La forbice tra la Costituzione vigente, scritta dopo la Resistenza al nazifascismo e approvata nel 1948, e la cosiddetta “Costituzione materiale”, cioè la trasformazione, o il travisamento, della prima nella pratica politica, ha creato negli ultimi decenni un doppio Paese. Un’Italia fondata sul progetto di attuare gli altissimi principî di uguaglianza, solidarietà e libertà contenuti nella Carta, e un’altra Italia fondata sulla speculazione in ogni ambito possibile (col solo limite dell’immaginazione). Penultimo anno dell’èra Berlusconi: il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, auspica la modifica dell’art. 41 della Costituzione, che limita e indirizza l’iniziativa economica verso il bene comune. «Il mondo – spiega Tremonti in un articolo uscito il 26 giugno 2010 su “Il Sole 24 Ore” con il titolo Tremonti spiega come uscire dal Medioevo per liberare le imprese – è radicalmente cambiato con la globalizzazione. La competizione, non solo tra imprese ma tra interi sistemi, fa ormai parte della realtà». Affinché l’impresa sia liberata da regole e controlli, bisogna intervenire su quell’articolo desueto della Carta. Un articolo scritto in un contesto politico che «conteneva latente l’idea di attenuare il conflitto di classe, l’idea di mitigare l’opposizione tra capitale e lavoro, l’idea di ridurre il rischio dell’eccesso del dominio degli uni sugli altri. Mentre ora, all’opposto, la questione non è quella di fare un arbitraggio tra parti sociali per difendere gli uni dagli eccessi degli altri». Ma in Italia le disuguaglianze crescono, e gli eccessi delle forze economiche piú egoiste non privano solo i lavoratori dei diritti sociali, ma tutti i cittadini di un bene prezioso e non replicabile: il paesaggio. La proposta di «Semplificazione certificata di inizio attività» (Scia) per l’edilizia contenuta nel decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010 rappresenta un nuovo attacco all’art. 9 della Costituzione, a vantaggio di un blocco di potere che considera la distruzione del paesaggio un “danno collaterale” del progresso. Con Paesaggio Costituzione cemento, pubblicato da Einaudi nello stesso anno, Salvatore Settis ha preso fortemente posizione contro questo blocco, ben rappresentato in Parlamento, che manipola le regole della democrazia per sovvertirne il contenuto. Infatti, nonostante le lucide argomentazioni opposte al decreto, ed espresse anche nell’articolo La manovra uccide il nostro paesaggio («la Repubblica», 12 luglio 2010), il 31 luglio la Scia è entrata ugualmente in vigore. [A. F.]
Prima pubblicazione, con lo stesso titolo, in «la Repubblica» del 20 luglio 2010.
Profeticamente, Roberto Saviano ha scritto in Gomorra:
La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana.
Proprio questo sta accadendo. Il 4 giugno Tremonti annuncia l’intenzione di modificare l’art. 41 della Costituzione, secondo cui «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»: secondo il ministro, invece, bisogna «uscire dal Medioevo per liberare le imprese». Il “nuovo” articolo 41 deve cancellare i controlli, imporre una totale deregulation. E infatti l’8 luglio il sen. Azzollini (Pdl, ora Ncd) presenta al Senato un emendamento alla “manovra” economica secondo il quale il costruttore può avviare cantieri senza alcun permesso, producendo contestualmente un’autocertificazione (“segnalazione certificata di inizio attività”, o Scia), valevole anche nelle aree con vincolo paesaggistico, e lasciando alle amministrazioni l’opzione di un controllo ex post.
Proprio come se la riforma costituzionale vagheggiata da Tremonti (che le Camere non hanno nemmen principiato a discutere) fosse stata già approvata. L’Italia diventerebbe cosí, secondo la profezia di Saviano, una Repubblica fondata sul cemento. Peggio: anche in caso di falsa dichiarazione, con l’emendamento Azzollini i lavori già iniziati sarebbero “blindati”, consolidandosi 30 giorni dopo la dichiarazione (anche se falsa), e senza sanzioni né per l’impresa né per il costruttore, a meno che le amministrazioni non dimostrino «un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l’ambiente, la salute». Insomma, piena licenza di abusivismo per i danni ambientali “di modica quantità” (a giudizio delle stesse imprese); un’escalation brutale anche rispetto ai condoni edilizi che abbiamo subito da Craxi in poi.
Lo abbiamo già scritto («la Repubblica», 12 luglio): questa norma violerebbe principî fondamentali della Costituzione come la tutela del paesaggio (art. 9), il principio di utilità sociale dell’impresa e della proprietà (artt. 41 e 42), la centralità e dignità sociale della persona (artt. 2 e 3). L’appello di «la Repubblica» non è rimasto inascoltato: oltre a Italia Nostra, che già aveva manifestato viva preoccupazione alla prima e meno aggressiva versione della “manovra”, Fai e Wwf invitarono il ministro dei Beni culturali Bondi a esprimere «un civile sdegno» contro questo «vero e proprio assoluto Far West». Altre voci si unirono subito, dall’opposizione ma anche dalla maggioranza, come l’on. Fabio Granata, che parlò di «minaccia gravissima e incivile per paesaggio e ambiente», mentre Bondi si dichiarava «sorpreso» dall’emendamento, prodotto «senza che il Ministero ne sia stato informato». Ma è stato l’intervento del Quirinale che ha convinto il governo a correggere gli aspetti piú perversi della proposta, richiamando i valori della Costituzione. Grazie all’efficace esercizio della moral suasion, nella nuova versione la Scia non si applica nelle aree vincolate; i termini di reazione delle amministrazioni si estendono da 30 a 60 giorni; si introducono sanzioni, senza limiti di tempo, per le dichiarazioni mendaci; infine, si cancella l’assurdo limite all’intervento delle amministrazioni, non piú limitato ai soli danni “gravi e irreparabili”.
L’intervento del Colle ha depotenziato gli aspetti piú pericolosi di una norma anticostituzionale. Ma la partita non è chiusa: la Scia, infatti resta, anche se escludendo le aree vincolate. Come ha scritto Giuseppe Galasso sul «Corriere» (17 luglio), la “legge Galasso” (1985), poi recepita nel Codice dei beni culturali (2004), considera il paesaggio come un insieme organico «nella sua storica e fisica configurazione», affidandone la tutela non al solo strumento del vincolo, ma alla pianificazione paesistica. «La trama dei vincoli è una groviera largamente perforabile e perforata, per cui la riserva è importante ma non rassicurante». Si aggiunga che la Scia può essere impunemente applicata in tutte le aree sensibili non vincolate, per esempio nelle zone sismiche senza vincolo paesistico, che in Italia sono enormemente grandi, o nelle “zone insalubri” dove insediamenti industriali a rischio, discariche, depositi di carburante e cosí via potranno essere ampliati a dismisura senza il minimo controllo: con una “segnalazione” autocertificata, appunto. Solo l’abolizione di ogni forma di Scia, cioè il ritorno alla procedura corrente in tutto il territorio, sarebbe tranquillizzante.
Ma c’è da scommettere che non sarà cosí. Quali siano le intenzioni di chi ci governa lo si vede nel Lazio, Regione amministrata da Forza Italia, dove l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti ha appena annunciato una “rivoluzione in dieci mosse”: via libera agli interventi nei centri storici, nelle zone agricole e nei condomini; «abbandono del concetto di adeguamento sismico»; ampliamenti consentiti in sopraelevazione, anche oltre il limite di mille metri cubi, e questo per «coinvolgere maggiormente Roma, oggi tagliata fuori dalla legge» («Il Sole», 14 luglio). Tutto, pur di costruire. In un Paese dove un milione di case risultano vuote (cosí il rapporto Legambiente diffuso il 15 luglio), e che mantiene saldamente il primato europeo nell’abusivismo edilizio, il partito del cemento continua a imperare. Abbiamo il piú basso incremento demografico d’Europa e insieme il piú alto consumo di suolo: eppure chi ci governa sembra credere che “il mattone” sia l’unica forma nota di investimento produttivo. Questa mentalità arcaica, che distoglie capitali da forme ben piú dinamiche di investimento, non solo frena lo sviluppo del Paese, ma ne distrugge la risorsa piú preziosa: il paesaggio e l’ambiente. Secondo la Corte Costituzionale (per esempio nella sentenza n. 367 del 2007), il paesaggio incarna valori costituzionali «primari e assoluti», che sovrastano qualsiasi interesse economico, e perciò esige «un elevato livello di tutela, inderogabile da altre discipline di settore». È ribadendo questi valori che si deve rispondere a miserevoli espedienti come la Scia, alla sciatta deregulation di una Costituzione immaginaria scritta col cemento.
Febbraio 2011: durante un discorso contro il riconoscimento dei matrimoni gay e le adozioni per le coppie omosessuali, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi rivendica la libertà per i genitori italiani di iscrivere i propri figli in istituti privati. Nelle scuole pubbliche, egli afferma, «gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie». Le parole del premier suscitano le ire della sinistra e del segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani, che chiede con forza un intervento del ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini. A pochi giorni di distanza Gelmini si pronuncia pubblicamente in difesa di Berlusconi, citando la Costituzione ma travisandone completamente il senso. (Sugli stessi temi l’intervista di Melania Di Giacomo a Settis, sul «Corriere della Sera» del 26 luglio 2015, con una lettera di Gerardo Bianco e la risposta di Settis sullo stesso giornale, 30 luglio 2015). Intanto la scuola pubblica, che secondo Calamandrei è un “organo costituzionale”, non gode di ottima salute. I governi degli ultimi anni, infatti, hanno continuato a dirottare sugli istituti privati cospicui finanziamenti pubblici. Come ha mostrato l’inchiesta pubblicata a febbraio 2015 sul settimanale «l’Espresso» la cifra complessiva di fondi pubblici alla scuola privata ha toccato i 700 milioni di euro all’anno (Michele Sasso, Alle scuole private un fiume di soldi pubblici, in «l’Espresso», 2 febbraio 2015). [A. F.]
Prima pubblicazione, con lo stesso titolo, in «la Repubblica» del 1o marzo 2011.
È bello che l’onorevole Gelmini, nel commentare le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla scuola, abbia citato la Costituzione. Peccato che l’abbia citata a sproposito, capovolgendone il senso. Secondo l’on. Gelmini, «il pensiero di chi vuol leggere nelle parole del premier un attacco alla scuola pubblica è figlio della erronea contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria. Per noi, e secondo quanto afferma la Costituzione italiana, la scuola può essere sia statale, sia paritaria. In entrambi i casi è un’istituzione pubblica, cioè al servizio dei cittadini». Ma la Costituzione non dice questo, dice il contrario (art. 33). Dice che «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Dice che «la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». L’art. 34 aggiunge che «l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita», e prescrive alla Repubblica l’obbligo di privilegiare, con borse o aiuti economici alle famiglie, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi».
La Costituzione stabilisce dunque una chiarissima gerarchia. Assegna allo Stato il dovere di provvedere all’educazione dei cittadini (obbligatoria per i primi otto anni) e di garantirne l’uguaglianza con provvidenze ai «capaci e meritevoli». Fa della scuola di Stato il modello a cui le scuole private devono adeguarsi, e non ipotizza nemmeno alla lontana due modelli di educazione alternativi e concorrenti. Ma come può esser mantenuta l’efficacia del modello, se la scuola pubblica viene continuamente depotenziata tagliandone personale e risorse, e per giunta irridendo chi ci lavora? Lo smottamento in direzione della scuola privata comincia con i governi di centrosinistra (decreti Berlinguer del 1998 e 1999, legge 62 del 2000, governo D’Alema), e con i governi Berlusconi diventa una frana: si tagliano i finanziamenti alla scuola pubblica e si incrementano i contributi alla scuola privata, sia in forma diretta che con assegni alle famiglie, e senza alcun rispetto per il merito degli allievi. A meno che il merito non consista, appunto, nell’aver scelto una scuola privata. Ed è dal 1999 (riforma Bassanini) che il ministero oggi ricoperto dall’on. Gelmini non si chiama piú “della Pubblica Istruzione”, ma “dell’Istruzione” (senza “pubblica”). Anziché inveire contro «la scuola di Stato dove ci sono insegnanti che vogliono inculcare negli alunni principî contrari a quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli», ipotizzando una scuola pubblica dominata dalla sinistra, Berlusconi dovrebbe dunque ringraziare la sinistra per aver inaugurato con tanto successo la deriva in favore della scuola privata.
Ancora una volta, l’uomo che per il suo ruolo istituzionale dovrebbe rappresentare lo Stato e il pubblico interesse agisce dunque come il leader dell’anti-Stato. A una Costituzione che assegna allo Stato il compito di dettare regole sulla scuola e di imporre ai privati il rispetto delle stesse regole (e l’onere di cercarsi i finanziamenti dove credono), si va cosí sostituendo, con l’applauso del ministro della già Pubblica Istruzione, una Costituzione immaginaria, nella quale “libertà” vuol dire distruzione della scuola pubblica, vuol dire convogliare i finanziamenti statali sulle scuole private, vuol dire legittimare l’idea che nelle scuole pubbliche si “inculcano” principî antilibertari, mentre nelle scuole private tutto è automaticamente libero, perfetto, “costituzionale”.
Eppure nel riformare la scuola, uno dei pochissimi provvedimenti di un governo che ha il record dell’inazione e della paralisi, l’on. Gelmini si è fondata sull’articolo 33 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione». È lo stesso articolo che, una parola dopo, stabilisce la centralità e la priorità della scuola pubblica, disprezzata dal presidente del Consiglio. Ma la “Costituzione materiale” di cui si va favoleggiando (cioè l’arma impropria con cui si vuol demolire l’unica e sola Costituzione, quella scritta) ha ormai come principio fondamentale il cinico abuso di quanto, nella Costituzione, può esser distorto a beneficio di una “libertà”, quella del premier, che consiste nell’elogiare l’evasione fiscale in un discorso alla guardia di Finanza (11 novembre 2004), nell’attaccare ogni giorno la magistratura, nel regalare al suo amico Gheddafi cinque miliardi di dollari tolti alla scuola, al teatro, all’università, alla musica, alla ricerca, alla sanità, nel consegnare il territorio del Paese alla speculazione edilizia, nel legittimare col condono chi viola le leggi, nel creare per se stesso super-condoni, usando le (sue) leggi contro la forza della Legge.
“Inculcare principî”: questa la concezione dell’educazione (pubblica o privata) che Berlusconi va sbandierando. Fino a quando lasceremo che “inculchi” impunemente nell’opinione pubblica l’idea perversa che compito di un governo della Repubblica è smantellare lo Stato, sbeffeggiando chi serve il pubblico interesse?
All’indomani della condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa emessa dalla Corte d’appello di Palermo (e confermata nel 2014 in Cassazione) nei confronti di uno dei piú stretti collaboratori di Silvio Berlusconi, il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, l’immagine del presidente del Consiglio si moltiplica sugli schermi televisivi. In 24 ore il Cavaliere interviene 5 volte sulle reti nazionali Rai e Mediaset (Tg1, Tg2, Gr2, Tg5 e Tg4), nel tentativo di vendere un’immagine smagliante di se stesso e del proprio governo. Ma lo spettacolo circense apparecchiato per gli italiani serve solo a distrarre dai veri problemi del Paese: un’evasione fiscale che – ha affermato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi in un’intervista rilasciata a «Il Sole 24 Ore» del 31 maggio 2010 – ha contribuito enormemente ad aumentare il debito pubblico; e una corruzione virulenta, simboleggiata dal faccendiere milanese Luigi Bisignani, uno dei protagonisti, insieme al deputato Pdl Alfonso Papa, dell’inchiesta P4 condotta dalla Procura di Napoli. Intanto, i partiti s’industriano a perpetuare il proprio sistema di potere, legiferando su come limitare la libertà di cronaca nell’uso delle intercettazioni, e continuano il loro assalto al paesaggio e all’articolo 9 della Costituzione con nuove ”semplificazioni” nel settore edilizio, come l’introduzione del “silenzio-assenso” contenuto nel Decreto-sviluppo n. 70, convertito in legge n. 106 il 12 luglio 2011. Cittadini, associazioni e movimenti civici restano gli unici difensori della democrazia costituzionale e dei suoi principî. [A. F.]
Prima pubblicazione, con il titolo Lo spettacolo che non fa ridere, in «la Repubblica» del 5 luglio 2011.
La sindrome di Salò che assedia l’armata Brancaleone al governo fa spettacolo ma non fa ridere, perché trascina il Paese nel baratro bloccandone la crescita in nome di falsi bersagli, spesso strillati e sempre rimandati. Di un regime (da operetta, non da tragedia) agli sgoccioli ci sono sintomi e stimmate: concordia in superficie e risse dietro le quinte, proclamato attivismo e sostanziale paralisi, fedeltà di facciata ai Capi (Berlusconi e Bossi) che tutti considerano “bolliti”. Una “tenuta” apparente, una caduta imminente. Con spietata lucidità, Eugenio Scalfari ha fotografato («la Repubblica», 4 luglio) un fallimento epocale: mancata riforma fiscale, aumento del debito pubblico e della spesa corrente, crescita selvaggia dell’evasione fiscale, peggioramento dei servizi, crescita della disuguaglianza sociale, radicalizzazione del precariato, netto calo di produttività e competitività, una manovra fiscale che pesa solo sul lavoro dipendente, sui pensionati, su Regioni e Comuni. Intanto l’Italia è precipitata al 167o posto al mondo (su 179 Paesi considerati) nel rapporto percentuale Pil/persone, condivide con l’Irlanda il record europeo di dottori di ricerca costretti a emigrare, man...