Se ci si concentra soltanto su Matteo, se lo si ritaglia dal gruppo inquadrandolo tra le dita, come dentro un mirino o nello schermo del televisore, si può persino credere che si comporti come si comporterebbe un signore buono. Ma se fosse stato buono, sarebbe andato a testa bassa al funerale di Terry, l’estate di un anno fa.
Se lo si stacca dal resto della compagnia, si indovinano i pensieri che gli passano per la mente. A volte gli bloccano lo sguardo per due o tre secondi; allora i suoi occhi fissano il nulla. Sulla fronte gli si disegnano rughe improvvise, e Matteo Scavone scuote la testa. Devono essere pensieri fastidiosi come le zanzare, immagina Giovanni, che ti si posano addosso per succhiarti il sangue anche dopo che hai spruzzato il Ddt. Uno come Matteo, che ha paura delle zanzare, perché non ha fatto entrare Nunzio in negozio? Perché non è andato al funerale di Terry?
Il gioco finisce quando il cameriere posa davanti a Matteo un piatto di spaghetti con le vongole. Giovanni spezza il triangolo di dita nel quale ha rimpicciolito Scavone. L’immagine si allarga, ritornano i suoni del ristorante, le risate, e quel pranzo che sembra un dispetto. Matteo pianta la forchetta nella matassa che ha sul piatto, la fa ruotare piano sennò le vongole scappano. Si porta alla bocca un gomitolo di spaghetti sgocciolanti, una lacrima d’olio gli lucida il mento. La salvietta cancella lo sporco. Come il rossetto di Terry, un anno fa. E forse ha cancellato anche Nunzio dai pensieri di Matteo, perché le rughe sulla sua fronte scompaiono.
Esplode un applauso nella grande sala del ristorante: ha lo stesso suono di quando piove all’improvviso. Si alza un grassone a capotavola. Giovanni lo ha già visto in tv. È un cantante napoletano.
L’uomo fa la riverenza a Matteo, solleva un braccio, spalanca la bocca, la gola gli si muove come se una ranocchia ci saltellasse dentro. Da quel gargarozzo parte una voce potente. Alcuni clienti che non c’entrano con Matteo e con gli amici, seduti ad altri tavoli, si voltano sorpresi da quel napoletano fenomenale che canta come se avesse uno stereo a tutto volume infilato nella pancia. La canzone dice che quello che è stato è stato, e scordiamoci il passato.
Le labbra di Matteo si stirano in un sorriso che Giovanni vorrebbe provare a descrivere. Gli si vedono dei pezzetti di pasta masticata agli angoli della bocca. In televisione certe volte mostrano dei coccodrilli grandi che mangiano i coccodrilli piccoli e poi se lo dimenticano. Ecco.
Giovanni è seduto a un tavolo in disparte, insieme a papà. Si volta verso di lui. Si chiede se è un coccodrillo grande, uno piccolo o non è un coccodrillo per niente.
Matteo deve essere uno di quelli grandi, su questo non ci piove.
Hanno preso soltanto un primo. Quel giorno suo padre non ha appetito. Giovanni meno di lui.
Il resto accade in fretta, e per caso. Giovanni si alza e va ai gabinetti del ristorante.
La toilette è uno stanzone bianco, illuminato da un neon che ti fa le mani pallide come quelle dei morti. Sulla tavoletta e sul lavandino ci si specchia. Non è sempre cosí. Giovanni c’è già stato altre volte. Oggi quel bagno l’hanno pulito alla perfezione perché Matteo prima o poi deve andarci a pisciare.
A Giovanni occorre tempo per farla. Deve rimanere in silenzio per qualche minuto, isolarsi dal resto del mondo, altrimenti è come se ce l’avesse annodato. Gli succede quando capisce che non è solo.
Li sente parlare nell’anticamera del gabinetto, dove ci si sciacqua le mani. Dapprima è un mormorio, poi un suono piú confuso. Le voci vanno e vengono. Giovanni riconosce quella nasale di Matteo Scavone.
– Insistono che abbiamo sbagliato.
– Eppure lo sanno che è come se il sigarettaio fosse morto pure lui.
– Qualcuno l’ha piú visto in giro? Io no.
– Mi sono informato, zio Matteo. Se ha cercato qualche ferro pulito, se si è messo in testa la vendetta, ce lo dicono. Per ora niente, anche dopo tutti questi mesi.
– E niente farà. Gli abbiamo tagliato i coglioni. Che ti dicevo io? Liquidare lui o quella buttana era lo stesso.
– È anche vero che la cosa si era organizzata per il sigarettaio.
– Ma che siamo, ragionieri? Tutto quadrato deve essere? Anche se ci è andata di mezzo una sucaminchia, meglio: meno sono e meno parlano. Alla prossima riunione glielo spiego io, agli altri.
– Loro ancora insistono che lo sbaglio non l’avrebbero fatto. Che forse è stata una questione personale.
– Personale di chi? Mia? Ma stiamo scherzando? Possono dire quello che vogliono. Io una cosa sola garantisco: nella prossima questione che dobbiamo sistemare, errori non ce ne saranno. Specialmente perché c’è un bambino di mezzo.
– È tutto confermato?
– Come stabilito: al bar vicino a dove lavora. Il Silver. Quando c’è meno traffico. Di mattina.
– Buono. Cosí siamo sicuri che non ha il figlio appresso. Tanto lui non entra in ufficio se non si addolcisce la bocca. Se non si compra…
Si intromette un rumore assordante che nella stanza vuota dei lavandini sembra un urlo. È la ventola dell’asciugamani elettrico. Giovanni non ha sentito aprire l’acqua. Non si sono lavati le mani per davvero. Accendere l’aria calda è un trucco per coprire quello che si dicono, scommette, perché potrebbe passare qualcuno davanti alla porta.
Il cannolo con la ricotta, Giovanni pensa velocemente. Al bar accanto all’ufficio di papà lo fanno fresco ogni mattina.
La pipí gli schizza tra le dita, lontana dal water, e tamburella sul pavimento. L’asciugatore elettrico si spegne al momento giusto.
– La spia conferma che il tempo c’è. E io mi fido, – ritorna a farsi sentire una delle due voci al di là della porta.
L’uomo che ha parlato con Matteo Scavone non ha volto, potrebbe essere uno qualsiasi dei tanti seduti al suo tavolo. Uno degli amici di papà.
Dopo che le porte si sono aperte e richiuse, quando Giovanni capisce che può rientrare in sala senza incrociare quegli uomini che parlano piano di cose terribili, ritrova Matteo a tavola. È nello stesso punto in cui l’aveva visto prima di andare al gabinetto. Nell’identica posizione. Sta ancora affondando la forchetta negli spaghetti.
Giovanni si siede accanto a suo padre. Incontra il suo sguardo. È tranquillo. La sensazione è contagiosa. Non può succedere niente di male, mai. Né a me né a te.
– Aspettami qui.
Papà si alza, Giovanni non fa in tempo ad afferrargli una manica.
Mentre si chiede se non sia il momento di urlare quello che ha ascoltato nei bagni, suo padre è già al tavolo di Matteo. Si piega su di lui, gli dice qualcosa.
Il resto, Giovanni l’ha già visto un anno prima.
Matteo avvolge la faccia di papà con entrambe le mani. Gliela stringe, sembra quasi che voglia avvicinarselo alla bocca e baciarlo. O tastargli la testa, le guance, la fronte, per capire di che pasta è fatto.
Papà soffia dal naso, in silenzio. Siede sulla poltrona del salotto e guarda il muro. Ha ancora indosso il giubbotto. Giovanni lo osserva dalla porta che dà sul corridoio. Poi gli si avvicina e lo bacia. Le guance di suo padre sanno di vento sporco.
Stanotte è stato in posti da cui andarsene in fretta. Ha camminato a piedi. Sotto una suola ha una gomma da masticare calpestata per distrazione.
– Vai a letto. Che fai alzato a quest’ora?
Giovanni si chiede se dirglielo o no. Ma si ricorda anche che suo padre gli ha fatto delle domande chiare e tonde, qualche tempo fa, in macchina. Ha impressi nella mente quel giorno e quelle parole, per filo e per segno. Può usarle pure lui.
– Papà.
– Dimmi.
– Dopo che mi accompagni a scuola, prima di entrare in ufficio, hai mai visto qualcuno?
– Qualcuno chi?
– Qualcuno. Non lo so. Oppure all’uscita, quando torni a prendermi. Qualcuno che ti guarda.
– No.
Silenzio. Lunghissimo.
– Perché?
– Niente. Dicevo per dire, papà. Pensieri che vengono. Ogni volta che tu torni a casa piú tardi dal lavoro o dai tuoi amici, io… – Un fiotto di saliva gli ostruisce la gola. – Papà, l’altra volta ho sentito cose brutte che…
– Che hai sentito? Che devi sentire, tu, a questa età? Che devi capire?
– Niente.
La pausa che arriva dopo è ancora piú lunga. Suo padre lo guarda senza dire nulla. Poco dopo si alza, va in camera da letto. Torna con la sua pistola.
– Io ho questa e me la porto sempre appresso. Sempre. Lo sai. E le cose le sento prima di te, quindi non farteli venire certi pensieri. Non mettere confusione in mezzo.
– Lo faccio perché io ho solo te, papà –. Giovanni stringe i pugni. – Cade il mondo, e a Giovanni Vetro resta suo padre e basta.
– E tua madre…
– No. Questo era un discorso tra maschi. Ecco perché sono rimasto sveglio fino a ora.
Ci sono odori che fanno amicizia e altri che si fanno la guerra, si ripete Giovanni. In quel caso uno solo vince. La cucina di casa puzza di stracotto e di sugo scappato dal bordo della padella.
Matteo sa di olio crudo: sembra niente, ma se ci metti un piede sopra scivoli. Terry sapeva di fragola, ma come quando la fragola si guasta dentro il frigorifero. Nunzio odorava di ciclomotore che corre, del filo di benzina che si è lasciato dietro quando è scomparso.
L...