Patrick Modiano
Incidente notturno
Traduzione di Emanuelle Caillat
A tarda notte, nell’epoca lontana in cui stavo per diventare maggiorenne, attraversavo place des Pyramides verso la Concorde quando dall’ombra è sbucata fuori un’automobile. In un primo momento ho pensato che mi avesse appena sfiorato, poi ho avvertito un dolore acuto dalla caviglia fino al ginocchio. Ero caduto sul marciapiede. Ma sono riuscito ad alzarmi. L’auto aveva sbandato ed era finita contro un’arcata della piazza in un frastuono di vetri rotti. La portiera si è aperta e una donna è scesa barcollando. Qualcuno che si trovava sotto i portici davanti all’entrata dell’hotel ci ha accompagnati nella hall. Mentre telefonava dal banco della reception, io e la donna abbiamo aspettato su un divano di pelle rossa. Era ferita all’incavo della guancia, allo zigomo e alla fronte, e sanguinava. Un uomo bruno, robusto, con i capelli cortissimi, è entrato nella hall e si è diretto verso di noi.
Fuori, l’automobile con le portiere aperte era circondata da alcune persone e una di loro prendeva appunti come per redigere un verbale. Mentre salivamo sul furgone del pronto intervento, mi sono reso conto di non avere piú la scarpa sinistra. Io e la donna eravamo seduti fianco a fianco sulla panca di legno. Il bruno robusto stava sull’altra, di fronte a noi. Fumava, e a tratti ci lanciava uno sguardo freddo. Dalla grata del finestrino ho visto che percorrevamo quai des Tuileries. Non mi avevano lasciato il tempo di recuperare la scarpa e ho pensato che sarebbe rimasta lí tutta la notte, in mezzo al marciapiede. Non sapevo piú se ciò che avevo appena abbandonato fosse una scarpa o un animale, quel cane della mia infanzia che un’auto aveva investito quando abitavo nei dintorni di Parigi, in una certa rue du Docteur-Kurzenne. Avevo la mente confusa. Forse cadendo avevo battuto la testa. Mi sono voltato verso la donna. Ero stupito che indossasse una pelliccia.
Mi sono ricordato che era inverno. Del resto, anche l’uomo di fronte a noi portava un cappotto e io uno di quei vecchi giacconi imbottiti che potevi trovare al mercato delle pulci. La pelliccia, di certo lei non l’aveva comprata al mercato delle pulci. Visone? Zibellino? Il suo aspetto era molto curato, e questo contrastava con le ferite al viso. Sul mio giaccone, appena sopra le tasche, ho notato qualche macchia di sangue. Avevo un lungo graffio sul palmo della mano sinistra, e le macchie di sangue sulla stoffa dovevano provenire da lí. Lei stava dritta ma con la testa china, come se fissasse qualcosa per terra. Forse il mio piede senza scarpa. Portava i capelli alle spalle e nella luce della hall mi era sembrata bionda.
Il furgone della polizia si era fermato al semaforo, sul lungosenna, all’altezza di Saint-Germain-l’Auxerrois. L’uomo continuava a osservarci, prima uno e poi l’altra, in silenzio, con quel suo sguardo freddo. Finivo per sentirmi colpevole di qualcosa.
Il verde non arrivava mai. All’angolo tra il lungosenna e place Saint-Germain-l’Auxerrois, il caffè in cui spesso mio padre mi aveva dato appuntamento era ancora illuminato. Era il momento di scappare. Forse bastava chiedere al tizio sul sedile di lasciarci andar via. Ma non mi sentivo in grado di pronunciare la benché minima parola. Lui ha tossito, una tosse grassa da fumatore, ed ero stupito di percepire un suono. Dal momento dell’incidente attorno a me regnava un profondo silenzio, come se avessi perso l’udito. Percorrevamo il lungosenna. Mentre il furgone della polizia imboccava il ponte, ho sentito la mano di lei stringermi il polso. Mi sorrideva come se avesse voluto rassicurarmi, ma io non provavo nessuna paura. Anzi, mi sembrava che noi due ci fossimo già trovati insieme in altre circostanze, e che anche allora lei avesse quel sorriso. Chissà dove l’avevo già vista… Mi ricordava qualcuno che avevo conosciuto tanto tempo prima. L’uomo di fronte a noi si era addormentato e aveva la testa reclinata sul petto. Lei mi stringeva con forza il polso e di lí a poco, una volta scesi dal furgone, ci avrebbero ammanettati l’uno all’altra.
Dopo il ponte, la camionetta ha varcato un portone e si è fermata nel cortile del pronto soccorso dell’ospedale Hôtel-Dieu. Eravamo seduti nella sala d’attesa, sempre in compagnia di quell’uomo, e mi domandavo che ruolo avesse esattamente. Un poliziotto incaricato di sorvegliarci? Perché? Avrei voluto chiederglielo, ma già sapevo che non mi avrebbe sentito. Ormai, avevo una VOCE INCOLORE. Due parole che mi erano venute in mente nella luce troppo cruda della sala d’attesa. Eravamo seduti, io e lei, su una panca di fronte all’accettazione. L’uomo è andato a parlare con una delle donne dell’ufficio. Io stavo vicinissimo a lei, sentivo la sua spalla contro la mia. Poi lui è tornato al suo posto un po’ lontano da noi, all’estremità della panca. Un tizio con i capelli rossi, un giubbotto di pelle e i pantaloni del pigiama camminava a piedi nudi senza sosta nella sala d’attesa, apostrofando le signore dell’ufficio. Le rimproverava di non occuparsi di lui. Passava e ripassava davanti a noi cercando il mio sguardo. Ma io lo evitavo perché temevo che mi rivolgesse la parola. Una delle donne dell’accettazione l’ha raggiunto e l’ha spinto gentilmente verso l’uscita. Il tizio è tornato nella sala d’attesa, questa volta lanciando lunghi lamenti come un cane che ulula a morte. Ogni tanto un uomo o una donna accompagnati da agenti di polizia attraversavano rapidamente la sala e si inoltravano in un corridoio di fronte a noi. Mi chiedevo dove portasse quel corridoio, e se piú tardi anche noi saremmo stati spinti là dentro. Due donne hanno attraversato la sala d’attesa circondate da diversi poliziotti. Ho capito che erano appena scese da un furgone cellulare, forse lo stesso che ci aveva portati lí. Indossavano pellicce eleganti come quella della donna vicino a me, e avevano lo stesso aspetto curatissimo. Niente ferite al viso. Ma entrambe con le manette ai polsi.
Il bruno robusto ha fatto cenno di alzarci e ci ha accompagnati in fondo alla sala. Era scomodo camminare con una scarpa sola e ho pensato che sarebbe stato meglio togliere anche l’altra. Avvertivo un dolore piuttosto forte alla caviglia del piede scalzo.
Un’infermiera ci ha preceduti in una stanzetta dove c’erano due brandine. Ci siamo sdraiati. È entrato un giovane. Indossava un camice bianco e aveva la barba. Consultava una scheda e ha chiesto alla donna come si chiamava. Lei ha risposto: Jacqueline Beausergent. Ha chiesto il nome anche a me. Mi ha esaminato il piede senza scarpa, poi la gamba tirando su il pantalone fino al ginocchio. L’infermiera ha aiutato la donna a sfilarsi la pelliccia e con un po’ di cotone idrofilo le ha pulito le ferite sul viso. Poi se ne sono andati lasciando accesa una lucina di sicurezza. La porta era spalancata, e nella luce del corridoio l’altro continuava a camminare avanti e indietro. Ricompariva nel vano della porta con la regolarità di un metronomo. La donna era sdraiata accanto a me, con la pelliccia stesa addosso come una coperta. Fra i due letti non c’era spazio sufficiente per un comodino. Ha allungato un braccio e mi ha stretto il polso. Ho pensato alle due donne in manette di poco prima, e mi sono detto di nuovo che avrebbero finito per infilarle anche a noi.
Nel corridoio il tizio ha smesso di andare avanti e indietro. Parlava sottovoce con l’infermiera. Lei è entrata in camera seguita dal giovane con la barba. Hanno acceso la luce. Stavano in piedi al mio capezzale. Mi sono voltato verso la donna, e da sotto la pelliccia lei ha alzato le spalle, come se volesse dirmi che eravamo in trappola e non potevamo piú scappare. L’uomo bruno robusto rimaneva immobile sulla porta, con le gambe leggermente divaricate e le braccia conserte. Non ci toglieva gli occhi di dosso. Forse si preparava a bloccarci la strada casomai avessimo tentato di uscire dalla stanza. Lei mi ha sorriso, di nuovo, con quel sorriso un po’ ironico di poco prima, nel furgone cellulare. Non so perché, ma quel sorriso mi ha preoccupato. Il tizio con la barba e il camice bianco era chino su di me e con l’aiuto dell’infermiera mi applicava sul naso una specie di grossa museruola nera. Prima di perdere conoscenza ho sentito l’odore dell’etere.
Ogni tanto tentavo di aprire gli occhi, ma ripiombavo nel dormiveglia. Poi mi sono vagamente ricordato dell’incidente e ho cercato di voltarmi per controllare se lei fosse sempre nell’altro letto. Ma non avevo la forza di fare il benché minimo gesto e quell’immobilità mi procurava una sensazione di benessere. Mi sono ricordato anche la grossa museruola nera. Probabilmente era stato l’etere a ridurmi in quello stato. Facevo il morto e mi lasciavo trasportare dalla corrente di un fiume. Il viso di lei mi è apparso nitidamente, come una grande foto segnaletica: l’arcata regolare delle sopracciglia, gli occhi chiari, i capelli biondi, le ferite alla fronte, agli zigomi e all’incavo della guancia. Nel mio dormiveglia il bruno robusto mi tendeva la foto chiedendomi «se conoscessi questa persona». Ero stupito di sentirlo parlare. Ripeteva incessantemente la domanda con la voce metallica del servizio ora esatta. A forza di scrutare quel volto mi dicevo che sí, conoscevo quella «persona». Oppure avevo incrociato qualcuno che le assomigliava. Non sentivo piú il dolore al piede sinistro. Quella sera indossavo i miei vecchi mocassini di pelle durissima, con la suola di para e la tomaia che avevo tagliato con le forbici perché mi stavano troppo stretti e mi facevano male al collo del piede. Ho pensato alla scarpa che avevo perso, la scarpa dimenticata in mezzo al marciapiede. Con lo choc dell’incidente mi era riaffiorato alla memoria il ricordo del cane che era stato investito tempo addietro, e ora rivedevo il viale in discesa davanti a casa. Il cane scappava fino a un terreno abbandonato all’inizio della strada. Avevo paura che si smarrisse e stavo ad aspettarlo alla finestra della mia camera. Spesso era sera, e ogni volta lo vedevo tornare lentamente lungo il viale. Chissà perché ora associavo quella donna a una casa in cui avevo trascorso un breve periodo della mia infanzia…
Di nuovo sentivo l’altro farmi la stessa domanda: «Conosce questa persona?» e la sua voce si abbassava sempre piú, diventava un sussurro, come se mi stesse parlando all’orecchio. Io continuavo a fare il morto, e mi lasciavo trasportare dalla corrente di un fiume, forse proprio quello dove andavamo a passeggiare con il cane. Man mano mi apparivano dei volti, e li paragonavo alla foto segnaletica. Ma sí, lei aveva una stanza, al primo piano della casa, l’ultima in fondo al corridoio. Stesso sorriso, stessi capelli biondi ma portati un po’ piú lunghi. Una cicatrice le attraversava lo zigomo sinistro, e di colpo capivo perché mi era parso di riconoscerla nel furgone del pronto intervento: per via delle ferite al viso che probabilmente mi avevano ricordato quella cicatrice, anche se lí per lí non me n’ero reso conto.
Non appena avessi avuto la forza di girarmi verso l’altro letto sul quale era sdraiata, avrei allungato il braccio e le avrei posato una mano sulla spalla per svegliarla. Senz’altro lei era ancora avvolta nella pelliccia. Le avrei fatto tutte queste domande. Finalmente avrei saputo chi era esattamente.
Della camera non vedevo granché. Il soffitto bianco e la finestra, di fronte a me. O meglio, una vetrata dove a destra oscillava un ramo d’albero. E il cielo azzurro dietro il vetro, di un azzurro tanto limpido da farmi immaginare che fuori fosse una bella giornata invernale. Avevo l’impressione di trovarmi in un albergo di montagna. Non appena fossi riuscito ad alzarmi e a camminare fino alla finestra, mi sarei accorto che si affacciava su un campo innevato, forse la partenza delle piste da sci. Non mi lasciavo piú trasportare dalla corrente di un fiume, ma scivolavo sulla neve, un lieve pendio senza fine, e l’aria che respiravo aveva la freschezza dell’etere.
La camera sembrava piú grande rispetto a quella della sera prima all’Hôtel-Dieu, ma soprattutto non avevo notato nessuna vetrata, né la benché minima finestra, in quella specie di sgabuzzino dove ci avevano portati dopo la sala d’attesa. Ho voltato la testa. Niente brandine, nessuno lí dentro oltre a me. Dovevano averle dato una camera accanto alla mia e presto avrei avuto sue notizie. Il bruno robusto, che temevo ci avrebbe ammanettati l’uno all’altra, probabilmente non era un poliziotto come pensavo e non dovevamo rendergli conto di niente. Poteva farmi tutte le domande che voleva, l’interrogatorio poteva durare ore e ore, non mi sentivo piú colpevole di nulla. Scivolavo sulla neve e l’aria fredda mi procurava una leggera euforia. L’incidente della notte prima non era frutto del caso. Segnava una cesura. Era uno choc benefico, ed era successo in tempo per permettermi di dare alla mia vita un nuovo inizio.
La porta era sulla sinistra, dopo il comodino di legno di abete. Sopra c’erano appoggiati il mio portafoglio e il passaporto. E sulla sedia di ferro, contro il muro, ho riconosciuto i miei vestiti. Accanto, la mia unica scarpa. Sentivo delle voci dietro la porta, le voci di un uomo e di una donna che conversavano tranquillamente. Non avevo nessuna voglia di alzarmi. Volevo prolungare il piú possibile quella tregua. Mi sono chiesto se fossi ancora all’Hôtel-Dieu, ma avevo l’impressione di no, per via del silenzio attorno a me, turbato appena dalle due voci rassicuranti dietro la porta. E il ramo oscillava nel vano della finestra. Prima o poi qualcuno sarebbe venuto a trovarmi e a darmi spiegazioni. Non ero affatto preoccupato, proprio io che non avevo mai smesso di stare sul chi vive. Forse quell’improvvisa tranquillità era dovuta all’etere che mi avevano fatto respirare la notte prima, o a un’altra droga che aveva lenito il dolore. Ad ogni modo, il peso che mi aveva sempre oppresso era svanito. Per la prima volta in vita mia ero leggero e spensierato, ed era quella la mia vera natura. Il cielo azzurro al di là del vetro mi evocava una parola: ENGADINA. Mi era sempre mancato l’ossigeno, e quella notte un misterioso dottore, dopo avermi visitato, aveva capito che dovevo partire con urgenza per l’ENGADINA.
Sentivo la conversazione dietro la porta e la presenza di quelle due persone invisibili e sconosciute mi rassicurava. Forse restavano lí per vegliare su di me. Di nuovo l’automobile sbucava fuori dall’ombra, mi sfiorava e si schiantava contro i portici, la portiera si apriva e lei scendeva barcollando. Quando eravamo sul divano nella hall dell’albergo, e fino al momento in cui mi aveva stretto il polso nel furgone cellulare, avevo pensato che fosse ubriaca. Un incidente banale, di quelli per cui al commissariato si dice che la persona guidava «in stato di ebbrezza». Ma adesso ero certo che si trattava di tutt’altro. Era come se qualcuno avesse vegliato su di me a mia insaputa o fosse stato messo sulla mia strada dal destino per proteggermi. E quella notte il tempo stringeva. Bisognava salvarmi da un pericolo, o darmi un avvertimento. Mi è tornata in mente un’immagine, probabilmente per via della parola ENGADINA. Qualche anno prima avevo visto un tizio precipitarsi con gli sci giú per una discesa ripidissima, lanciarsi di proposito contro il muro di una baita e rompersi una gamba per non andare in guerra, quella che chiamavano d’«Algeria». Insomma, quel giorno voleva salvarsi la vita. Io, a quanto pare, non mi ero nemmeno rotto la gamba. Grazie a lei me l’ero cavata piuttosto bene. Quello choc era necessario. Mi permetteva di riflettere su cosa era stata la mia vita fino a quel momento. Dovevo proprio ammettere che «ero allo sbando» – un’espressione che avevo sentito usare nei miei confronti.
Ancora una volta il mio sguardo ha indugiato sulla scarpa accanto alla sedia, quel pesante mocassino che avevo tagliato al centro. Dovevano essersi stupiti quando me l’avevano sfilato prima di mettermi a letto. Erano stati cosí gentili da sistemarlo insieme ai vestiti e prestarmi il pigiama che indossavo ora, azzurro a righe bianche. Come mai tanta sollecitudine? Probabilmente era stata lei a dare quelle istruzioni. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla scarpa. In seguito, quando la mia vita avrebbe preso un nuovo corso, avrei dovuto tenerla sempre sotto gli occhi, in bella mostra su un caminetto o dentro una teca di vetro, in ricordo del passato. E a chi avesse voluto saperne di piú su quell’oggetto avrei risposto che era l’unica cosa che mi avevano lasciato i miei genitori; sí, per quanto risalissi indietro nei miei ricordi, avevo sempre camminato con una sola scarpa. A questo pensiero ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato ridendo in silenzio.
Mi ha svegliato un’infermiera con un vassoio, dicendomi che era la colazione. Le ho chiesto dove mi trovavo esattamente ed è parsa meravigliata che non lo sapessi. Alla clinica Mirabeau. Quando le ho chiesto l’indirizzo non mi ha risposto. Mi osservava con un sorriso incredulo. Pensava che la prendessi in giro. Poi ha consultato una scheda che aveva tirato fuori dalla tasca del camice, e mi ha detto che dovevo «essere dimesso». Le ho ripetuto: Quale clinica? Il pavimento ondeggiava, com...