Poi è sera, poi è notte. Nella sua minuscola cabina, Pietro ascolta la pioggia che non smette un minuto di cadere. Nel pomeriggio ha dormito, gli effetti indesiderati della noia, e quando è arrivato il momento di andare a letto non era per niente stanco. Un tuono fortissimo l’ha svegliato e adesso non fa che pensare a Barba in mezzo al temporale. Si rigira nel sacco a pelo fissando l’occhio di Orazio.
Dopo un po’ si alza e si affaccia sulla soglia della stanza dove i suoi genitori stanno dormendo. Vorrebbe chiamarli, svegliare uno dei due, ma poi ci ripensa e va verso lo zaino con le sue cose.
S’infila il retino nella cintura elastica del pigiama, si mette a tracolla il laccio a cui è attaccata la torcia e indossa le scarpe con le lucine che si accendono a ogni passo.
Guarda suo padre dormire; cosà raccolto nel lenzuolo sembra una larva gigante. Passa accanto a sua madre che invece dorme supina e il suo profilo è come una montagna: salite ripide, morbide discese, valli. Poi esce dalla stanza.
Il corridoio è illuminato da piccole luci blu poste in alto lungo il muro. Circa a metà c’è una stanza da cui invece proviene un bagliore bianco.
Gli sembra di respirare troppo forte e allora ripensa alla prova di coraggio che fa sempre con Matteo d’estate, quella del buio. Consiste nell’attraversare la strada che passa nel bosco proprio dietro la sua casa, in quel tunnel di alberi altissimi che schermano la luna. In fondo, alla base di una baracca dove qualcuno tiene un trattore, Matteo di solito lascia la torcia di Pietro. È cosà buio che sembra di camminare a occhi chiusi. Pietro procede a passo svelto e quando la strada finisce e tra le fronde degli alberi filtra un po’ di luce lunare, vede la baracca. Raccoglie la torcia, l’accende e se la punta contro il viso. Quello è il segnale. Vuol dire che il buio non ha vinto, e nemmeno la paura. Allora anche Matteo, dall’altra parte della strada, accende la sua torcia. Gli fa segno di tornare.
Il buio è sempre lo stesso, pensa ora Pietro, non cambia da un posto all’altro. Cosà fa il primo passo, poi il secondo. In un attimo si trova davanti al locale illuminato.
È una stanza con un tavolo e una sedia girevole e dei resti di cibo su un vassoio. C’è un calendario appeso al muro pieno di foglietti attaccati con lo scotch. Un televisore spento.
Continua a percorrere il corridoio fino in fondo. L’ultima porta è socchiusa, da dietro proviene un colpo di tosse. Pietro allora illumina la targhetta con due volpi delle steppe, poi lentamente spinge la porta e si affaccia.
Vede una cabina simile a quella dei suoi genitori. Lo stesso tavolino con le ruote, una poltrona e un letto. Un uomo molto vecchio lo sta fissando seduto sul bordo, le gambe a ciondoloni.
Ehi tu, gli dice.
La voce arriva improvvisa, insieme a un altro scoppio di tosse. Per lo spavento Pietro fa cadere a terra la torcia che si divide in tre parti.
Il vecchio indossa un camicione e i suoi piedi scalzi non toccano terra. Sembra essersi svegliato di soprassalto.
Hai sentito anche tu la scossa?, chiede al bambino.
Pietro si accuccia senza smettere di guardarlo, tasta il pavimento con la mano e ritrova i pezzi della torcia.
Quale scossa?
I maremoti, gli dice l’uomo, servono a ricordarci dove ci troviamo in un dato istante.
Le spalle premute contro la porta, Pietro cerca di rimontare la sua unica fonte di luce.
Ma se non hai sentito il maremoto, continua il vecchio, che diamine ci fai qui?
Pietro estrae il retino dalla cintura e glielo mostra.
Cercavo gli animali.
Gli occhi vacui dell’uomo puntano il cerchio di ferro da cui penzola la reticella verde.
Con quello non ci acchiappi nemmeno le farfalle.
Pietro si rimette il retino nei calzoni del pigiama e osserva l’uomo con piú attenzione. Ha un trespolo da cui pende una sacca di mangime.
Tu sei il custode?
Il custode di che cosa?
Degli animali.
Il trespolo deve essere destinato a un uccello molto grosso, pensa Pietro, forse un avvoltoio.
L’uomo scrolla le spalle e gli dice: può darsi.
Perché io ne ho sentito uno.
No, dice quello scuotendo la testa. Non puoi averne sentito nessuno.
Restano in silenzio a studiarsi l’un l’altro. L’uomo ha le guance scavate e sulla fronte piccole croste che ogni tanto si gratta via con le unghie. Sul termosifone accanto al letto ha messo a essiccare delle bucce di mandarino.
Io mi chiamo Pietro, e tu?
Il vecchio sembra pensarci. Cerca quell’informazione nella sua memoria compromessa dagli anni e poi dice: Noè.
Pietro abbassa gli occhi per nascondere un sorrisetto.
Cos’hai lÃ, sotto al braccio?, chiede il vecchio.
Lui si avvicina e gli mostra Orazio.
Un drago, risponde.
Ma ha perso un occhio.
Non l’ha perso, dice Pietro posandolo sul letto. È nato cosÃ.
Il vecchio non sembra convinto.
Lo sai che c’è un animale libero?, chiede Pietro.
Non ci sono animali liberi, risponde il vecchio seccato.
Ma io l’ho sentito.
Ti dico di no. Gli animali sono tutti chiusi nei loro recinti. Se ce ne fosse uno che gira libero, l’avrei già rimesso al suo posto.
Pietro rimane zitto mentre l’odore dei mandarini gli arriva forte alle narici.
Li senti questi tuoni, ragazzino?, dice ancora il vecchio. Poi indica un punto sopra le loro teste e si picchietta il dito su una tempia.
È colpa di questi tuoni, dice. La pioggia fa vedere e sentire cose che non esistono. Fa persino parlare da soli, come se ci fosse qualcun altro ad ascoltarci.
Pietro scrolla le spalle. Io vorrei solamente scoprire dove si nasconde.
Se tu mi aiuti, aggiunge.
Non ti posso aiutare a trovare una cosa che non esiste.
Si guardano negli occhi. Alle spalle dell’uomo, Pietro nota delle fotografie. In una c’è un pescatore con una grande trota appeso all’amo.
Quello sei tu da giovane?, chiede.
Il vecchio lentamente volta la testa. Distende un braccio che sembra fatto di fil di ferro e afferra il portaritratti. Osserva la fotografia come se la vedesse per la prima volta.
È mio nipote.
Pietro si avvicina per guardarlo meglio.
Anch’io vado a pesca, dice.
Non devi pescare pesci molto grossi con il tuo retino.
Lui scrolla le spalle un’altra volta.
Non li pesco mica per mangiarli. Li pesco per guardarli.
E cosa vedi guardando i pesci?
Pietro abbassa la testa, non sa cosa rispondere. L’uomo mette il ritratto al suo posto, poi con un dito secco e storto indica le ciabatte.
Fammi un favore, gli dice sospirando, aiutami a mettere quelle.
Pietro si accuccia e una dopo l’altra infila le ciabatte nei piedi rigidi del vecchio, che all’improvviso dà alcuni grassi colpi di tosse piegandosi da una parte per sputare in un fazzoletto. Quella mossa deve costargli moltissima fatica perché dopo i suoi occhi si riempiono di lacrime. Prende un lembo di camicia e se lo sistema a coprire un ginocchio. Si solleva in piedi tutto tremante. Allarga un po’ le braccia, come a testare l’equilibrio, e fa cenno a Pietro di spostarsi.
Quanti anni hai, gli chiede aggrappandosi alla sponda del letto.
Sei.
Vuoi sapere invece quanti ne ho io?
Quanti?
Novecento.
Pietro spalanca gli occhi. Non è vero.
Sà che è vero, li ho fatti il mese scorso. Sono molto vecchio, e stanco, lo sai che ore sono?
Pietro scuote la testa.
Ma allora non sai proprio un bel niente!, esclama restando ancorato alla sponda. Quando avevo sei anni come te, io sapevo già un sacco di cose.
Strisciando i piedi in piccoli passi s’incammina verso il bagno, afferra la maniglia come un appiglio nella tempesta.
Ce li hai dei genitori, almeno?
SÃ che ce li ho.
Beh, allora staranno in pensiero per te, poveretti.
Non stanno in pensiero. Stanno dormendo.
Lo credo bene che dormono, esclama il vecchio senza piú voltarsi, sono le tre e mezza!
Con una mano tasta la parete in cerca dell’interruttore della luce, l’altra resta salda sulla maniglia.
Pensa che sculacciata se non ti trovano.
La camera dell’artista è stata spostata in fondo al corridoio, dove prima il padre aveva lo studio: non abbastanza lontana per farle dire di non essere piú parte della casa. I termosifoni da quella parte hanno dei problemi, d’inverno non funzionano, e cosà l’artista riempie la stanza di candele sotto vasi di terracotta, un’illusione di calore autonomo.
Il cognato bussa alla porta accostata, dà una rapida occhiata, le dice: mo’ ti sei messa a sfidare la termodinamica?
La vecchia cameretta dell’artista e di sua sorella, invece, è diventata una specie di magazzino dove hanno stipato tutti gli arredi vecchi in attesa di venderli. L’artista passa molto tempo in quella stanza. Disegna tra gli scatoloni da cui spuntano vecchi dischi di Aznavour e a volte si appisola sul divanetto stile impero avvolto nel cellophane.
Quando la cena è pronta, si siedono tutti e tre al tavolo della cucina. La sorella dell’artista serv...