Il peso dell’elefante.
Era il gennaio del 2007, era un sabato come oggi, il cielo era basso e pieno di nuvole.
Ero in ospedale, guardavo i dottori passare, le vestaglie, le macchinette del caffè, e il fatto di diventare padre per la prima volta mi faceva sentire come non fossi io, quasi assistessi alla vita di un altro.
Era sera, ero nella sala d’aspetto e non vedevo nessuno fumare. Nei film fumano sempre, pensavo, io invece no. Anche questo contribuiva a farmi percepire tutta la scena in maniera irreale, al rallentatore, attraverso un filtro.
Quel filtro ero io. Era la vecchia concezione di me stesso, la mia vecchia vita, la vecchia idea di tutto, tutto ciò che stava per cambiare e che io sentivo incombere su di me come quelle nuvole increspate e gonfie.
Paola sembrava tranquilla, mentre io somigliavo a un ubriaco prima del bicchiere di troppo. Camminavo ovattato, ondeggiante, con un sorriso ebete che, visto dal di fuori, doveva farmi apparire sereno ai limiti dell’incoscienza, oppure deficiente.
L’infermiera ci disse prima le otto, poi le nove, poi le dieci, poi le undici, poi non fece piú differenza.
Fu una notte lunghissima, interminabile. In cui affrontai tutte le mie paure in una volta sola e tutta la mia impotenza in una volta sola e tutta la mia inquietudine prima e il calo di adrenalina poi, che liberarono una gioia tenuta sotto pressione che mi invase i sensi quasi rabbiosa.
E niente, proprio ora, mentre sto scrivendo, mi rendo conto che in realtà non ho voglia di descrivere la situazione, il terrore, la forza vista ed espressa. Perché non è mica possibile o perché io non sono abbastanza bravo da saperlo dire. E anche perché sono cose cosà personali che poi sono diverse per ciascuno, e quindi alla fine l’esperienza mia resterebbe solo quella: la mia.
Dunque quel che volevo dire, che poi è il motivo di questo scritto, che sto digitando di corsa su un iPad mentre preparo le bambine per andare a scuola, che poi sono precisamente quelle che mi hanno ispirato lo scritto, è che secondo me ci sono solo due momenti decisivi nella vita di un uomo: c’è il prima e c’è il dopo.
Il prima e il dopo non sono uguali per tutti. Conosco persone per le quali il dopo è stato lasciarsi, altre per le quali è stato sposarsi. Per alcuni è stato trovare il lavoro dei propri sogni, per certi invece solo trovarlo, un lavoro. Per altri il dopo è stato andare ad Haiti con Medici senza frontiere. Una volta parlai con un vecchio, che avrei solo avuto voglia di abbracciarlo per tutto il tempo, e mi raccontò di quale dopo fosse stato esser liberato dagli americani, e di come al contempo ci siano cose che annullano tutti i dopo e offuscano molti prima, che mentre le vedi ti azzerano il futuro per sempre.
Quando diventi padre, il tuo dopo è che pesi tre chili e mezzo in piú, all’incirca. Comprendi già dal primo secondo che quello sarà un dopo definitivo, l’unica cosa della tua vita dalla quale non potrai mai piú tornare indietro. Nemmeno volendo, neanche impegnandoti con tutto te stesso, qualunque cosa tu faccia del tuo futuro, questo dopo non cambierà .
In compenso cambierà te. Ti sta già cambiando, lo ha già fatto, in una maniera che non sapresti dire ma che senti nelle braccia e nelle gambe, una metamorfosi.
Io ora di chili in piú ne ho circa una sessantina. Li porto a scuola ogni giorno e tutto il resto. Mi muovo come un elefante e non piú come una gazzella.
Ma il punto resta che la gazzella ogni mattina si alza perché sa che il leone. E il leone ogni mattina si alza perché sa che la gazzella.
L’elefante invece se ne frega. Non fugge e non rincorre. L’elefante si alza pure se ha dormito due ore e fa quel che bisogna fare, sapendo che è proprio il suo essere elefante a tenere insieme le cose. Si alza quando deve e si muove piano, anche nei negozi di cristalleria.
Ma quando si muove, non lo fa né per i leoni né per le gazzelle.
Lo fa perché la sua vita è cominciata quando è diventato elefante. È cominciata dopo. E quel dopo lÃ, quello dell’elefante, è l’unico dopo al mondo che è anche un prima. È il prima definitivo, il prima di tutto, l’inizio e la conclusione insieme. È anzi l’unica esperienza che azzera tutti i prima e tutti i dopo e trasforma tutto in durante.
L’elefante vive solo il presente e sa che il suo presente ha un peso, lo sente nelle braccia e nelle gambe. Nella schiena.
È questa la sua forza. Tutta quella che gli serve.
Quella che le gazzelle vorrebbero, e che i leoni si sognano.
Perché i bambini devono andare a scuola.
In auto, sto andando all’asilo con Ginevra e Melania dopo aver accompagnato Virginia a prendere il pulmino per la scuola elementare.
– Papà , ma perché i bambini devono andare a scuola?
– Eh, Ginevra, perché devono.
– No, ma perché i bambini devono andare a scuola?
– Perché è il loro lavoro. Il lavoro delle mamme e dei papà è lavorare. Il lavoro dei bambini è andare a scuola.
– Ma se i bambini fanno un lavoro, allora perché non ci dà nno i soldini?
– Ah, ma ve li dà nno, eh! Ve li dà nno, ve li dà nno. Solo che li teniamo noi mamme e papà . Poi, quando siete grandi, ve li restituiamo.
– Papà , ma quanti soldini ci dà nno?
– Eh, un po’. Soprattutto ai bambini che fanno i bravi a scuola.
– Ma piú di un euro?
– Ehm, sà sÃ, molti di piú.
– Quanti?
– Dieci euro.
– DIECI EURO? Ma sono tantissimi!
– Già .
– Papà , ma quando torniamo a casa me li fai vedere, i miei soldini?
Penso: «Meno male che non ho detto cinquecento».
– Va bene, Ginevra. Oggi quando torni te li faccio vedere.
– Ma, papà , anche a te ti dà nno dei soldini per il tuo lavoro?
– Be’, certo.
– Ma sempre dieci euro?
– No, no, a me ne dà nno di piú. Perché io sono grande.
– E quanti?
– Venti euro.
– VENTI EURO? Ma allora hai tantissimi soldi! Sei ricchissimo!
– No, Ginevra, venti euro non sono tantissimi soldi.
– Però sei ricchissimo, vero?
La guardo nello specchietto. Vedo gli occhi che ridono. Di fianco, Melania si sta ciucciando una calzina antiscivolo.
– SÃ.
La festina.
Paola è via per lavoro, le due piú piccole sono dai nonni, Virginia e io siamo a casa soli.
Ieri l’ho accompagnata a una di quelle terribili feste di compleanno delle elementari. La festa era di una sua amichetta, si svolgeva nello scantinato dell’oratorio che il prete mette gentilmente a disposizione, e c’era un’atmosfera che pareva di essere in un film di Nightmare. I soffitti alti poco piú di due metri, le bocche di lupo al posto delle finestre, qualche triste festone appeso ai muri, una scritta storta che diceva «Buon compleanno Mar a na», che i bimbi ci avevano già staccato le lettere. Le mamme erano tutte stipate nell’angolo in fondo, accanto al tavolino con le patatine e le Dixi, come tanti conigli in batteria.
Quando siamo entrati, essendo io l’unico papà presente, mi hanno squadrato come se un Unno ubriaco e nudo avesse fatto irruzione nella loro cartolina natalizia. È durata solo qualche secondo, perché io alle mamme faccio simpatia.
Dopo circa tre minuti la Maria Carla mi stava parlando dei suoi problemi di cervicale, la mamma di Mattia mi diceva che somiglio a coso quello là insomma hai capito dà i, e la madre della festeggiata mi ha portato un panino col salame.
Io volevo solo la morte e infatti mi ostinavo a tener su il giubbino con la cerniera chiusa e la sciarpa come segnale internazionale, a dire: ve la lascio e torno a prenderla poi, non fatevi illusioni, ho la macchina qua fuori col motore acceso e un cadavere nel baule. Ma niente, mi sono dovuto fermare mezz’ora a subire una conversazione che piuttosto le martellate sui calli con un battipalo arroventato.
Sul piú bello, mentre saluto Virginia sussurrandole: – Divertiti, passo a prenderti alle sette, – non entra il padre della festeggiata, carico di vassoi, e mi lancia uno sguardo che manco un cane randagio con la rogna sotto un acquazzone primaverile? «Dove cazzo vai, – diceva lo sguardo, – non puoi lasciarmi da solo con queste. C’è un patto di sangue fra tutti i maschi del mondo e tu lo sai, maledetto, stai qui, condividiamo la sorte avversa da buoni fratelli». Io l’ho riguardato e il mio sguardo diceva: «Col cazzo, la festina è tua e la figlia è tua e io ne ho già fatta una l’altro ieri, in casa, e a te non ricordo di averti visto, merda, e ringrazia che non ti sgambetto facendoti cadere tutti i tramezzini con le bandierine». E i suoi occhi, di rimando: «Non si fa cosÃ, però, questo è accanirsi, un errore capita a tutti, e poi io della tua festa manco lo sapevo, mia moglie mi dice solo quel che vuole e m’ha nascosto il bigliettino d’invito, scusa». Allora io ho ceduto al sentimento e mi sono avvicinato e gli ho preso mezza pila di vassoi e quando li abbiamo posati sul tavolone lui mi ha sorriso complice e dandomi di gomito mi ha detto: – Ce la facciamo una birretta? Eh? Eh? – che già su «birr» s’è sentito lo spostamento d’aria di ventiquattro mamme che si giravano verso di lui, all’unisono, fulminandolo con lo sguardo come se avesse bestemmiato in chiesa, pardon, all’oratorio. «Birra a una festa ...