L'ultima famiglia felice
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L'ultima famiglia felice

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ultima famiglia felice

Informazioni su questo libro

Matteo Stella è un padre che crede nel dialogo anziché nell'imposizione di regole. È un uomo mite e un padre indulgente, convinto di avere costruito una famiglia felice. Anche se Stefano, il figlio tredicenne, irride i suoi metodi educativi con una ribellione cieca, alzando di volta in volta il livello della sfida. Anche se Eleonora, la figlia maggiore, sembra aver perso pian piano il rispetto per lui. Anche se Anna, la moglie, si sente oppressa invece che liberata dall'infinita capacità che ha il marito di perdonarla. Poi, d'improvviso, ogni illusione crolla, rivelando la vulnerabilità e le contraddizioni che covano sotto la cenere in ogni famiglia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806224479
eBook ISBN
9788858421673

Parte seconda

– Ragazzi, ci siete? Ragazzi?
Era a casa, finalmente. Però la porta non era chiusa a chiave. L’aveva lasciata aperta lui, stamattina? E Stefano ed Eleonora, perché non c’erano? Era successo qualcosa?
Calmati, si disse. Respira. Sei a casa.
Era ormai buio, fuori. Dentro, bastò spingere l’interruttore, ed ecco la luce calda e soffusa delle lampade a basso consumo. Matteo le osservò aumentare dolcemente di intensità dando agli occhi il tempo di abituarsi. L’illuminazione era compito suo fin dai tempi in cui aveva reso magiche le canzoni della buonanotte di Anna. Una volta aveva persino rimediato delle gelatine, rosse e blu e verdi, ma lei aveva subito bocciato l’esperimento, ma che siamo in una discoteca?
Il soggiorno risplendeva, la donna delle pulizie era venuta durante la mattina. Una brava persona, fidata, aveva le chiavi: doveva essere stata lei a non chiudere. Anche quella prima aveva le chiavi, il danno maggiore era stato sostituire la serratura dopo che, con molto tatto e un’infinita vergogna, l’avevano mandata via perché rubava, povera donna. Il fatto che fosse straniera era solo un caso, lui e Anna non avevano avuto dubbi. La nuova donna era italiana. Ciò che la rendeva impagabile non era tanto che pulisse con cura, ma che riuscisse a dare una straordinaria impressione di pulito. Anna e Matteo l’avevano messa in regola, non conoscevano nessun’altra famiglia che avesse fatto lo stesso. Piero lo aveva preso in giro: e poi scusa ma non era meglio una polacca da cinque euro l’ora? La faceva sempre facile, Piero. Ora starà piegato in due, a spaccarsi la schiena sotto il peso dei suoi chili e di quelli del piccolo Gabriele, lo starà sostenendo da dietro, le mani sotto le ascelle, su a papà fai ancora uno sforzo, che oggi arriviamo a cinque passi.
Matteo respirò l’odore di candeggina, e pensò che in bagno avrebbe trovato gli asciugamani appena cambiati. Era tanto che non gli capitava di trovare il soggiorno cosí silenzioso e in ordine, senza amiche di Eleonora, senza urla e chiacchiere. È bello tornare a casa. Tutti dovrebbero averne una. Questo era il solo punto in cui il suo pensiero si faceva radicale: il diritto a un alloggio confortevole. La sua teoria era: se hai qualcosa da perdere, qualcosa che ti fa stare bene, sarai un cittadino migliore, non farai azioni illegali che possano privarti di tutto. E niente, secondo Matteo, ti fa stare bene come casa tua.
Il segreto del comfort stava nel parquet e nei tappeti. Il legno era il suo materiale preferito. Caldo, ma non asfissiante. Cedevole, ma non moscio. Gli dispiaceva solo che sembrasse una cosa da ricchi. Il legno, che una volta era usato per le capanne, una roba da ricchi. Lui e Anna erano stati subito d’accordo, sul parquet: a linee perpendicolari, mogano chiaro. Sui tappeti c’era stato da combattere. Contro Matteo, Anna li voleva, pensa come saranno felici i nostri bambini di starci sopra. Lui non era convinto, ma scusa cosí nascondiamo il parquet, e poi si riempiono di polvere, si macchiano. Col tempo aveva dovuto darle ragione, i bambini ne andavano pazzi. Nel soggiorno ce n’erano due. Uno rosso subito dopo la porta, quello su cui lui stava in piedi, a confortarsi con la vista di casa, dirsi qui non può succedere piú nulla di male. E un secondo blu davanti al divano. Era lí che da piccoli giocavano Eleonora e Stefano, per loro era come un’isola fatta d’acqua, su cui però potevi camminare, sdraiarti. Il parquet, cioè la terra intorno, era la parte pericolosa, corri Stefano vieni qui sull’isola d’acqua se no anneghi nella terra. Solo i bambini, pensò Matteo, hanno di queste idee sovversive.
Avanzò di qualche metro nel piú rassicurante silenzio, sui tappeti non si sente il rumore dei passi, attutiscono i colpi. Oltre il divano, si vedeva quello blu, l’isola d’acqua. Ci avevano fatto l’amore. Ancora non avevano figli, la casa l’avevano appena comprata. No, non era vero, si stava confondendo, è facile lasciarsi andare e trasformare i ricordi in un film. Lí si erano stesi, eccitati dal loro nuovo potere d’acquisto, poi si erano guardati negli occhi, si erano messi a ridere, abbiamo preso anche un materasso sanitario con le doghe ergonomiche, no?
Peccato averlo cambiato da poco, quel letto, ma ormai era vecchio, ne avevano preso uno in lattice. Peccato non aver trovato altra sistemazione per il letto nuovo che il centro della stanza, la testata addossata alla parete: ma che storie ti vengono in mente, aveva detto Anna, dove vuoi che lo mettiamo se non qui?
Era stata lei a scegliere quella casa. Lei a pagarla. Speriamo che con la Vexus vada bene, non ci vorrebbe una battuta d’arresto proprio ora. E proprio ora era la macchina da regalare a Eleonora nel giro di qualche mese, i casini in ufficio, ma soprattutto l’eventualità di un’operazione al seno. Andare in ospedale era fuori discussione. Non che lei non volesse, anzi, lei insisteva, ma per carità, le liste d’attesa, le infermiere cafone, gli orari di visita da galera, i pasti da galera. Matteo aveva una teoria: se sei costretto a stare fuori casa, la cosa migliore che ti possa capitare è un ambiente che a casa ti faccia sentire il piú possibile. In clinica hai la tua stanza, decidi tu se accendere o no la tv, i familiari ti stanno vicino tutto il tempo, i dottori ti parlano in modo amichevole, in modo amichevole ti parlano le infermiere. Comunque che c’entrava la clinica, cos’era adesso questo pessimismo? La visita non l’aveva ancora fatta, sicuro il professore le avrebbe detto che non era niente di grave, che non c’era alcun problema. E comunque proprio ora era soprattutto: con Stefano che mi odia, ma no che non mi odia, devo solo essere un po’ piú duro, ma che piú duro e piú duro, ci vuole comprensione, affetto. Pazienza.
Le quattro e trenta. Ci risiamo. Se ne stava piantato a pensare, non pensare, uno sguardo all’orologio, altri pensieri, non pensieri, l’orologio. Le quattro e trentacinque. E questi cinque minuti, come erano passati? Cosa era successo tra uno sguardo e l’altro all’orologio? Chi gli stava rubando il tempo?
Lasciò la ventiquattrore a terra e appese il giubbotto. Non solo luce contro buio, anche tepore contro freddo: tolse la giacca e si godette il perfetto microclima di casa sua. Andò verso l’albero di Natale, lí in fondo all’angolo, accelerando il passo quando uscí dal tappeto rosso, rallentandolo di nuovo quando passò su quello blu, di nuovo accelerando quando fu sul pavimento, sbrigati Matteo o annegherai nella terra. Attaccò la spina, non aveva voluto impostare un orario, era inutile che fosse acceso quando non c’era nessuno. L’albero era un compito di Eleonora e Stefano. Cosí voleva la tradizione. Ma la tradizione dell’adolescenza è rompere le tradizioni: Stefano aveva detto che, per lui, potevano bruciare l’albero e tutto il Santo Natale. Eleonora aveva detto no io lo voglio, ma poi non aveva mai un attimo libero, la scuola, le amiche, quel ragazzo che ogni pomeriggio si piazzava in cortile col suo motorino bianco e nero. L’aveva montato Matteo. Però Eleonora la sera lo aveva baciato, grazie papà, giuro il prossimo anno lo facciamo insieme. E Anna, quando era tornata dal lavoro, aveva riposizionato le luci. Matteo era l’esperto, sí, ma solo da un punto di vista tecnico: le aveva disposte con un ordine geometrico da ingegnere, amore scusa ma cosí sembra un grattacielo, non un alberello. Luci tutte rosse, movimento ondulatorio. Palline rosse e bianche. Un po’ di neve finta, qualche nastro dorato, dorato il puntale. I regali sotto. Quelli di Eleonora per tutta la famiglia. Quelli che Anna e Matteo avevano acquistato e poi firmato a nome di Stefano. Quelli con su scritto: da mamma e papà. Segretissimi, impossibile avere idea di cosa fossero, Anna e Matteo riuscivano sempre a cogliere i figli di sorpresa nel modo giusto.
Le quattro e quaranta, stavolta credeva di essersi perso piú a lungo. Le luci a risparmio energetico erano arrivate a regime. Con le mani fece due paraocchi e lanciò uno sguardo oltre la finestra. C’era molto traffico, ma il rumore non trapelava, in soggiorno avevano i doppi vetri. Ci alitò, osservò la chiazza che si era formata, poi ci passò sopra la punta del dito in modo che l’unghia e il polpastrello tracciassero due rette parallele. Le rette parallele si incontrano all’infinito.
Sentí un rumore provenire dal bagno.
– Eleonora, sei tu?
– Ciao papà.
– E Stefano?
– Non è in camera sua?
Matteo andò davanti alla stanza del figlio e mise la mano sulla maniglia, con l’impulso di aprire. Era pur sempre casa sua. Ma c’era pur sempre il cartello: papà qui non può entrare.
Inspirò quanta piú aria possibile, trattenne a lungo, buttò fuori. Lasciò la maniglia e bussò. – Stefano?
Non ottenne risposta. Si inchinò, le ginocchia scricchiolarono, la corsa per le scale aveva lasciato qualche strascico. Anche la schiena gli doleva. Sgranchí il collo, con speranza. Macché, era l’unica parte che non gli faceva male. Appoggiò l’occhio al buco della serratura. Sentí un rumore, che era stato lui stesso a produrre con le scarpe sul pavimento, e schizzò in piedi. Si immobilizzò, temendo che lo scricchiolio fosse stato udito da qualcuno.
Non aveva visto nulla, la luce della camera di Stefano era spenta. Si mise in ascolto, l’orecchio attaccato alla porta. Questo sí è da genitori: origliare la vita dei figli, inseguirne i brandelli, accertarsi che siano sani e salvi, mandami un messaggio ogni tanto mentre sei fuori, chiamami appena arrivi. Era un po’ come tornare ai primi mesi di vita di Stefano, finalmente guarito dall’ittero, finalmente dimesso. Durante la notte Matteo si alzava e andava sulla soglia della camera, giusto per sentire se respirava. Poi, già che c’era, prolungava l’ispezione fino alla stanza di Eleonora, e tornava a letto da Anna, tutto a posto amore dormono come angioletti.
Udí dei colpi, ripetuti, a mitraglia.
Non si allarmò: erano le dita di suo figlio sulla tastiera. Call of Duty, missione 7, Alpi Bavaresi, Germania 7 agosto 1944, ore 1.30. Cuffiette alle orecchie per un isolamento completo, il marine Stefano non si faceva problemi a irrompere in un castello pieno di tedeschi. Al suo fianco, altri marine. Contro, decine e decine di nazisti. Obiettivo: sterminarli.
Sono a casa, io, i miei figli. Manca solo Anna, che arriverà presto. Tra poco mi occuperò della cena, ora posso respirare: inspirare, trattenere, espirare. Sono a casa.
Andò in camera e ripose la giacca nell’armadio, lo specchio dentro l’anta riflesse il suo torace. Il letto era stato fatto di nuovo, il venerdí la signora delle pulizie cambiava tutta la biancheria. Una volta lui le aveva chiesto ma secondo lei dove altro lo potremmo mettere il lettone? Lei si era scusata, non saprei signore. Ma no, scusi lei, era solo una curiosità. Matteo si guardò intorno. Proprio una bella casa, protettiva. Pianterreno ma rialzato di almeno un metro dal livello del suolo. La parte migliore era la terrazza condominiale, dove erano andati durante l’eclissi: si intravedeva Trastevere. Anna ne era stata subito entusiasta: pensa che bello affacciarsi la notte e vedere Roma. Poi non si erano affacciati granché, Anna si addormentava subito, lui aspettava il sonno con qualche esercizio di algebra, o l’analisi logica che Stefano non era riuscito a finire. Stefano non mi odia. Stefano non è un problema. Un figlio è un figlio è un figlio è un figlio. Un problema, mai. Una cimice, poi.
Entrò in cucina e mise su il caffè. Gli sembrava di sentire i colpi di Stefano sulla tastiera, ma forse era solo suggestione. Era stato Matteo a regalargli Call of Duty, uscito neppure due mesi prima. Se l’era fatto spedire dall’America. Sperava che ci avrebbero giocato insieme, li avrebbe riavvicinati. Quando gli aveva comprato il Game Boy, Stefano non la smetteva piú di arrampicarsi sui tubi con Super Mario Bros, arrampicato sulle sue spalle. Gli chiedeva di insegnargli i trucchetti, finché non era diventato lui l’esperto. Call of Duty invece era servito solo a dare una nuova risorsa ai suoi silenzi, al suo isolamento.
Anna poi non aveva apprezzato, non si dovrebbe regalare a un ragazzo un gioco cosí, è intollerabile tanta violenza gratuita. Lui aveva risposto che c’è violenza in tutte le fiabe, nelle storie per i ragazzi, bisognerebbe non raccontare piú Cappuccetto Rosso. Lei aveva replicato qui non c’è nessuna storia, lui aveva detto sí che c’è, lei aveva fatto notare però qui sei tu a sparare, non devi neppure immedesimarti, fare uno sforzo di immaginazione, non c’è catarsi, c’è solo mio figlio che ammazza tutti quelli che gli capitano a tiro e gli sembra normale, poi è chiaro che appena si sente sotto pressione reagisce male, lancia gli oggetti contro il muro: colpire, sparare è ormai un’abitudine, magari non capisce com’è possibile che qui nella vita vera i nemici non li puoi eliminare.
Matteo aveva riposto che tutti i bambini giocano a spararsi, adorano le pistole finte, questo non fa di loro degli assassini in erba. Anna si era infuriata, ai bambini che giocano non esce il sangue dalla testa, non c’è tutto questo realismo. Lui aveva detto sí lo so, ma sono cambiati i tempi, i nostri ragazzi hanno bisogno di un po’ piú di verosimiglianza, Call of Duty è solo un modo piú cruento di sfogare la rabbia, è un gioco. Ammazzarsi non è un gioco, aveva protestato lei. Certo che lo è, aveva replicato Matteo, sfoderando la sua teoria: è il gioco con cui si impara quanto valga la vita, come sia fragile.
Lei si era aggiustata gli occhiali, e aveva detto ma che significa. Lui aveva cercato di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'ultima famiglia felice
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. Ringraziamenti
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Copyright