È nota la celebre lettera che, dopo la morte della propria moglie, Lessing scrisse a Eschenburg: «Mia moglie è morta: e ora ho fatto anche questa esperienza. Mi rallegra sapere che le occasioni per vivere esperienze consimili ormai non saranno piú molte; ne sono sollevato. – Mi conforta inoltre avere avuto conferma che posso contare sul cordoglio Vostro e dei nostri altri amici di Brunswick»7. – Tutto qui. Questa grandiosa laconicità caratterizza anche la lettera, ben piú lunga, che, non molto tempo dopo e per un’occasione analoga, Lichtenberg scrisse a un amico di gioventú. Perché tanto egli è particolareggiato nel descrivere la vita della giovane ragazza che aveva preso con sé in casa, tanto risale indietro alla sua infanzia, tanto repentino e sconvolgente è come – senza nemmeno accennare alla malattia e alla degenza – nel bel mezzo del racconto si interrompe, quasi che la morte avesse ghermito non solo l’amata, ma anche la penna che ne fissava il ricordo. In un’epoca le cui mode quotidiane erano pervase dalla Cultura del sentimento8 e la letteratura dalle nature geniali, prosatori irriducibili, primi fra tutti Lessing e Lichtenberg, plasmano lo spirito prussiano in forma piú pura e piú umana di quanto non facesse l’esercito fridericiano. È lo spirito che in Lessing si esprime nella frase: «Anch’io una volta ho provato a passarmela come tutti gli altri. Mal me ne incolse», e che a Lichtenberg suggerisce la seguente amara riflessione: «I medici sono tornati a sperare. A me invece pare che sia tutto finito, perché la speranza non mi frutta un soldo»9. I tratti macerati dalle lacrime, avvizziti dalla rinuncia che ci scrutano da queste lettere testimoniano di un’oggettività che non teme di confrontarsi con quella Nuova10. Al contrario: il contegno di questi borghesi è fra i pochi a essere rimasto integro e non sfiorato da quel saccheggio dei «classici» che il diciannovesimo secolo ha perpetrato con le citazioni e nei teatri di corte.
Gottinga, inizio 1783
Carissimo amico mio,
questa sí che è autentica amicizia tedesca, carissimo. Mille volte Vi ringrazio per la memoria che serbate di me. Non Vi ho risposto subito, solo il cielo sa ciò che ho passato! Siete il primo, e non potete non esserlo, a cui lo confesso. L’estate scorsa, poco dopo la vostra ultima lettera, ho subito la peggiore perdita della mia vita. Nessuno deve venire a sapere quanto sto per dirVi. Nel 1777 (i sette non servono proprio a niente) ho conosciuto una fanciulla, figlia di una famiglia borghese della nostra città, che all’epoca aveva poco piú di tredici anni; nonostante la mia esperienza, mai in precedenza avevo visto un tale modello di bellezza e dolcezza. Quando la vidi per la prima volta si trovava in compagnia di cinque o sei altri bambini, che come sono soliti fare qui, sulle mura della città vendevano fiori ai passanti. Mi offrí un mazzo, e io lo comprai. Erano con me tre inglesi, che desinavano e vivevano a casa mia11. God almighty, – disse uno di loro, – what a handsome girl this is. Avendolo notato anch’io e sapendo che razza di Sodoma è questo buco12, pensai seriamente di sottrarre a simili traffici quell’eccellente creatura. Riuscii finalmente a parlarle a quattr’occhi e la pregai di farmi visita a casa; non andava nella stanza di un giovanotto, rispose. Ma quando apprese che ero professore, un pomeriggio venne a trovarmi con la madre. In breve, smise di vendere fiori, e iniziò a stare tutto il giorno da me. Scoprii cosí che quel corpo eccellente ospitava un’anima quale avevo da tempo cercato, senza tuttavia mai trovarla. Le insegnai a scrivere e a fare di conto, le trasmisi altre nozioni che, senza trasformarla in una stupidina affettata, svilupparono però vieppiú la sua intelligenza. Del mio apparecchio di fisica, che mi è costato piú di 1500 talleri, inizialmente la attirava la lucentezza, ma in seguito usarlo divenne la sua unica forma di intrattenimento. La nostra conoscenza aveva ora raggiunto la massima intensità. Andava via tardi e tornava di primo mattino, e per tutta la giornata era sua premura tenere in ordine le mie cose, dalla cravatta alla pompa pneumatica, e tutto con una dolcezza cosí celestiale che in passato non avrei mai potuto immaginare. La conseguenza, lo avrete già intuito, fu che a partire dalla Pasqua del 1780 restò sempre con me. Apprezzava a tal punto questo stile di vita che non scendeva la scale se non per andare a messa o a fare la comunione. Non c’era verso di farla uscire. Eravamo costantemente insieme. Quando era in chiesa, mi pareva di essere stato privato degli occhi e di tutti i miei sensi. – In breve: era, senza benedizione sacerdotale (vorrete scusare, carissimo amico, l’espressione), mia moglie. Da parte mia, non potevo guardare senza la piú profonda commozione l’angelo che aveva accettato un simile vincolo. Mi era insopportabile pensare che mi avesse sacrificato ogni cosa senza forse avvertire la rilevanza di quanto aveva fatto. La facevo quindi accomodare al nostro tavolo, quando pranzavano da me degli amici, e le procuravo i vestiti che la sua posizione richiedeva, e l’amavo di piú ogni giorno che passava. Era mia ferma intenzione unirmi a lei anche agli occhi del mondo, come lei del resto un po’ alla volta aveva iniziato a chiedermi. Oh Dio del Cielo! e questa celestiale ragazza mi è morta la sera del 4 agosto 1782, al calare del sole. Avevo i migliori medici, è stato fatto tutto, tutto il possibile. Ci pensi, carissimo amico, e mi consenta di chiudere a questo punto. Mi è impossibile proseguire.
G. C. Lichtenberg
Per potersi adeguatamente immedesimare nello spirito della seguente lettera è necessario avere presente non solo tutta la miseria del ménage familiare di un pastore nella zona del Baltico, fornito piú che altro di debiti e di quattro bambini, ma anche la casa cui è indirizzata: quella di Immanuel Kant sullo Schlossgraben. Dove nessuno trovava «stanze tappezzate o meravigliosamente decorate, collezioni di quadri, incisioni su rame, abbondanti suppellettili di casa, mobili splendidi o quanto meno di un certo valore – nemmeno una biblioteca che pure per molti in fondo non è che una forma di arredo; e non c’è nessuno che pensi a dispendiosi viaggi di piacere, a passeggiate in carrozza, e neppure, negli anni successivi, ad alcun tipo di gioco ecc.»13. Entrando vi «regnava una pacifica quiete […] Se si salivano le scale […] percorrendo a sinistra l’anticamera semplicissima, priva di decorazioni e in parte fumosa, si raggiungeva una stanza piú grande, che pur essendo il salotto era tutt’altro che suntuosa. Un canapè, alcune sedie rivestite di tessuto, una vetrinetta con qualche porcellana, un secrétaire che conteneva l’argento e l’oro disponibili14, oltre a un termometro e a una console […] erano gli unici arredi che coprivano parte delle bianche pareti. Da lí una porta spoglia conduceva nell’altrettanto spoglio Sans-Souci15, nel quale, dopo avere bussato, si era invitati a entrare da un allegro “Avanti!”»16. Cosí fu forse anche per il giovane studente che portò questa lettera a Königsberg. Non vi è dubbio che in essa spiri autentica umanità. Come tutto ciò che è pienamente compiuto svela però anche qualcosa sulle condizioni e i limiti di ciò che esprime con tanta compiutezza. Condizioni e limiti dell’umanità? Indubbiamente, e ci sembra che dal nostro punto di osservazione possano essere individuati con la medesima chiarezza con cui, dall’altro punto di vista, essi si distinguono dal modo di vivere medievale. Se il medioevo collocava l’uomo al centro del cosmo, a noi oggi appaiono invece problematiche tanto la sua collocazione quanto la sua consistenza, nuovi strumenti di ricerca e nuove conoscenze lo hanno fatto deflagrare dall’interno, è vincolato alla natura, di cui abbiamo un’immagine che a sua volta sta subendo una trasformazione radicale, da mille elementi, migliaia di leggi. E ora volgiamo lo sguardo indietro verso l’Illuminismo, per il quale le leggi della natura non erano mai in contraddizione con l’ordine intelligibile della Natura stessa, che interpretava questo ordine alla stregua di un regolamento e schierava i sudditi in cassoni, le scienze in cassetti, le carabattole in cassettine, inserendo l’homo sapiens fra le creature, dalle quali si distingueva solo grazie al dono della ragione. Tale era l’ottusità con la quale l’umanità dispiegava la propria sublime funzione e senza la quale era destinata ad atrofizzarsi. Se tale interdipendenza di arida vita limitata e autentica umanità è in Kant (che segna l’esatta metà fra il pedante e il tribuno della plebe) a emergere nella maniera piú evidente, questa lettera del fratello dimostra quanto profondamente fosse radicata nel popolo la mentalità che il filosofo portava a consapevolezza nei suoi scritti. In breve, allorquando si parla di umanità, non si dovrebbe dimenticare l’angustia del salotto borghese nel quale l’Illuminismo gettava la sua luce. Al contempo la lettera evidenzia i condizionamenti sociali piú profondi che erano alla base del rapporto di Kant con i fratelli e le sorelle: delle premure che riservò loro e soprattutto della straordinaria franchezza con cui si espresse in merito tanto ai suoi progetti di testamento, quanto alle altre forme di sostegno di cui beneficiarono quando egli era ancora in vita, facendo sí che né loro né «i loro numerosi figli, una parte dei quali ha a sua volta dei figli, hanno mai dovuto patire disagi»17. E cosí, aggiunge, si comporterà anche in futuro, sino a quando non sarà vacante anche il suo posto nel mondo, poiché spera che a quel punto rimarrà qualcosa, e non di poco conto, anche per i suoi congiunti e fratelli. Comprensibile quindi che i nipoti e le nipoti, come già in questa lettera, anche in seguito «per iscritto si stringano» intorno all’adorato zio. Il padre morí già nel 1800, prima del filosofo, ma Kant lasciò loro quanto aveva previsto per il fratello.
Altrahden, 21 ag. 1789
Fratello mio caro!
Non penso sia un male se dopo una serie di anni vissuti senza che ci scambiassimo nemmeno una lettera, torniamo ad avvicinarci. Siamo vecchi entrambi, presto uno di noi si accosterà all’eternità; giusto quindi ravvivare il ricordo degli anni trascorsi; con la riserva che in avvenire di tanto in tanto (fosse anche raramente, purché non passino anni o addirittura diversi lustra) ci raccontiamo come viviamo, quomodo valemus.
Da otto anni, da quando mi sono liberato del giogo della scuola, continuo a vivere facendo il maestro di una comunità rurale nel mio pastorato di Altrahden, sostenendo me e la mia onorata famiglia frugalment e parcamente con i frutti della mia terra:
Rusticus abnormis sapiens crassaque Minerva18.
Con la mia buona e onorabile moglie conduco un matrimonio felice e ricco di amore, e mi rallegra che i miei quattro figli, ben istruiti, bennati e docili come sono, mi permettano di coltivare la speranza, di cui non posso dubitare, che un giorno saranno persone oneste e di buon cuore. Nonostante la gravità delle mie mansioni, non mi stanco mai di essere il loro unico maestro, e questo ruolo formativo nei confronti dei nostri cari figliuoli, qui nella solitudine risarcisce me e mia moglie della mancanza di contatti sociali. Ho cosí tratteggiato la mia vita sempre uniforme.
Orbene, carissimo fratello! Laconicamente, se credi (ne in publica Commoda pecces, da studioso e scrittore), ma ti prego di farmi comunque sapere come è stato sin qui il tuo stato di salute, come stai attualmente, cosa hai ancora in petto, nella tua qualità di studioso, per rischiarare i contemporanei e i posteri. E inoltre come stanno le mie sorelle ancora in vita e le loro famiglie, e l’unico figlio del mio defunto venerabile paterno zio Richter. Pagherò volentieri le spese postali per la tua lettera, anche se dovesse occupare una sola pagina in ottavo. A Königsberg pero c’è Watson, che certamente sarà venuto a farti visita. Tornerà senza fallo presto in Curlandia. Lui potrebbe portarmi una tua lettera che tanto ardentemente desidero.
Il giovane che ti consegna questa mia, di nome Labowsky, è figlio di un meritevole e onesto pastore riformato polacco della cittadina di Birsen19, nei territori dei Radziwiłł20; è diretto a Francoforte sull’Oder, dove studierà gratuitamente all’università. Ohe! jam satis est! Dio ti conservi ancora a lungo e mi conceda di ricevere presto di tua mano la lieta notizia che sei sano e felice. Con cuore probo e non perfunctorie mi firmo il tuo affezionatissimo fratello
Johann Heinrich Kant
Un soror...