L'asimmetria e la vita
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L'asimmetria e la vita

Articoli e saggi 1955-1987

  1. 296 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'asimmetria e la vita

Articoli e saggi 1955-1987

Informazioni su questo libro

Dal 1955 al 1987, anno della sua scomparsa, Primo Levi pubblicò su giornali e riviste una serie di articoli di varia natura e occasione, che sono stati raccolti per la prima volta integralmente nell'edizione delle Opere (Einaudi, 1997). Questo volume ne ripropone un'ampia scelta, che rende ragione dei molti «mestieri» leviani: quello di testimone, di scrittore, di chimico.
La prima parte riunisce i testi dell'esperienza del Lager. Scritti vari: prefazioni, tra cui quella celebre scritta per l'autobiografia di Rudolf Höss, l'indignata condanna del negazionismo e l'emblematico Deportati. Anniversario (1955) dove Levi lamenta la caduta di interesse sull'argomento dei campi di sterminio, mettendo in guardia contro la perdita della memoria collettiva.
Nei saggi della seconda parte si va dall'autobiografia letteraria ( Lo scrittore non scrittore, Itinerario d'uno scrittore ebreo ), alle recensioni, alla storia degli Ebrei italiani ed europei, fino ad approdare a scritti di esemplare rigore scientifico ( L'asimmetria e la vita ) e morale ( L'intolleranza razziale ).
Nella vastità degli argomenti, nella coerenza delle riflessioni, nella chiarezza dello stile, queste pagine ci riconsegnano il Primo Levi appassionato e antiretorico che abbiamo da tempo imparato a riconoscere come un classico delle nostre lettere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806160500
eBook ISBN
9788858422014
Parte prima

Buco nero di Auschwitz

Deportati. Anniversario

A dieci anni dalla liberazione dei Lager, è triste e significativo dover constatare che, almeno in Italia, l’argomento dei campi di sterminio, lungi dall’essere diventato storia, si avvia alla piú completa dimenticanza.
È superfluo, in questa sede, ricordare le cifre; ricordare che si è trattato della piú gigantesca strage della storia, tale da ridurre praticamente a zero, ad esempio, la popolazione ebraica di intere nazioni dell’Europa orientale; ricordare che, se la Germania nazista fosse stata in grado di condurre a termine il suo piano, la tecnica sperimentata in Auschwitz ed altrove sarebbe stata applicata, con la nota serietà dei tedeschi, ad interi continenti.
Dei Lager, oggi, è indelicato parlare. Si rischia di essere accusati di vittimismo, o di amore gratuito per il macabro, nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, di mendacio puro e semplice, o magari di oltraggio al pudore.
È giustificato questo silenzio? Dobbiamo tollerarlo, noi superstiti? Debbono tollerarlo coloro che, impietriti dallo spavento e dalla ripugnanza, hanno assistito, fra colpi, bestemmie e urla disumane, alle partenze dei vagoni piombati, e, anni piú tardi, al ritorno dei pochissimi sopravvissuti, rotti nel corpo e nello spirito? È giusto che si ritenga esaurito quel compito di portare testimonianza che allora veniva sentito come un bisogno e come un immediato dovere?
La risposta non può essere che una. Non è lecito dimenticare, non è lecito tacere. Se noi taceremo, chi parlerà? Non certo i colpevoli ed i loro complici. Se mancherà la nostra testimonianza, in un futuro non lontano le gesta della bestialità nazista, per la loro stessa enormità, potranno essere relegate tra le leggende. Parlare, quindi, bisogna.
Pure il silenzio prevale. C’è un silenzio che è frutto di coscienza malsicura, o addirittura di cattiva coscienza: è il silenzio di coloro che, sollecitati o forzati ad esprimere un giudizio, tentano in ogni modo di deviare la discussione, e chiamano in causa le armi nucleari, i bombardamenti indiscriminati, e il processo di Norimberga, e i problematici campi di lavoro sovietici: argomenti di per sé non privi di peso, ma in tutto irrilevanti ai fini di una giustificazione morale dei delitti fascisti, i quali, per modo e misura, costituiscono un monumento di ferocia tale che in tutta la storia dell’umanità non è dato trovarvi riscontro.
Ma non sarà fuori luogo accennare ad un altro aspetto di questo silenzio, di questa reticenza, di questa evasione. Che se ne taccia in Germania, che ne tacciano i fascisti, è naturale, ed in fondo non ci è sgradito. Le loro parole non ci servono a nulla, non attendiamo da loro risibili tentativi di giustificazione. Ma che dire del silenzio del mondo civile, del silenzio della cultura, del nostro stesso silenzio, davanti ai nostri figli, davanti agli amici che ritornano da lunghi anni di esilio in lontani paesi? Esso non è dovuto solo alla stanchezza, al logorio degli anni, al normale atteggiamento del «primum vivere». Non è dovuto a viltà. Vive in noi una istanza piú profonda, piú degna, che in molte circostanze ci consiglia di tacere sui Lager, o quanto meno di attenuarne, di censurarne le immagini, ancora cosí vive nella nostra memoria.
È vergogna. Siamo uomini, apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i nostri carnefici. Davanti all’enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera.
Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?
Ed altro ancora rimane da dire: cose dolorose e dure, che, a chi ha letto Les armes de la nuit, non suoneranno nuove. È vanità chiamare gloriosa la morte delle innumerevoli vittime dei campi di sterminio. Non era gloriosa: era una morte inerme e nuda, ignominiosa e immonda. Né è onorevole la schiavitú; ci fu chi seppe subirla indenne, eccezione da considerarsi con riverente stupore; ma essa è una condizione essenzialmente ignobile, fonte di quasi irresistibile degradazione e di naufragio morale.
È bene che queste cose siano dette, perché sono vere. Ma sia chiaro che questo non significa accomunare vittime e assassini: questo non allevia, anzi aggrava cento volte la colpa dei fascisti e dei nazisti. Hanno dimostrato per tutti i secoli a venire quali insospettate riserve di ferocia e di pazzia giacciano latenti nell’uomo dopo millenni di vita civile, e questa è opera demoniaca. Hanno lavorato con tenacia a creare la loro gigantesca macchina generatrice di morte e di corruzione: non sarebbe pensabile delitto maggiore. Hanno insolentemente costruito il loro regno con gli strumenti dell’odio, della violenza e della menzogna: il loro fallimento è un monito.
In «Torino», XXXI, n. 4, aprile 1955, numero speciale dedicato al decennale della Liberazione, pp. 53-54; una versione piú breve in «L’Eco dell’educazione ebraica», numero speciale per il decennale della Liberazione, aprile 1955, p. 4.

Monumento ad Auschwitz

Entro un tempo relativamente breve, se si tenga conto della mole dell’opera, entro due anni, forse prima, sorgerà in Auschwitz, sul luogo stesso che vide in atto la maggiore strage della storia umana, un monumento. Nella gara di secondo grado per la scelta del progetto, che di recente si è svolta, sono riusciti vincitori a pari merito un gruppo di artisti polacchi e due gruppi di architetti e scultori italiani: dalla loro collaborazione è scaturito il progetto esecutivo, che dal primo luglio è esposto al pubblico in Roma, nella Galleria nazionale d’Arte moderna. Sarà bene precisare: non «sorgerà» in senso stretto, ché anzi in buona parte starà al livello del suolo o sotto; non sarà un monumento nel comune senso del termine, poiché occuperà non meno di 30 ettari di terreno; e non sarà in Auschwitz centro, non cioè nella cittadina polacca di Oswiecim, bensí a Birkenau.
Riteniamo che a pochi il nome di Auschwitz suoni nuovo. In questo campo furono immatricolati circa 400000 prigionieri, di cui poche migliaia sopravvissero; quasi quattro milioni di altri innocenti furono inghiottiti dagli impianti di sterminio eretti dai nazisti a Birkenau, a due chilometri da Auschwitz. Non si trattava di nemici politici: in massima parte, erano intere famiglie di ebrei, con bambini, vecchi e donne, prelevati dai ghetti o direttamente dalle loro case; spesso con poche ore di preavviso, con l’ordine di portare appresso «tutto quanto occorre per un lungo viaggio», ed il consiglio ufficioso di non trascurare l’oro, la valuta ed i preziosi di cui disponessero. Tutto quanto portavano seco (tutto: anche le scarpe, la biancheria, gli occhiali), veniva loro tolto quando il convoglio entrava nel campo. Di ogni trasporto, un decimo in media veniva inoltrato ai campi di lavoro forzato; nove decimi (in cui erano compresi tutti i bambini, i vecchi e gli inabili, e la maggior parte delle donne) venivano immediatamente soppressi con un gas tossico originariamente destinato a liberare le stive dai topi. I loro corpi erano cremati in colossali impianti, appositamente costruiti dalla onesta Ditta Topf e Figli di Erfurt, a cui erano stati commissionati forni adatti ad incenerire 24000 cadaveri al giorno. Alla liberazione, si trovarono in Auschwitz sette tonnellate di capelli femminili.
Questi sono i fatti: funesti, immondi, e sostanzialmente incomprensibili. Perché, come sono avvenuti? Si ripeteranno?
Non credo che a queste domande si possa dare una risposta esauriente, né oggi né poi; ed è forse bene che sia cosí. Se a queste domande ci fosse risposta, significherebbe che i fatti di Auschwitz rientrano nel tessuto delle opere dell’uomo: che essi hanno avuto un movente, e quindi un germe di giustificazione. In qualche misura, ci è dato sostituirci nei panni del ladro, dell’assassino: non ci è invece possibile metterci nei panni del demente. Altrettanto impossibile è ripercorrere il cammino dei grandi responsabili: le loro azioni, le loro parole, rimangono per noi cerchiate di tenebra, non possiamo ricostruirne il divenire, non possiamo dire «dal loro punto di vista…» È dell’uomo operare in vista di un fine: la strage di Auschwitz, che ha distrutto una tradizione ed una civiltà, non ha giovato a nessuno.
Sotto questo aspetto (e solo sotto questo!), è altamente istruttiva la lettura del diario di Höss, già comandante di Auschwitz. Il libro, la cui edizione italiana è in preparazione, è un documento agghiacciante: l’autore non è un sadico sanguinario né un fanatico pieno d’odio, ma un uomo vuoto, un idiota tranquillo e diligente, che si studia di svolgere colla miglior cura le iniziative bestiali che gli vengono affidate, e in questa obbedienza sembra trovare appagamento pieno di ogni suo dubbio o inquietudine.
Mi pare che solo in questo modo, e cioè come follia di pochi, e stolto e vile consenso di molti, i fatti di Auschwitz possano essere interpretati. Infatti, anche astraendo da ogni giudizio morale, e limitandoci al piano della «politica realistica», si deve pur constatare che tentativi come quelli hitleriani, eseguiti in Auschwitz e meticolosamente progettati per l’intera Nuova Europa, sono stati colossali errori. Esiste ovunque, in tutti i paesi, una capacità di indignazione, una concordia di giudizio di fronte a simili atrocità, di cui il nazismo non aveva tenuto conto, e a cui in definitiva il popolo tedesco deve lo stato di quarantena in cui tuttora si trova. Secondo ragione, una restaurazione concentrazionaria non dovrebbe minacciarci.
Ma è imprudente impostare previsioni sulla ragione. Osservava Jemolo or non è molto, su queste stesse colonne, quanto sia vano attribuire ai propri avversari piani lungimiranti e acume diabolico: è come dire che la stupidità, la sragione, sono forze storicamente operanti; l’esperienza lo ha purtroppo dimostrato, e non cessa di dimostrarlo. Un secondo Hitler può nascere, forse è già nato; bisogna tenerne conto. Auschwitz può dunque ripetersi. Tutte le tecniche, una volta trovate, vivono di vita propria, allo stato di potenza, in attesa dell’occasione che le ritraduca in atto. In 15 anni, le tecniche della distruzione e della propaganda sono progredite: distruggere un milione di vite umane premendo un bottone è piú facile oggi di ieri; pervertire memoria, coscienza e giudizio di 200 milioni di persone è ogni anno piú facile.
Non basta. La strage nazista porta il segno della follia, ma anche un altro segno. È il segno del disumano, della solidarietà umana negata, vietata, rotta; dello sfruttamento schiavistico; della spudorata instaurazione del diritto del piú forte, contrabbandato sotto l’insegna dell’ordine. È il segno della sopraffazione, il segno del fascismo. È la realizzazione di un sogno demenziale, in cui uno comanda, nessuno piú pensa, tutti camminano sempre in fila, tutti obbediscono fino alla morte, tutti dicono sempre di sí.
È perciò bene, è importante, che in questa nostra epoca di facili entusiasmi e di stanchezza profonda sorga in Auschwitz un monumento: e deve essere un’opera insieme nuova e perenne, che possa parlare oggi e domani e fra secoli, con linguaggio chiaro, a chiunque lo visiti. Non importa che sia «bello»: non importa se sfiorerà il retorico, se vi cadrà. Non deve essere utilizzato a fini di parte: deve essere un monumento-ammonimento che l’umanità dedica a se stessa, perché porti testimonianza, perché ripeta un messaggio non nuovo nella storia, ma troppo spesso dimenticato: che l’uomo è, deve essere, sacro all’uomo, dovunque e sempre.
In «La Stampa», 18 luglio 1959.

«Arbeit Macht Frei»

Come è noto, erano queste le parole che si leggevano sul cancello di ingresso nel Lager di Auschwitz. Il loro significato letterale è «il lavoro rende liberi»; il loro significato ultimo è assai meno chiaro, non può che lasciare perplessi, e si presta ad alcune considerazioni.
Il Lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin dall’inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio; e quindi credo da escludersi che quella frase, nell’intento di chi la dettò, dovesse venire intesa nel suo senso piano e nel suo ovvio valore proverbiale-morale.
È piú probabile che avesse significato ironico: che scaturisse da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, di cui i tedeschi hanno il segreto, e che solo in tedesco ha un nome. Tradotta in linguaggio esplicito, essa, a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press’a poco cosí:
«Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo concentrazionario.
Allo stesso scopo tende l’esaltazione della violenza, essa pure essenziale al fascismo: il manganello, che presto assurge a valore simbolico, è lo strumento con cui si stimolano al lavoro gli animali da soma e da traino.
Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per cosí dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non erano una triste necessità transitoria, bensí i primi, precoci germogli dell’Ordine Nuovo. Nell’Ordine Nuovo, alcune razze umane (ebrei, zingari) sarebbero state spente; altre ad esempio gli slavi in genere ed i russi in specie sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.
I Lager furono dunque, in sostanza, «impianti piloti», anticipazioni del futuro assegnato all’Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valida solo per quest’ultimo.
Se il fascismo avesse prevalso, l’Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio, e quelle parole, cinicamente edificanti, si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine e di tutti i cantieri.
In «Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959.

Il tempo delle svastiche

La Mostra della Deportazione, che era stata aperta a Torino (si può dire) in tono minore, ha conseguito un inaspettato successo. Per tutti i giorni di apertura, a tutte le ore, davanti a quelle terribili immagini ha sostato una folla serrata e commossa; la data della chiusura ha dovuto essere rinviata per ben due volte. Altrettanto sorprendente è stata l’accoglienza del pubblico torinese ai due successivi colloqui destinati ai giovani, che hanno avuto luogo nei locali dell’Unione Culturale a Palazzo Carignano: un pubblico fittissimo, attento, pensoso. Questi due risultati, in sé positivi e degni di non superficiale attenzione, contengono in germe un rimprovero: forse si è tardato troppo; forse abbiamo sprecato degli anni, abbiamo taciuto quando era tempo di parlare, abbiamo deluso una attesa.
Ma contengono anche un insegnamento (invero non nuovo, ché d’altronde la storia del costume è una serie di riscoperte): in questa nostra epoca fragorosa e cartacea, piena di propaganda aperta e di suggestioni occulte, di retorica macchinale, di compromessi, di scandali e di stanchezza, la voce della verità, anziché perdersi, acquista un timbro nuovo, un risalto piú nitido. Sembra troppo bello per essere vero, ma è cosí: l’ampia svalutazione della parola, scritta e pronunziata, non è definitiva, non è generale, qualcosa si è salvato. Per quanto sembri strano, oggi ancora chi dice il vero trova attenzione ed è creduto.
C’è da rallegrarsene; ma questa manifestazione di fiducia comporta, impone un esame di coscienza per tutti. In questa spinosa questione, del come trasmettere ai nostri figli un patrimonio morale e sentimentale che riteniamo importante, non abbiamo sbagliato anche noi? Probabilmente sí, abbiamo sbagliato. Abbiamo peccato per omissione e per commissione. Tacendo, abbiamo peccato di pigrizia e di sfiducia nella virtú del verbo; e quando abbiamo parlato, abbiamo peccato, spesso, adottando e accettando un linguaggio che non era il nostro. Lo sappiamo, la Resistenza ha avuto dei nemici e ne ha ancora, e questi, com’è naturale, manovrano affinché di Resistenza si parli il meno possibile. Ma ho il sospetto che questa soffocazione si svolga, in modo piú o meno conscio, anche con mezzi piú sottili, e cioè imbalsamando la Resistenza anzitempo, relegandola ossequiosamente nel nobile castello della Storia Patria.
Ora, a questo processo d’imbalsamazione, temo, abbiamo contribuito anche noi. Per descrivere e trasmettere i fatti di ieri, abbiamo troppo spesso adottato un linguaggio retorico, agiografico, e quindi vago. Che alla Resistenza si addica la denominazione di «Secondo Risorgimento» si può sostenere o negare con ottimi argomenti: ma mi domando se sia opportuno accentuarne questo aspetto, o non piuttosto insistere sul fatto che la Resistenza continua, o per lo meno dovrebbe continuare, perché i suoi obiettivi sono stati raggiunti solo in parte. In realtà, in questo modo si viene ad affermare una continuità ideale fra i fatti del 1848, del 1860, del 1918 e del 1945, a scapito della ben piú scottante ed evidente continuità fra il 1945 ed oggi: la cesura del ventennio fascista viene a perdere rilievo.
In conclusione, credo che se desideriamo che i nostri figli sent...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dall’altra parte dello specchio. Introduzione di Marco Belpoliti
  4. Nota ai testi
  5. L’asimmetria e la vita
  6. Parte prima. Buco nero di Auschwitz
  7. Parte seconda. Altrui mestieri
  8. Elenco dei nomi
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright