosa da sopravivere; che l’essere misterioso entrò nel bosco pria che si potesse raggiungerlo, e che correa a quattro zampe; che gli uomini decisero di aspettarlo vicino a quella finestrella pensando che prima o poi tornerebbe, come infatti avvenne poco prima dell’alba; che allora gli scaricarono addosso tutte le loro armi ma che quella cosa, apparentemente non ferita, riuscí ugualmente a saltar dentro la finestrella, e che ciò tenea del sovranaturale, poiché le avean sparato da poca distanza e con trenta archibugi; che il dí seguente vollero entrar nella Torre, ma che nessuno rispose; che preso d’assalto il portone, senza che dagli occupanti si facesse contrasto, l’abbatteron con molta fatica; che la Torre fu trovata incredibilmente deserta, e che il Conte e il suo seguito dovean perciò esser fuggiti per un passaggio secreto che riusciva lontano; che il Giudice, anziché sgomentarsi, fe’ forgiare ad un fabbro cinquecento projetti d’argento con sovra scolpita una croce, e raccolti cento uomini glien diè cinque ciascuno, e spedilli in Italia con l’incarico di uccidere il maggior numero di lupi che potessero, ma sol nelle notti di Luna piena, e che in tutte l’altre stessero pure nelle taverne a giuocare. Seguita poi l’Autore a c. 69: «Per cinque Anni gli Huomini del Giudice batterono i Boschi della Valle Padana, giugnendo a Settentrione fin sull’Alpi, & a Mezzogiorno su le Montagne dette de l’Apennino; e’ occisero in cotesto lasso di tempo non meno di CCCLXX Lupi, sanza per questo trouare quel che cercauano. Vero è che due di cotesti Lupi, colpiti nel Cuore dal Projetto d’Argento, al momento di morire trasmutaronsi in Huomini, con spauento grandissimo degli Occisori: ma le loro fattezze non eran quelle del Conte, poiché furono riconosciuti da gli Abitanti del luogo per loro compaesani».
Ho udito un romore dalla parte della fattoria, come di qualcuno che corre. Devono essere Rado e Scajaccia che cercano il lupo. La coincidenza con la vicenda di Sigismondo è sinistra. Io che la conosco giú tutta, vi ho già trovato anche il suo bravo Scajaccia. Era costui uno sgherro di nome Ugurgieri, e fra tutti gli uomini al servizio del Giudice era il piú scaltro e maligno. E’ avea un fiuto speciale per capire se un lupo era degno della palla d’argento, e piú d’una volta stupí i suoi compagni trascurando di mirare a un esemplare scovato. Come il medesimo Ugurgieri riferí poi al Giudice, ei s’era da poco trasferito in Garfagnana a seguito d’alcune voci, secondo le quali un enorme lupo di pelo nerissimo come il carbone avea commesse dimolte occisioni d’uomini e bestie a distanza d’un mese l’una dall’altra, e sempre con la Luna piena. Comandò allora Ugurgieri ai suoi compagni che in quelle notti e’ si spargessero per tutte le valli della Garfagnana accendendo gran fuochi e facendo romore, e che sol s’astenessero da una valle, detta la Vergogna, piú stretta e profonda dell’altre; in questa, dopo avervi sciolto una greggia di pecore ben pasciute, ei s’ascose solitario, e cosí ripetè ne’ plenilunj seguenti: e ben gli avvenne, ch’al quinto mese, un’ora dopo la mezzanotte, senza ch’ei ’l vedesse arrivare, un enorme lupo nero pi...