La vita degli altri, attraverso lo spioncino del mio appartamento, era sempre una vita migliore della mia. Persone che amavano mangiare, lavorare in un posto normale, fare l’amore due volte alla settimana e tutte quelle cose che danno un ordine. I miei vicini avevano appeso fuori dal loro appartamento una fotografia in cui erano ritratti lui, lei e il bambino mentre sorridevano e si abbracciavano. Ammiravo la sicurezza e la fiducia in se stessi, si mostravano a venditori porta a porta, zingari, testimoni di Geova e addetti del gas in tutta la loro intima felicità . Era una Polaroid, da un po’ di tempo sembrava essere tornata in voga. Riproduceva la stessa estetica delle cose guardate da uno spioncino, un alone nero attorno alla vita che scorre, e io ero quel nero. Non a caso avevo cominciato a guardare i porno di Simon Thaur, la serie Ausgeliefert o Sex Trance Bizarre, che mostravano inquadrature ristrette dal basso, come se si stesse guardando la scena da un buco della serratura. Uomini e donne attorno al bancone di un bar discutevano in tedesco per lunghi minuti prima che accadesse qualcosa, poi cominciava l’azione, un party fatto di umidi giochi e orge, oppure niente, tre ore di donne e uomini che ballavano in abiti pittoreschi: un porno senza sudori e umori, solo movimento e ammiccamenti.
In quel periodo avvertivo nettamente la sensazione del fallimento. Lavori frammentari, mal pagati, solitudine. Fino a quel giorno ci avevo anche riso sopra, ma adesso mi sembrava che non esistesse piú riscatto. Cosa sarebbe successo se avessi avuto la forza di voltare le spalle al porno? Sarei mai stato fiero della mia vita tanto da mostrare una mia foto a qualche sconosciuto?
Il pensiero tornava sempre meno a Fabiana, la chioma che mi aveva incantato, le pause nel discorrere, le sue piccole nevrosi, le gambe, chissà se si sarebbero abbronzate quell’estate, chissà se la sua sarebbe stata una famiglia normale (e per normale intendevo una convivenza fatta di conflitti, quiete, accontentamenti). Osservavo con insofferenza le coppie che nel parco di Centocelle giocavano coi loro bambini. Padri brizzolati e madri affannate che mi parevano nascondere una bellezza segreta tra le loro prime rughe e le espressioni che facevano quando si rivolgevano ai figli. Avevano la mia età , cercavo di capire il tipo di ménage familiare, se uno dei due metteva le corna all’altro, chi era il sedentario della coppia, se il loro era stato un matrimonio classico con i fiori, il banchetto, le fanfare e l’abito da sposa… già , l’abito da sposa.
Mi fermavo incantato a guardare le immagini dei matrimoni nelle vetrine dei fotografi. Studiavo le scarpe dei maschi e le caviglie delle spose, cercavo una verità che mi veniva nascosta dalle facce buffe, il trucco sul viso, le espressioni in posa: le caviglie non mentivano, era là la felicità .
Nei giorni a ridosso delle nozze fabianesche avevo cercato di estorcere ai pochi amici comuni qualche informazione utile, avrei fatto irruzione nella chiesa seicentesca dei Castelli e mostrato a Fabiana, in lungo e velo bianco, il significato dell’espressione «scena madre». Purtroppo un gesto simile non era da me, perciò ripiegai su HORNYBRIDE, la comunità dei feticisti delle donne vestite da sposa, un forum dove fanatici di tutto il mondo segnalavano link di filmetti hard con attrici in abito bianco. Ne vidi dozzine di quei film, le attrici erano sempre le stesse (Kelly Trump, Allie Sinn, Tori Black, Miss Piss, Jackie Ashe) e anche le fantasie: dopo le nozze, un marito accondiscendente divideva la prima notte coi testimoni o le damigelle d’onore in orge molto coreografiche. Sentivo l’odore di fiori e tessuti buoni, un sesso pulito che lastricava le strade per il paradiso. C’era una ricca sezione di annunci per i fan del genere. In una cascina nel Chianti si teneva un raduno di uomini vestiti da sposa (coi veli e lo strascico), mentre in un locale dalle parti di Tivoli c’era uno speed date in abito da nozze: uomini in farfallino e ragazze in lungo.
Provai persino a farmi assumere in un negozio di vestiti da sposa che cercava apprendisti con esperienza. Mi presentai nel grande atelier del quartiere Nomentano con addosso le cose piú eleganti che avevo: giacca di due misure in piú e pantaloni che non si chiudevano, sembravo pronto per un funerale piuttosto che per un colloquio di lavoro. Un uomo con occhiali dorati, sorpreso dalla mia richiesta di prova, mi stoppò.
– Lei è un uomo, non può lavorare qui. Cerchiamo ragazze.
– Anch’io cerco una ragazza.
– Se non le dispiace, le auguro buona giornata.
– Posso rimanere qui e vedere le ragazze che provano gli abiti da sposa?
– No, gli uomini non possono restare.
– Ma se mi volessi sposare?
– Le posso consigliare un buon sarto, vedo che ne ha bisogno. In questo posto l’abito fa sempre il monaco.
Mi guardavo raramente allo specchio dopo che avevo notato alla sommità del cranio una peluria castana simile a quella dei neonati. In una recente foto su Facebook postata da qualche personaggio dell’Animal apparivo stanco, due rughe profonde squarciavano il viso dalle tempie al mento, come se qualcuno avesse disegnato una riga e il tempo si fosse preso la briga di accentuarne il solco. L’attaccatura dei capelli era piú alta, la bocca sembrava una ferita che riproduceva quello che voleva essere un sorriso e invece era solo una smorfia con dentro stanchezza, un po’ d’incoscienza e paura.
Lasciai l’Animal e divenni fattorino dell’Editoriale Trabacci. Il capo del personale era un tipo che aveva bazzicato il Bluebelle in condizioni di esaltazione totale. Sembrava uno di quei bambini chiusi in casa e poi liberati in campagna che diventano pazzi. Entrava in punta di piedi, pagava, poi, una volta raggiunti i divanetti, fischiava, applaudiva, gridava, palpava, inneggiava, aizzava. Un giorno una lapper lo aveva preso per una manica, lo aveva portato sul palcoscenico, gli aveva abbassato i calzoni ed erano spuntati dei mutandoni bianchi che avevano scatenato le risate del pubblico. Mimmo era rimasto di stucco. Era uscito dal bancone del bar con il volto implorante; se la lapper avesse fatto quello che sembrava, ossia un pompino in pubblico, avrebbero chiuso per sempre il Bluebelle. Ma la lapper, una volpe della scena romana di origini lettoni, a voce alta aveva comunicato alla platea in fervida attesa: – Niente massaggino, ce l’ha moscino.
Da allora il tale era stato per tutti Moscino e non era venuto piú, ma era rimasto in contatto col sottoscritto. Mi salutava sempre con l’imbarazzo di chi è stato pizzicato a commettere un reato.
Lo incontravo spesso all’Esquilino e un giorno, mentre prendevamo un caffè corretto, gettai la maschera. Sapevo che lavorava in una casa editrice che stampava una storica rivista di annunci chiamata con originalità «Luce Rossa» e un giornale di cronaca nera con una linea editoriale lievemente sensazionalista: «Corriere Nero». Moscino ci teneva a distinguere le cose. – Qui non si fa politica, facciamo la rossa e la nera, hai la patente?
– No, ma so guidare.
– Parli inglese?
– No, ma nei ristoranti dove lavoravo mi facevo capire.
– Sei laureato?
– Mi mancava poco.
Non avevo nessuna competenza, poco qualificato: perfetto da prendere senza ferie, malattie e garanzie.
Presto diventai tuttofare dell’Editoriale Trabacci: smistavo i colli, la posta, facevo su e giú per una palazzina di cemento armato costruita dopo Villa Bonelli nel niente; per arrivarci impiegavo un’ora di trenino, poi c’era da camminare tra i cantieri abbandonati di una Roma assolata, deserta, disseminata di rom. La strada senza asfalto era percorsa da furgoni bianchi che alzavano polveroni rossi, le poche case abitate erano occupate oppure affittate a disgraziate che facevano la vita. Molte di loro erano le stesse che fino a qualche anno prima avevano battuto sulla Salaria e la Colombo; ora i papponi avevano occupato questo pezzo di Roma che non sarebbe mai stato terminato. Era l’humus perfetto per l’Editoriale Trabacci e il suo «Corriere Nero».
La mia vita professionale ebbe una svolta quando un giorno Moscino mi affidò una ricerca iconografica per un articolo che aveva un titolo raccapricciante: PADRE FA A PEZZI FIGLIO E GETTA I RESTI NEL SACCO DELLA SPAZZATURA COME SE FOSSE IMMONDIZIA. Non sapevo nemmeno cos’era una ricerca iconografica, ma presto imparai: trovare foto libere dai diritti per corredare i pezzi.
– Scusi, ma non basta scrivere «padre fa a pezzi figlio e lo getta in un sacco»? Che bisogno c’è di aggiungere la storia dell’immondizia?
– È la nostra linea editoriale, – rispose laconicamente chi doveva insegnarmi il mestiere, un uomo sui sessant’anni con la barba grigia. Sarebbe andato in pensione presto. Ero tornato dietro una scrivania, anche se per poche ore al giorno.
I pezzi che mi commissionavano avevano titoli deliranti: GIOVANI SI APPARTANO NELLE FRATTE E VENGONO SCANNATI COME BESTIE AL MACELLO DA UN ORCO.
Dalla banca dati tirai fuori la foto di una coppia qualunque, coprii gli occhi e poi cercai «orco»; scoprii che «orco» era una parola molto cara al titolista del «Corriere Nero»: era stata ricercata ben novecento volte.
Gli unici miei contatti col mondo erano al 609. Spesso ci entravo con un’ansia che mi faceva tremare, restavo seduto per ore su uno dei divanetti vedendomi scorrere addosso tutto. Cinzia si preoccupava di me come un’affettuosa zia piuttosto che come la mature dei miei sogni erotici.
Con uno spritz Campari e dei guanti di pizzo che le guardavo con desiderio, una sera raccontò del suo cruccio: – Non ci sono piú gli uomini di una volta, oggi questi dicono «timbrare», ti rendi conto, dicono timbrare invece di scopare –. La vidimazione invece del godimento, in un formale atto burocratico che mette al centro la tabellina personale, la mandava in bestia. E rivolgendosi a me con un tono che esigeva conferma concludeva: – Mica sono maschi questi, Martino, dimmelo tu, tu che sei uno di loro, ti prego, dimmi che non hai mai usato quell’orribile parola –. Mi limitai a scuotere le spalle, e certo la gente che girava nel 609 spesso non era questa incarnazione di libertà e coscienza, molti erano grandi puttanieri, lupi mannari, uomini che avevano noleggiato una escort per «timbrare» quante piú donne possibili in un’unica sera, spesso altre escort noleggiate da altri uomini, illudendosi che fossero le mogli. Il 609 stava diventando questo, ma avevo paura a dirlo perché Cinzia mi voleva bene, mi guardava con la stessa espressione con cui guardava un pappagallino verde dentro una gabbietta all’ingresso del locale. Premura e rassegnazione.
Smisi di affittare la stanza. Era entrata troppa gente con un pessimo karma, personaggi sempre piú conniventi con il malaffare, tipo Fernando, il pluricondannato e mio affezionato cliente, con il quale ruppi ogni rapporto a causa di una sua battuta su Obama, da poco rieletto presidente degli Stati Uniti.
– A capo del mondo hanno messo un negro, dove finiremo di questo passo.
Fernando non poteva sapere che nel letto sul quale aveva appena finito di amarsi con la giovane ecuadoriana Marita si erano uniti una signora italiana e il suo amante senegalese, e non gli avevo cambiato le lenzuola per dispetto.
– Non ti piace l’interracial? – domandai provocatorio.
Smisi di dargli la stanza dopo quel pomeriggio. Amavo guardare la serie Blacks on Blondes, e non amavo essere contraddetto su questioni cosà decisive.
Col tempo la mia attitudine solitaria diventò stagnante, non c’era essere vivente che incontrassi, uomo, donna, animale, che non facesse parte dei miei film mentali, sempre pornografici, sempre sul crinale della passione che avevo in quel momento. Eppure mi bastava una scheggia di luna tra le antenne dei tetti, la guardavo nel silenzio della città mentre camminavo con il cinema nella testa: Luisa Montieri mi senti? Sto fantasticando su di te.
C’erano giorni che non parlavo con nessuno, e salivano i languori, saliva sempre piú Luisa, spesso mi ritrovavo a parlarle da solo. In fondo c’eravamo frequentati senza mai essere arrivati al nocciolo delle nostre malinconie. Luisa mi era sconosciuta, e come certi sconosciuti, la persona ideale a cui poter raccontare un segreto.
Fu allora che un evento aggravò la mia solitudine. La neve aveva sepolto Roma, per le strade si muovevano figurette colorate che restavano pochi istanti in piedi per poi sparire inghiottite dal ghiaccio, rare auto senza catene e ricoperte da una coltre bianca sul tettuccio, di traverso sui binari del tram, bloccavano l’intero quartier...