Nei mari estremi
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Nei mari estremi

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nei mari estremi

Informazioni su questo libro

All'apice della sua arte narrativa, Lalla Romano si confronta in questo romanzo con le cose ultime della vita, le piú alte e insieme piú quotidiane. Nei mari estremi racconta i «quattro anni» dell'incontro e dell'innamoramento - fino al matrimonio - con Innocenzo, che sarebbe stato il compagno di tutta un'esistenza. E poi racconta la sua morte, preceduta dai «quattro mesi» intensi della malattia. Un memoir costruito come un susseguirsi di variazioni musicali, che descrivono l'amore e la morte nei loro aspetti piú segreti, materiali, fisici. Una sinfonia intima composta da quei momenti in cui si gioca il rischio supremo, che sono - scrive Lalla Romano - «quasi sottratti al tempo, in quanto appartengono al suo margine, alla sua fine, o soltanto vi alludono».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806227449
eBook ISBN
9788858423752
Parte seconda

Quattro mesi

1.

Da una ruvida mano siamo spinti
riluttanti animali
scacciati dal calore di una tana
sulle strade ventose
(...)

2.

Non posso ricevere le sue immagini di bellezza, della nostra vita felice: devo attraversare quelle della malattia e della morte. Devo cominciare da tutte le volte che ho pensato che poteva morire.
La prima volta – a Venezia no, mi era parso un disturbo come si ha da bambini, che non significa nulla, infatti avevo proposto il brodo (come rimedio) in quell’albergo-incubo sul canale – la prima volta fu nella nostra casa sul viale, quando entrò pallido, fuori orario (forse lo accompagnarono). Ecco: pallido.
Venne zio Dottore, che era piccolo di statura e seccato di esserlo: disse che il cuore si era affaticato perché nelle persone troppo alte deve pompare di piú. (Zio Dottore si riabilitò poi la prima notte del bambino, che ero disperata perché non sapevo cosa dargli, e lui suggerí di intingere un pezzetto di garza nell’acqua zuccherata e farlo succhiare cosí).
In quanto al cuore di Innocenzo, era cosí forte che nell’agonia non poteva cessare di battere. L’agonia. Anche l’ultimo, il supremo male (mortale) si manifestò col pallore.

3.

In una di quelle lunghe silenziose notti della casa sul viale sono svegliata da grida: – I ladri! – Svegliati! – lo scuoto, – ci sono i ladri! – Dove? – Sotto, dalle sarte –. (C’erano anche lí delle sarte, come in via Barbaroux e nella casa del canonico; dietro, in una piccola casa bassa). Lui si alza, va alla finestra, si sporge; le grida diradano, si spengono; aspetta un poco, e si riaddormenta, appoggiato al davanzale.
E la notte del parto lo stesso: non si svegliava. Lo chiamavo, lo toccavo, avevo quasi paura (per me). Quando capí, corse – no, non correva – a chiamare mia madre fino in via Barbaroux e la levatrice, penso (che mi faceva paura).
Era cosí giovane! Quando andò al Comune a denunciare la nascita del bambino, l’impiegato lo squadrò, disse: – Mi mandi il padre –. Gioventú non è sempre bellezza; ma lui era cosí: e pareva immune.
Proprio in quella grande, luminosa quieta camera, io ebbi una premonizione. Di notte, naturalmente. E sarà stato un sogno. Vidi la Morte ai piedi del letto, dalla mia parte: una monaca. Era Mère Consolata, sorridente. A Torino, alle Fedeli Compagne, noi ragazze la giudicavamo ipocrita; il suo perenne sorriso, spiegato, fisso, ci pareva falso.
Non mi ricordai, allora, del sogno di Casetta; mi viene in mente adesso. Casetta era ironica, intelligentissima. Era una mia devota. Fummo compagne al ginnasio, poi all’università. Dopo è sparita, non so come né dove. Lei mi aveva raccontato in una lunga lettera che aveva sognato le mie nozze. Lo sposo era bruno, e io ero felice. Ma la carrozza era da lutto e i cavalli avevano gualdrappe nere.

4.

Quando eravamo appena sposati, tradusse per me I morti di Joyce. Cade la neve, in quella novella? (O forse la leggevamo mentre nevicava). Ho sempre collegato le due cose.
E anche un tempo della Hammerklavier; dissi al mio grande amico Turin che stava morendo, come fosse bello ascoltare quella sonata mentre fuori nevica, e pensavo: mentre uno sta morendo. C’è anche in Tetto Murato la neve come morte, e la morte come pace.

5.

Non è nelle malattie che temevo di perderlo; ma nelle assenze, nella lontananza. Morire è allontanarsi: l’ho saputo poi.
Avevo temuto di perdere Giovanni – e l’avevo perduto – quella volta che lo guardavo allontanarsi in montagna, e avevo pensato che era per sempre. Non amavo Giovanni nel senso del desiderio, ma avevo bisogno di lui. Era anche amore.
Nella nostra prima separazione dopo le nozze quando partiva per Torino e sarebbe ritornato l’indomani o dopo pochi giorni, io sprofondavo in una specie di disperazione, annaspavo come stessi per affogare. Come se – senza di lui – mi mancasse il respiro.
Tra gli alberi
tu ti allontani.
(...)
A Torino lui abitava in una pensione familiare molto sgradevole; dormiva vicino a una cucina da dove gli arrivava odore di aglio che lui aborriva. Ma io mi ribellavo piú alla sua lontananza che ai suoi disagi, sui quali lui sorvolava. Eppure conoscevo la sua estrema sensibilità, quanto lo facesse soffrire anche solo il sospetto del poco pulito. Mi raccontava invece piccole storie delle padrone di casa, due amiche dal passato magari avventuroso, generose, allegre, assolutamente non pratiche; di una piccola graziosa cameriera un po’ scema, dei pensionanti tutti strani. Una donna, giovane, probabilmente pazza, stava sempre chiusa nella sua camera, solo usciva ogni tanto sulle scale a gridare: chiamava per nome il marito – che era al lavoro in qualche ufficio – poi tornava a rinchiudersi. Mi pareva un insieme alla Dostoevskij.

6.

Avevo accostato io per prima il medico vecchio per un esame ginecologico, che si rivelò una «delicata» aggressione galante. Piú che altro imbarazzata, non avevo protestato, ma mi ero rivestita in silenzio, cosa che parve indignarlo: avrei dovuto essere grata. Non raccontai l’avventura a Innocenzo; il vecchio restò il nostro medico, tanto piú che noi stavamo sempre bene. Seppi da mia madre che era stato un amico di zio Dottore, che aveva fama di libertino e piaceva molto alle signore. Visitò Innocenzo per certi dolori alla schiena e diagnosticò appendicite; consigliò suo figlio come chirurgo.
L’intervento fu lungo e difficoltoso; seguí il supplizio della sete, cosí usava allora. Innocenzo dovette lasciarsi crescere la barba e io lo trovai bellissimo. Feci molti disegni del suo profilo diventato ascetico e sentimentale.
Ero cosí allegra che civettavo (ahimè) non solo con Innocenzo, ma anche col chirurgo: che non era galante, ma attraente. Arrivai a infilarmi sopra l’orecchio un fiore di oleandro. Innocenzo osservò col suo sorriso ironico-indulgente: – Il dottore si è commosso! – Infatti mi invitò persino ad assistere a un intervento, per cui mi avrebbe procurato il permesso.

7.

La banca, questa madre, non l’ho mai amata, prima; nemmeno odiata: era il lavoro, e basta. Mi piaceva ripetere la battuta «Cosa c’è di peggio che svaligiare una banca?», eccetera; ma lui, che amava Brecht, di questa frase non rise mai. È anche vero che io non sono mai riuscita ad afferrare il concetto (di banca). Soltanto quando ho visto a Singapore il fantastico edificio della banca di Mao, mi sono arresa: all’universale, dunque alla necessità.
Devo annoverare la banca tra le sue malattie: soltanto, ovviamente, come causale, molto probabile data la concomitanza, anche da lui forzatamente, silenziosamente ammessa. Non accusava mai le sue sofferenze; insorgendo nel suo corpo asciutto e sano, esse avevano qualcosa di irreale. Gli ho sentito dire, negli anni, che guardando le enormi ruote degli autocarri, avrebbe voluto metterci sotto la testa. Lo vedevo, di notte, aggirarsi per la casa ciecamente, la testa tra le mani. Provavo orrore per quel supplizio, e avrei voluto condividere; invece non riuscivo a resistere a lungo, ripiombavo nel sonno. Mi ricordavo di Eugenia che dormiva durante le crisi d’asma di Adolfo a Tetto Murato: mi aiutava ad assolvermi. Dietro le sofferenze di lui intravedo lo spettro della mia disattenzione, forse la fuga dal dolore.
Nel tempo ho finito col raccogliere anche un ritmo, in quella persecuzione, dei numeri. Il numero ha a che fare con la magia piú che con le scienze esatte. Con la magia che è nella natura. Le crisi erano stagionali: quattro nell’anno, ma duravano anche un mese o piú. Non interrompevano la sua vita attiva. Era mostruoso; ma era anche fatale?

8.

Un male che poteva essere mortale lo colpí mentre era lontano, in un suo favoloso soggiorno di parecchi mesi in Perú. Perché favoloso? Intanto il Perú lo è, lo è ancora; e favolose erano le sue emozioni: intense, passionali. Del suo male non volle che avessi notizia, ne seppi soltanto al suo ritorno; ma delle sue esperienze mi scriveva. La pietà per gli indios, incompresi e quasi subumani; e una straordinaria visione: i cormorani che andavano a morire sulla spiaggia.
Quelli che si dispongono a morire sembrano, tra gli esseri viventi, dotati di una disposizione alla sapienza: non a tutti è dato, né richiesto. È da collegare non solo a una particolare natura, ma anche a certe tradizioni. L’amico Palma, a Singapore, ci portò a vedere una strada che stava per scomparire: Sago Line. Alcune tradizioni non sono piú capite, e vengono cancellate dai poteri perché disdicevoli. A Sago Line si trasferivano i vecchi che stavano per morire. Era una strada breve, di case alte fatiscenti. Vidi qualche spettro cinese alla finestra, in piedi, immobile; forse appunto in attesa.

9.

Ci sono persone che sembrano avere la «vocazione della morte», come altri dell’arte o della religione o della politica. Lui no (e nemmeno io). Aveva invece una grande pietà per chi doveva morire.
Di Silvia si sapeva – certo lo sapeva anche lei – che non c’era speranza. Innocenzo le mandò – per l’anniversario del loro matrimonio – un enorme eppure leggero, slanciato verso l’alto, trionfo di fiori: turchini e rosa pallido, come a lei piacevano. Io non avrei osato. Lui scrisse anche parole di fiducia, attesa: con naturalezza. Io non avevo capito. Lei ne fu felice e sembrò che avesse ricevuto davvero fiducia; eppure non era né ignorante né ingenua.
Da Londra poi (le vacanze di Innocenzo) le telefonavo tutte le mattine per generosità di lui. Al nostro ritorno, era quasi la fine. A lei avevano detto che era bronchite, ma il medico giovane disse entrando: – Dov’è questa polmonite? – Cosí seppe. Io non sapevo; ma quando mi diede la mano, piccola e magra – il mignolo un po’ arcuato – con una leggera pressione, mi sembrò di capire. Morí nella notte e seppi cosa aveva voluto dirmi con quella stretta leggera ma ferma.
Anche da lui ho avuto a lungo la leggera stretta di mano, fino alla domenica fatale (dell’agonia).
Innocenzo non si rassegnò mai alla mancanza per noi di Silvia (e poi di Mario). Diceva: – Non riesco –. Nei viaggi, loro ci venivano dietro, e io domandavo ogni tanto a Innocenzo che li vedeva nello specchietto: – Baj sequuntur?
Silvia era felice di scoprire posti insoliti, rare bellezze d’arte e paesaggio; Mario ammirava (come me) la scelta dei buoni ristoranti, e la precisione degli orari. Come erano belli quei viaggi, guidati da Innocenzo. Nell’ultimo, loro ci hanno preceduti.

10.

Lesse Figli e amanti, dopo che era morta la mamma, e mi disse: – Non leggerlo –. Io l’avevo letto tanti anni prima, non capii l’avvertimento. Cosí fu terribile. Anch’io avevo avuto una passione per la mamma che moriva. Lawrence dice qualcosa intorno alla bellezza degli occhi di lei, e che gli pareva che lei morisse per quello; cosí io nell’Ospite dico che lei forse moriva per la delicatezza dei suoi polsi. Innocenzo capiva non solo la solitudine del morente, ma anche quella di chi resta.
Quando lesse il manoscritto della Penombra, vedevo che era molto triste, e che quando terminò la lettura, era tentato dal pianto. Piangeva però non la loro morte, ma la fine del racconto. Disse: – Si amano due persone straordinarie, e si perdono con la fine del libro. Si sente che non li vedremo piú –. (Lui li rivide in sogno).
Quando morí papà, fui sopraffatta dal ricordo della sua dolcezza, della sua bontà incredibile; ma la sua malinconica, silenziosa vecchiaia mi aveva già staccata da lui. Passionalmente ero lontana. E chi lui fosse davvero l’ho capito adesso, attraverso le ritrovate fotografie di Demonte. Come ho capito veramente cosa fosse stata sua moglie – mia madre – per lui.
Quando morí, era molto vecchio e stanco. Guardò lei a lungo, intensamente, poi chiuse gli occhi. Quello sguardo era rimpianto, gratitudine, e ancora amore.

11.

Innocenzo capiva il mio attaccamento ai miei amori passati. Quando Giovanni subí un intervento per una malattia che poteva essere fatale, mi mandò a visitarlo a San Remo. Cosí mi fece accompagnare a Torino per salutare Anthony morente.
La mia storia con Anthony è tutta nella poesia «Noi andavamo leggeri» e in alcune altre simili, che dicono l’impossibilità di quell’amore.
Nell’ospedale, io ai piedi del letto, la Renata accanto alla testata. Lei: – Viene sovente a Torino? – Di rado, ma mi piace sempre. – Che cosa le piace? – I viali...
Allora lui, il lenzuolo tirato fino al mento, estrae la mano e mi fa «quel» saluto. La mano di allora, irreale e lontana come la luna; la mano di adesso, appesantita, come già della terra, di terra. Però vera.

12.

Luciana mi ha rammentato una visita al cimitero del Villar. Ho rivisto quella mattina luminosa, la grande tomba di famiglia di Maria: sempre in quelle visite penso alle loro case cosí povere, le tele tenute insieme dai rammendi, una sola mucca nella stalla, e quella tomba ricca. C’era in un medaglione la faccia di lei, con gli occhiali, di vecchina sapiente (persino comica). Innocenzo leggeva le lapidi; la cognata Laide era morta pochi giorni – forse un giorno – dopo il marito. Commentò: – Come sono stati fortunati! – Disse questo con gravità, anzi con nostalgia.
Io chissà quante volte avevo detto questa sciocchezza: – Per fortuna sono piú vecchia (di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Livelli di vita di Paolo Di Paolo
  4. Premessa 2000
  5. Presentazione 1996
  6. Nei mari estremi
  7. Parte prima. Quattro anni
  8. Parte seconda. Quattro mesi
  9. Appendice
  10. Postfazione di Sergio Givone
  11. Appendice biobibliografica a cura di Antonio Ria
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright