Ruderi della «Chiesa della Foresta», Vecchio Cimitero; qui William Wallace fu proclamato Protettore del Regno di Scozia nel 1298.
Tribunale dove Sir Walter Scott amministrò la giustizia tra il 1799 e il 1832.
Philiphaugh? 1945.
Cittadina grigia. Qualche edificio in pietra grigia tipo Edimburgo. Intonaci a stucco, anche questi tra il grigio e il marrone, non cosí vecchi. Biblioteca, ex carcere.
Intorno, campagna collinare, quasi montuosa. Colori: bronzo, lavanda, grigio. Qualche chiazza scura, forse pinete. Rimboschimento? Fuori dall’abitato, boschi di querce, faggi, betulle, agrifogli. Foglie autunnali, bruno dorate. Giornata di sole, ma vento freddo e con un’umidità che sembra salire dal basso. Piccolo corso d’acqua limpida.
Una lapide sprofondata nella terra, tutta storta, nome date ecc. non piú leggibili, restano giusto il teschio e le ossa incrociate. Passano delle ragazze coi capelli rosa e la sigaretta in bocca.
Hazel tirò una riga sulla parola «giustizia» e la sostituí con «legge». Fece altrettanto con «lavanda», che le pareva un termine troppo delicato per definire la cupa bellezza di quelle colline. Non seppe trovarne un altro.
Aveva premuto l’interruttore accanto al camino, sperando di poter ordinare qualcosa da bere, ma non stava arrivando nessuno.
Hazel aveva freddo in quella stanza. Al suo arrivo al Royal Hotel, nel pomeriggio, una donna con una spuma di capelli biondo oro e la faccia liscia e triangolare l’aveva rapidamente squadrata, informandola sull’ora in cui veniva servita la cena per poi indicarle la sala del piano di sopra come il luogo in cui doveva andare ad accomodarsi, escludendo in tal modo il pub del piano terra, caldo e rumoroso. Hazel si domandò se le ospiti dell’albergo fossero ritenute signore troppo rispettabili per quel genere di locale. O magari lei non lo era abbastanza? Indossava pantaloni di velluto a coste, scarpe da tennis e una giacca a vento. La donna dalla chioma d’oro sfoggiava invece un tailleur azzurro chiaro di buon taglio con bottoni luccicanti, calze di pizzo bianco e scarpe alte che avrebbero distrutto i piedi di Hazel in capo a mezz’ora. Al rientro da una passeggiata, un paio d’ore piú tardi, pensò di mettersi l’unico vestito che aveva ma alla fine decise di non lasciarsi intimidire. Per dimostrare buona volontà si cambiò optando per un paio di pantaloni neri in velluto liscio e camicetta di seta, si spazzolò e raccolse i capelli, ormai mezzi grigi e mezzi biondi, e cosí fini che il vento li aveva resi elettrici e arruffati.
Hazel era vedova. Sulla cinquantina, insegnava biologia al liceo di Walley, in Ontario. Quell’anno era in congedo. Era il tipo di persona che avresti potuto trovare seduta per conto suo in un angolo di mondo che con lei non c’entrava niente, a scrivere cose su un quaderno per tenere a bada le ondate di panico. Aveva scoperto di essere relativamente ottimista la mattina, ma che all’imbrunire l’ansia diventava un problema. Questo genere d’ansia non aveva nulla a che fare con soldi, biglietti, sistemazione o qualsiasi eventuale inconveniente dovuto all’estraneità del luogo. Riguardava piuttosto il venir meno di uno scopo e il sorgere della domanda «che ci faccio qui?» Uno potrebbe rivolgersela benissimo anche a casa, e a certe persone capita infatti, ma a casa di solito quel che succede intorno basta a inibirla.
In quel momento notò la data che aveva scritto accanto a «Philiphaugh»: 1945. Anziché 1645. Si disse che doveva essersi lasciata influenzare dallo stile della sala. Finestre in vetrocemento, moquette con disegni a spirale rosso cupo, tende in cretonne beige a fiori rossi e foglie verdi. Mobili massicci, polverosi, fodere in tessuto scuro. Lampade a stelo. Tutta roba che poteva essere già lí quando Jack, il marito di Hazel, frequentava l’albergo, in tempo di guerra. Allora il caminetto doveva ancora contenere qualcosa: una stufetta a gas o magari una vera e propria grata per il carbone. Adesso era vuoto. Il pianoforte probabilmente rimaneva aperto e accordato, per ballare. O forse avevano un grammofono, coi dischi a 78 giri. La sala doveva riempirsi di militari e ragazze. Le pareva di vedere il rossetto scuro delle ragazze, i loro capelli raccolti, e gli abiti della festa in crêpe con le scollature a cuore o i colletti staccabili di pizzo. Le uniformi degli uomini erano ruvide e rigide contro le braccia e le guance, e avevano un odore eccitante e acre, fumoso. Alla fine della guerra Hazel aveva quindici anni, perciò di quelle feste non gliene toccarono tante. E anche le rare volte in cui le capitarono, era troppo giovane per essere presa sul serio e doveva accontentarsi di ballare con altre ragazze o con qualche amico di suo fratello maggiore. L’odore e la sensazione dell’uniforme sulla pelle dovevano essere cose che aveva solo immaginato.
Walley è un porto di lago. Hazel e Jack sono cresciuti lí, ma lei non l’aveva mai conosciuto né ricordava di averlo visto prima di quella volta in cui si era presentato a un ballo del liceo in compagnia dell’insegnante di inglese che era una delle sorveglianti. A quel punto Hazel aveva compiuto diciassette anni. Quando Jack la invitò a ballare era cosí nervosa ed emozionata che tremava. Lui le chiese cosa avesse e a lei toccò rispondere che credeva di essersi presa l’influenza. Jack si mise d’accordo con l’insegnante di inglese e accompagnò a casa Hazel.
Si sposarono quando Hazel ebbe diciott’anni. Nei primi quattro anni di matrimonio ebbero tre figli. Poi basta. (Jack diceva a tutti che Hazel aveva scoperto come succedeva). Jack aveva trovato impiego per una ditta di vendita e riparazioni di elettrodomestici subito dopo il congedo dall’aviazione. La ditta era di proprietà di un suo amico che era rimasto a casa. Jack lavorò in azienda, grosso modo con le stesse mansioni, fino al giorno della sua morte. Certo, si era dovuto aggiornare, per esempio all’arrivo dei forni a microonde.
Dopo quindici anni di matrimonio, Hazel cominciò a seguire dei corsi per corrispondenza. Poi a fare avanti e indietro da un college a una cinquantina di miglia, come studentessa a tempo pieno. Arrivò alla laurea e diventò insegnante secondo il progetto che aveva in mente prima di sposarsi.
Jack doveva esserci stato, in quella sala. È probabile che avesse guardato le tende, che si fosse seduto proprio su quelle poltrone.
Finalmente entrò un tizio a chiedere che cosa voleva bere.
Scotch, disse lei. Il che lo fece sorridere.
– Bastava dire whisky.
Ah, già. Non si chiede uno scotch, in Scozia.
Jack era di stanza dalle parti di Wolverhampton, ma di solito le licenze le passava quassú. Era venuto prima a conoscere e poi a trovare l’unica parente che gli risultasse di avere su suolo britannico: una cugina da parte di madre, certa Margaret Dobie. Non era sposata, stava da sola, al tempo era una donna di mezza età, quindi doveva essere molto anziana ormai, sempre che fosse ancora viva. Jack non si era piú tenuto in contatto, dopo il rientro in Canada – non era tipo da lettere. Ne parlava, però, e riordinando le sue cose, Hazel aveva trovato il nome e l’indirizzo. Scrisse a Margaret Dobie per informarla che Jack era morto e che spesso ricordava i suoi andirivieni in Scozia. La lettera non ebbe mai risposta.
A quanto pareva Jack e quella cugina andavano molto d’accordo. Lui si fermava da lei nel grande casale gelido e malandato della fattoria di montagna dove Margaret abitava con pecore e cani. Jack si faceva prestare la moto e girava per la campagna. Veniva in città, in questo stesso albergo, a bere un bicchiere, fare amicizia o litigare con altri militari o correre appresso a qualche ragazza. Lí aveva conosciuto Antoinette, la figlia dell’albergatore.
Antoinette aveva sedici anni, troppo pochi per poter andare alle feste o frequentare il bar. Per incontrare Jack dietro l’hotel o sul lungofiume doveva svignarsela di nascosto. Una delizia di ragazzina, dolce, impulsiva, sventata. La piccola Antoinette. Jack parlava di lei in presenza di Hazel e a Hazel come se l’avesse conosciuta non solo in un altro paese, ma addirittura in un altro mondo. La tua Biondina, la chiamava Hazel. Se la immaginava con addosso un tutone di lana in colori pastello, e la pensava con i capelli morbidi, da bebè, e la bocca soffice, tumida.
Anche Hazel era bionda al tempo in cui aveva conosciuto Jack, anche se tutt’altro che sventata. Era timida, pudica, intelligente. Timidezza e pudori Jack li conquistò subito e quanto all’intelligenza, non ne era infastidito come la maggioranza degli uomini, all’epoca. La trovava divertente, diciamo.
Intanto l’uomo era di ritorno con un vassoio. Sul vassoio, due whisky e una brocca d’acqua.
Serví prima Hazel e poi prese l’altro bicchiere. Si mise a sedere sulla poltrona davanti alla sua.
Allora non era il barman. Era un estraneo e le aveva appena pagato da bere. Hazel fece per protestare. – Avevo suonato, – disse. – Pensavo che fosse venuto perché avevo suonato il campanello.
– Quello? è inutile, – fece lui soddisfatto. – No. È stata Antoinette a dirmi che l’aveva sistemata qui, cosí ho pensato di venire a chiederle se aveva sete.
Antoinette.
– Antoinette, – disse Hazel. – È la signora con cui ho parlato oggi pomeriggio? – Si sentí mancare il cuore, o il fegato, o il coraggio, quel che viene a mancare, insomma.
– Antoinette, – ripeté lui. – È la signora.
– La direttrice dell’albergo?
– La padrona dell’albergo.
Il problema era l’opposto di quel che si era aspettata. Non che la gente si fosse trasferita o che gli edifici fossero spariti senza lasciare traccia. Al contrario. La primissima persona con cui aveva parlato nel pomeriggio era proprio Antoinette.
Avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto immaginare che mai una donna tanto curata, che mai Antoinette avrebbe assunto quel tipo come barista. Bastava guardare i pantaloni marroni sformati che aveva addosso e le bruciature di sigaretta sul pullover a V, sotto il quale spuntavano una squallida camicia e una cravatta. Eppure non sembrava né sciatto né depresso. Al contrario, dava l’idea di un uomo talmente sicuro di sé da potersi permettere una certa trascuratezza. Di corporatura era tarchiato e robusto, di faccia squadrata, colorito acceso, vaporosi capelli bianchi che gli incorniciavano la fronte a folte ciocche ricciute. Era contento che lei lo avesse scambiato per il barista, come se fosse riuscito a farle uno scherzo. A scuola, Hazel lo avrebbe identificato come il possibile piantagrane, non tanto il ribelle, o il cretino, e nemmeno l’annoiato cronico o lo strafottente, ma di quelli che si siedono negli ultimi banchi, gli scansafatiche in gamba che fanno commenti e non sei mai sicuro di aver capito che cosa hanno detto. Un’ostilità discreta, sottile, indefessa, una delle cose piú difficili da sradicare, in classe. Quel che si deve fare, spiegava sempre Hazel alle insegnanti piú giovani o a quelle che si scoraggiavano piú facilmente di lei, è trovare il modo di appiccare il fuoco alla loro intelligenza. Trasformarla in uno strumento, anziché un giocattolo. Perché l’intelligenza di quel genere di individuo è sottoimpiegata.
Che cosa le importava di quell’uomo, in ogni caso? Non è che tutto il mondo sia un’aula scolastica. Ho capito che tipo sei, si disse, ma non è detto che mi interessi dar seguito alla cosa.
Si concentrava su di lui per non pensare ad Antoinette.
Lui si presentò come Dudley Brown, procuratore legale. Disse che stava lí (Hazel intese in una stanza dell’albergo) e che il suo studio era giusto in fondo alla via. Un ospite fisso: vedovo, dunque, o scapolo. Scapolo, pensò. Quell’aria compiaciuta, quella vivacità pimpante di solito non sopravvivevano a una vita coniugale.
Troppo giovane. Nonostante i capelli bianchi, gli mancava qualche anno per aver fatto la guerra.
– Allora è venuta quassú a cercare le sue radici? – disse lui. Pronunciò la parola con un esageratissimo accento americano.
– Sono canadese, – disse cordiale Hazel. – Non parliamo in quel modo.
– Ah, pardon, – disse lui. – Ho paura che sia vero. Tendiamo a considerarvi della stessa partita, voi e gli americani.
A quel punto Hazel cominciò a raccontargli di sé, perché no? Gli disse che suo marito era stato lí durante la guerra e che avevano sempre progettato di fare quel viaggio insieme, ma non ci erano riusciti e poi suo marito era morto e cosí adesso lei era venuta da sola. Il che era parzialmente vero. Aveva proposto a Jack quel viaggio tante volte, ma lui aveva sempre detto di no. Pensava fosse a causa sua, perché non aveva voglia di farlo con lei. Per molto tempo, aveva preso tutto in modo decisamente troppo personale, piú di quanto avrebbe dovuto. Era probabile che Jack non intendesse niente di piú di quel che diceva. E cioè: «No, non sarebbe la stessa cosa».
Se si riferiva alla possibilità che le ...