– Il trucco è questo, – mi spiegò papà afferrandomi per le spalle, – devi sembrare convinto –. Si era messo in ginocchio sul tappeto e mi guardava dritto negli occhi. Nell’aria c’era odore di pomodori e cipolle: mamma aveva deciso che era ora di fare la conserva.
– Dici? – risposi io sconfortato, scuotendo la testa.
– Chiedimi qualcosa.
Sbuffai. – Cosa?
– Una cosa qualunque.
– …
– Dài dài dài, fammi una domanda.
– Da che cosa è provocato il riscaldamento globale?
– Dalle scoregge di mio figlio, – rispose papà come fosse ovvio.
– Davide! – si lamentò mamma.
Io scoppiai a ridere.
– Non darle retta, – disse lui. – Non importa cosa dici, – e mi strinse le spalle ancora piú forte, come per lasciarci l’impronta della mano, – ma come lo dici. Ci siamo capiti?
Annuii.
– Davvero?
Annuii di nuovo.
Insomma, strisciando tra le sterpaglie della vita come un brigante ero arrivato al giorno dell’orale di terza media. La faccenda era che metà dei professori mi adorava, mentre l’altra metà, piuttosto che vedere la mia faccia, avrebbe preferito rotolarsi nel fango. In Storia, Scienze, Matematica e ginnastica (sí, ginnastica) non strappavo un sei dalla fine della Guerra dei trent’anni – che ovviamente non avevo idea di quando fosse stata, ma certo era passato un sacco di tempo – mentre in Tecnica, Arte, Italiano, Musica, Inglese e Religione (sí, Religione, embè?) era sufficiente che alzassi la mano per prendere un bel voto. Storia, tra le materie da abbattere, era poi la prima della lista. Per qualche motivo misterioso, forse dovuto alla particolare conformazione delle mie sinapsi, era per me molto, ma molto piú facile mandare a memoria una qualsiasi delle poesie di William Blake che tenere a mente, chessò, la data dell’armistizio di Villafranca.
Uscii in giardino, dove Chiara, Alice e Gio stavano facendo colazione bagnati da un sole dolcissimo. Nell’aria c’era quell’allegria che sempre soffia sulla vita e sugli uomini alla fine di giugno: gli uccellini cantavano, le api ronzavano attorno ai vasetti di marmellata e ogni respiro era una boccata di speranza.
– Io vado, – dissi.
– In culo alla balena, – fece Chiara.
– Sperando che non caghi, – disse Alice.
Voltai la schiena e alzai la mano in segno di saluto e vittoria, ma a metà del vialetto mi girai di nuovo. – Ehi, Joe.
Lui levò lo sguardo dal latte di riso e mi guardò come a dire: che c’è, che vuoi, non vedi che sto bevendo?
– Vado via, – dissi.
– Venti minuti? – chiese lui posando la tazza dei Power Rangers.
– Sí. Vado via per venti minuti. Consigli?
Gio indicò un diplodoco, il dinosauro con il collo dritto e lungo che sbucava tra le tazze e i barattoli ammassati sul tavolo.
– Devo uscirne a testa alta?
Lui annuí. E si rituffò nel latte.
La risposta era stata un po’ criptica, ma decisi di interpretarla come mi faceva comodo.
Comunque fosse andata, l’importante era uscirne a testa alta.
E fu cosí che io e la Fosca, entrambi agitati, io piú di lei, i Black Keys nelle orecchie, corremmo incontro al destino in quella splendente mattina di inizio estate. Le medie erano finite. Pazzesco. Mi sembrava ieri che ero entrato in classe per la prima volta. Ma il tempo è cosí: il tempo è un bastardo. Ti fa gli agguati, rallenta quando vorresti vederlo correre, corre quando vorresti fermarlo.
Pedalando verso scuola, quella mattina, mi chiesi se la fine delle medie era davvero una fine o se forse potevo considerarlo un inizio: l’alba di un nuovo giorno. Forse sarei riuscito a mettere ordine nei miei pensieri e nelle mie paure, scoprire chi ero e cosa volevo fare. In casa c’era stato una specie di consiglio di guerra per aiutarmi a decidere a cosa iscrivermi e alla fine si era deciso per il liceo Scientifico.
Arrivato alla media Giorgione, in cortile incontrai Goss, che aveva appena sostenuto l’esame.
– Ehi, come è andata?
– Be’, spero che aver detto giusto il nome li convinca ad alzarmi il voto…
– Quale nome?
– Il mio.
– È andata cosí male?
Si strinse nelle spalle. – E chi lo sa?
– Le domande peggiori?
– La Tasso, ovviamente. Pensa che mi ha chiesto quando Napoleone ha dichiarato guerra alla Russia. Cioè, dico, io nemmeno ricordavo gli avesse dichiarato guerra. Voglio dire, era il primo argomento dell’anno…
– E no, – dissi scandalizzato. – Non si fanno domande cosí.
– Non si fanno no.
Mi grattai una guancia e feci per salutarla e andarmene, poi mi voltai. – Senti, giusto per saperlo, Goss, caso mai me lo chiedesse…
– Cosa?
– Quand’è che gli ha dichiarato guerra?
– 1812. Alla fine me lo ha detto lei. Sguardo di ghiaccio, voce disgustata. Hai presente?
Annuii.
– Vabbe’. Io vado.
– Ci si vede.
– Ci si vede.
Rimasi lí nel cortile a osservarla andare via a testa bassa, le braccia penzoloni lungo i fianchi e i piedi che strisciavano sul selciato disegnando due binari di sconforto. Alzai lo sguardo alle finestre della mia aula come un condannato. Inutile attendere oltre, pensai. E mi avviai.
Almeno ci fosse stata Arianna, con me. Ma lei era passata il giorno prima. Cosí mi toccò attendere il mio turno in corridoio con un paio di compagni di quelli che a mala pena ciao ciao la mattina, ciascuno rintanato nelle proprie paure: c’era chi ripeteva date e formule muovendo solo le labbra, a occhi chiusi, che sembrava pregasse; chi non riusciva a stare fermo e camminava avanti indietro; chi si lasciava andare a risatine nervose e sembrava si fosse fatto una betoniera di caffè.
Insomma. Venne il momento.
– Buongiorno, – dissi entrando. I banchi erano stati sistemati a ferro di cavallo, la classe era piccola, piú piccola di come la ricordavo, dovevano aver spostato i muri durante la notte, e oltre i vetri polverosi splendeva un sole potente e vacanziero che mi distraeva. L’aula si affacciava sul cortile. Pensai che dovevo cercare una via di fuga. Per evadere. Ma era tutto sigillato.
– Oh, ma abbiamo Mazzariol, – dissero in coro i professori di Tecnica, Arte, Italiano, Musica, Religione e Inglese, rilassandosi. Alcuni persino sorrisero, cosa che mi fece stare bene.
– Oh, ma abbiamo Mazzariol, – dissero i professori di Matematica, Educazione fisica e Scienze, con la voce di chi ha appena visto uno scarafaggio uscire da una crepa. Drizzarono la schiena, impugnarono le penne come coltelli e si premettero gli occhiali sul naso con la punta del dito. Alcuni cominciarono a sfogliare il libro di testo, pensando a cosa chiedermi. Proprio al centro del plotone c’era lei: la professoressa Tasso, di Storia. Lei non mi salutò nemmeno.
– Che cosa hai portato? – domandò senza guardarmi.
– Posso sedermi prima? – dissi, pentendomi subito del tono arrogante con cui mi era uscita la frase, che di per sé non voleva esserlo: se non mi sedevo rischiavo di svenire.
Lei mi fece segno di accomodarmi.
Strisciai la sedia per avvicinarla provocando un rumore fastidiosissimo.
– Allora? – disse, facendo una smorfia e tamburellando con le dita sul banco.
– Ho portato un lavoro…
La Tasso tossí per schiarirsi la gola, cercò una caramella nella borsetta.
– … sull’arte della persuasione.
I professori cui piacevo mi rivolsero uno sguardo benevolo e si scambiarono robusti cenni d’assenso. Gli altri arricciarono le labbra a cavolfiore.
– Avanti, – grugní la Tasso. – Parlacene.
Risposi e me la cavai discretamente.
Poi però cominciarono le domande sulle materie. Era finita la prima tappa, ora cominciava la salita. Mi sembrava di avere in mano il fiore del mio voto e di strapparne i petali recitando m’ama non m’ama: una domanda era di un professore buono, una di uno cattivo, essendo l’unico metro per decidere se un professore era buono o cattivo il fatto che fosse con me o contro di me, ovviamente.
Quella di Scienze mi chiese se la mia ricerca poteva essere collegata al sistema nervoso. Arte della persuasione e sistema nervoso?, pensai. Cosa c’entrano? Io ero nervoso e stavo parlando della persuasione, ma non credo fosse questo il collegamento. In ogni caso dissi di sí, perché se lo aveva chiesto era ovvio che la risposta fosse quella, ma dopo un guazzabuglio di frasi che non portavano da nessuna parte mi fece segno di smettere e si chinò sul foglio a scrivere qualcosa con la stessa gioia con cui si toglie una mosca dal piatto. Quello di Tecnica, amico mio, mi chiese di che materiale era il lavoro che avevo portato. Pensai a un tranello, ma no, non poteva essere, dissi: – Di carta… – e lui annuí. Il professore di Educazione fisica chiese cos’era un movimento sagittale. Pensando a quello che mi aveva detto papà cominciai serio a parlare del sagittario e del movimento con cui si scocca una freccia, ma il professore mi bloccò con un gesto della mano prima ancora che potessi pronunciare la parola «costellazione».
Bene in Musica e in Arte. Benissimo in Inglese.
Disastro in Matematica.
Infine arrivò Storia.
La Tasso indossava una camicetta grigio antracite e un golfino verde palude. Prima di fare la domanda mi squadrò a lungo da sopra gli occhiali. Trattenni il fiato, sentii i coyote ululare e le balle di fieno trasportate dal vento spazzare il deserto.
– C’è un argomento di cui vorresti parlare? – sibilò.
– Be’, ecco, il discorso sulla persuasione, ecco, si potrebbe collegare per esempio… alla propaganda italiana dopo la conquista di Libia.
– Quindi ti sei preparato sulla conquista della Libia?
– Sí.
– Bene. Parliamo della Seconda guerra mondiale.
Non era vero che mi ero preparato sulla conquista della Libia, anzi, tra tutti gli argomenti era quello di cui sapevo meno, ma ero sicuro che se avessi detto che l’avevo studiata lei non me l’avrebbe chiesta. Ma la Seconda guerra mondiale...